Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 4280 del 10/01/2013


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 4280 Anno 2013
Presidente: DE ROBERTO GIOVANNI
Relatore: APRILE ERCOLE

SENTENZA

sui ricorsi presentati da
1. Dervishaj Sami, nato a Belgrado (Serbia) il 03/10/1969
2. Rilande Maurizio, nato a Udine il 17/04/1956

avverso la sentenza del 06/10/2010 della Corte di appello di Trieste;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Ercole Aprile;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Alfredo
P, Viola, che ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso del Rilande e il
rigetto del ricorso del Dervishaj.

RITENUTO IN FATTO.

1. Con la sentenza sopra indicata la Corte di appello di Trieste riformava la
pronuncia di primo grado del 2.7.2008, limitatamente alla revoca della misura di
sicurezza dell’espulsione, e confermava nel resto la medesima pronuncia con la
quale Il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Udine aveva condannato

Data Udienza: 10/01/2013

alla pena di giustizia Sami Dervishaj in relazione al delitto di cui all’art. 73 d.P.R.
n. 309 del 1990, per avere, in Pozzuolo del Friuli, il 01/02/2007, illecitamente
detenuto a fine di spaccio gr. 113 di sostanza stupefacente del tipo eroina.
La stessa Corte di appello riformava le pronunce di primo grado del
02/07/2008 e del 19/02/2007 – esclusivamente riconoscendo la continuazione
tra i reati oggetto delle due decisioni e rideterminando conseguentemente la
pena – e nel resto dichiarava la inammissibilità, per intervenuta rinuncia ai
motivi, dell’appello proposto contro le stesse pronunce con le quale
Tribunale di Udine in composizione monocratica avevano condannato alla pena di
giustizia il Rilande in relazione ai reati di cui agli artt. 81 cod. pen. e 9 legge n.
1423 del 1956, commessi dal gennaio 2007 in poi.
Rilevava la Corte di appello come le emergenze processuali non consentissero
di riconoscere al Derishaj le attenuanti di cui all’art. 73, commi 5 e 7, d.P.R. cit.,
ovvero quella di cui all’art. 114 cod. pen., né di diminuire la pena finale inflitta al
prevenuto; e come, stante la rinuncia ai motivi afferenti alla responsabilità, per il
Rilande dovesse essere riconosciuto il vincolo della continuazione tra i reati delle
due distinte decisioni di primo grado, in quanto commessi nell’arco di un unico
contesto temporale da soggetto in precarie condizioni socio-economiche.
2. Avverso tale sentenza ha presentato ricorso il Derishaj, con atto sottoscritto
personalmente, il quale, formalmente con quattro distinti motivi, si è doluto della
violazione di legge per il mancato riconoscimento delle tre suddette circostanze
attenuanti e per l’omessa riduzione della pena.
3. Anche il Rilande, con atto personale, ha proposto impugnazione deducendo
il vizio di motivazione per avere la Corte di appello omesso di considerare gli
elementi di prova a suo favore che avrebbero dovuto condurre all’adozione di
una sentenza di proscioglimento nel merito ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen.
CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Ritiene la Corte che i ricorsi siano inammissibili.
2. I quattro motivi del ricorso formulato dal Dervishaj sono manifestamente
infondati.
2.1. Nella giurisprudenza di legittimità si è reiteratamente chiarito che:

2

rispettivamente il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Udine ed il

- ai fini del riconoscimento della circostanza attenuante prevista dall’art. 73
comma 7

