Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 42818 del 19/06/2014


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 42818 Anno 2014
Presidente: SAVANI PIERO
Relatore: SETTEMBRE ANTONIO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
PROCURATORE GENERALE PRESSO CORTE D’APPELLO DI
NAPOLI
nei confronti di:
SA VARESE SALVATORE N. IL 12/12/1974
GUERRERA VINCENZO N. IL 28/04/1990
DELLA CORTE GIOVANNI N. IL 14/06/1984
inoltre:
SAVARESE SALVATORE N. IL 12/12/1974
avverso la sentenza n. 6875/2012 CORTE APPELLO di NAPOLI, del
09/11/2012
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 19/06/2014 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. ANTONIO SETTEMBRE
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott.
che ha concluso per

Data Udienza: 19/06/2014

- Udito il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione,
dr. Sante Spinaci, che ha chiesto l’annullamento con rinvio della sentenza
impugnata.

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte d’appello di Napoli, con sentenza del 9/11/2012, in parziale riforma

Guerrera Vincenzo e Della Corte Giovanni per tentata violenza privata in danno
di Di Vicino Alfonso, Di Vicino Salvatore e Di Vicino Vincenzo per avere, con
minaccia, compiuto atti idonei diretti in modo non equivoco a costringere i tre
soprannominati a lasciare il quartiere Sanità di Napoli, al fine di non avere
concorrenti – in zona – nello spaccio di stupefacenti. Con la sentenza d’appello è
stata esclusa l’aggravante di cui all’art. 7 d.l. 13 maggio 1991 n. 152, conv. in I.
12 luglio 1991 n. 203, riconosciuta invece dal primo giudice (il quale aveva
ritenuto che la condotta fosse finalizzata ad avvantaggiare l’organizzazione
camorristica costituitasi nel quartiere suddetto dopo la disgregazione del clan
Misso e, comunque, che i tre si fossero avvalsi delle condizioni di cui all’art.
416/bis cod. pen.).

2. Contro la sentenza suddetta hanno proposto ricorso per Cassazione sia il
Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di appello di Napoli sia
Sava rese Salvatore.
2.1. Il Pubblico Ministero ricorrente lamenta l’erronea applicazione dell’art. 7 L.
203/91 e l’illogicità della motivazione spesa per negarla. Deduce che la Corte
d’appello non ha tenuto conto dei rapporti – emergenti agli atti – di Savarese col
clan Lo Russo, che tendeva a sostituirsi al clan Misso, disgregato dalle iniziative
giudiziarie; rapporti che spiegano l’intimazione – sopra riportata – rivolta dagli
imputati alle vittime e ne svelano la finalità: quella di avvantaggiare il clan
emergente nella lotta per il predominio. Inoltre, che non abbia tenuto conto delle
modalità concrete dell’intimazione, già di per sé integrante il metodo mafioso,
perché munita di particolare forza intimidatrice.
2.22. Savarese Salvatore, con dichiarazione resa alla Direzione del Centro
Penitenziario Secondigliano il 30/3/2013, ha proposto anch’egli ricorso per
Cassazione, senza indicarne i motivi.

CONSIDERATO IN DIRITTO

2

(D/L

di quella emessa dal locale Tribunale, ha condannato Savarese Salvatore,

1. Il ricorso del Pubblico Ministero è infondato e va, pertanto, rigettato. La Corte
d’appello ha escluso la ricorrenza dell’aggravante dell’art. 7 L. 203/91 sulla base
della decisiva considerazione che l’intimazione rivolta al Di Vicino era del tutto
generica e che non vi è prova dell’inserimento dei tre imputati in un sodalizio di
stampo mafioso o che l’attività di spaccio, cui i tre erano interessati, fosse
gestita da un sodalizio siffatto. Per contro, il Pubblico Ministero ricorrente insiste,
rifacendosi genericamente alle “risultanze processuali”, sul fatto che l’attività dei
tre fu posta in essere in una fase di disgregazione del clan Misso e di nuovo

funzionale “alle scelte delittuose dei nuovi vertici” e serviva ad “assicurare alla
medesima organizzazione un’effettiva e solida capacità di reggenza assoluta del
territorio”. Senonché, quali siano “i nuovi vertici” non è detto in ricorso, né è
spiegato quale sia l’organizzazione (salvo definirla genericamente mafiosa) che i
tre intendevano avvantaggiare. Il ricorso, in questa parte del tutto inammissibile,
si limita pertanto a evocare situazioni e finalità solo descritte e prospettate,
senza addurre né provare o il travisamento della prova da parte del giudice di
merito o il mancato esame, da parte dello stesso giudice, di elementi decisivi,
che avrebbero dovuto orientare diversamente il giudizio.

2. E’ errata, invece, l’affermazione che il “metodo mafioso” sia desumibile dalla
stessa natura della intimazione e della minaccia formulata, giacché, anche
quando un delitto si consuma in territori dove notoria – per esperienza giudiziaria
consolidata in reiterati provvedimenti giurisdizionali definitivi – è la presenza di
associazioni criminali di tipo mafioso, la configurabilità della circostanza
aggravante di cui all’art. 7 del d.l. n. 152/91 conv. con I. n. 203/91, nella forma
“dell’avvalersi delle condizioni di cui all’art. 416 bis c.p.”, ovvero del “metodo
mafioso”, è subordinata alla sussistenza, nel caso concreto, di condotte
specificamente evocative di forza intimidatrice derivante dal vincolo associativo,
e non dalle mere caratteristiche soggettive di chi agisce, anche in concorso,
idonee a determinare una condizione di assoggettamento ed omertà (Cassazione
penale, sez. VI, 23/09/2010, n. 37030).

3. Il ricorso del Pubblico Ministero non individua, pertanto, nell’ambito della
sentenza impugnata, concreti passaggi argomentativi affetti dal vizio di illogicità,
né tiene conto degli indirizzi giurisprudenziali affermatisi in tema di aggravante
mafiosa; per questo va rigettato.

4. E’ inammissibile, invece, il ricorso di Savarese, che è stato proposto senza la
formulazione di motivi, nemmeno successivamente specificati. Consegue a tanto,
ai sensi dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese
3

assestamento dei poteri criminali nel quartiere Sanità di Napoli; pertanto, era

processuali e di una somma a favore della Cassa delle ammende, che si reputa
equo quantificare in € 500.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso di Savarese Salvatore e condanna il ricorrente al
pagamento delle spese processuali e della somma di € 500 a favore della Cassa
delle ammende; rigetta il ricorso del Procuratore Generale.

Così deciso il 19/6/2014

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