,

d.P.R. n. 309 del 1990 a favore di chi si adopera per assicurare la

prova del reato e per sottrarre all’associazione risorse decisive per la
commissione dei delitti, non basta – come nella fattispecie era accaduto – la
mera indicazione del nominativo di qualche complice, ma occorre che l’aiuto si
concreti nell’effettivo raggiungimento dello scopo perseguito dalla norma, che
consiste nella reale sottrazione di risorse rilevanti, cioè cospicue, suscettibili di
essere utilizzate mediante perpetrazione di ulteriori attività delinquenziali (così,
19082 del 16/03/2010, Khezami, Rv. 247082; Sez. 6, n. 20799 del 02/03/2010,
Sivolella, Rv. 247376; Sez. 6, n. 22196/07 del 24/10/2006, Autunno, Rv.
236762);
– ai fini della concedibilità o del diniego della circostanza attenuante del fatto di
lieve entità di cui all’art. 73 comma 5 d.P.R. n. 309 del 1990, il giudice è tenuto
a valutare complessivamente tutti gli elementi normativamente indicati, quindi,
sia quelli concernenti l’azione (mezzi, modalità e circostanze della stessa), sia
quelli che attengono all’oggetto materiale del reato (quantità e qualità delle
sostanze stupefacenti oggetto della condotta criminosa), dovendo
conseguentemente escludere il riconoscimento dell’attenuante quando anche uno
solo di questi elementi porti ad escludere che la lesione del bene giuridico
protetto sia di ‘lieve entità’ (così,

ex plurimis,

Sez. 4, n. 6732/12 del

22/12/2011, P.G. in proc. Sabatino, Rv. 251942; Sez. 4, n. 43399 del
12/11/2010, Serrapede, Rv. 248947; . 4, Sentenza n. 38879 del 29/09/2005,
Frank, Rv. 232428);
– per l’integrazione della circostanza attenuante della minima partecipazione, ex
art. 114 cod. pen., non è sufficiente una minore efficacia causale dell’attività
prestata da un correo rispetto a quella realizzata dagli altri, essendo, invece,
necessario che il contributo offerto si sia concretizzato nell’assunzione di un ruolo
di rilevanza davvero marginale, cioè di efficacia causale così limitata rispetto
all’evento da risultare accessorio nel generale quadro del percorso criminoso di
realizzazione del reato (così, tra le molte, Sez. 6, n. 24571/12 del 24/11/2011,
Piccolo, Rv. 253091).
Di tali regulae iuris la Corte di appello di Trieste ha fatto corretta applicazione,
sottolineando, con motivazione adeguata ed esente da vizi di logicità, come la
rilevante quantità di sostanza stupefacente sequestrata, eroina idonea al
confezionamento di ben 935 dosi, fosse elemento sufficiente ad escludere che il
fatto accertato potesse essere considerato come di ridotto allarme sociale ovvero
di scarsa offensività rispetto all’interesse giuridico protetto; come il Dervishaj, il
quale peraltro aveva tenuto un comportamento scarsamente collaborativo nella
3

tra le tante, Sez. 3, n. 16431 del 02/03/2011, Dal Pozzo, Rv. 249999; Sez. 6, n.

prima fase delle indagini, limitandosi successivamente ad indicare la persona che
gli aveva affidato il compito di custodire la droga, non avesse fornito, in realtà,
alcun elemento utile per lo sviluppo delle indagini, avendo parlato del correo
Krasnici che, in precedenza, era stato già ampiamente identificato ed osservato
dagli inquirenti; ed ancora come, il contributo offerto dal Dervishaj,
concretizzatosi nella conservazione di quel rilevante quantitativo di stupefacente
e della strumentazione atta alla suddivisione e confezionamento degli involucri
destinati all’ulteriore spaccio, non potesse essere qualificato in termini di
considerato che gli investigatori avevano verificato i suoi plurimi e frequenti
rapporti con soggetti pregiudicati per reati in materia di stupefacenti e che
l’imputato aveva solo maldestramente cercato, con “affermazioni del tutto
sfornite di prova”, di alleggerire la propria posizione, sostenendo, poco
attendibilmente ed in maniera alquanto generica, di aver avuto un ruolo di mera
connivenza rispetto a quella del citato complice (v. pagg. 6-7 sent. impugn.).
2.2. Con l’ultimo motivo il ricorrente ha preteso che, in questa sede di
legittimità, si proceda ad una rinnovata valutazione delle modalità mediante le
quali i Giudici di merito hanno esercitato il potere discrezionale loro concesso
dall’ordinamento ai fini della determinazione della pena finale da infliggere
all’imputato. Esercizio che deve essere motivato nei soli limiti atti a far emergere
in misura sufficiente il pensiero del giudice in ordine all’esistenza dei presupposti
di applicazione delle relative norme di riferimento.
Nella specie del tutto legittimamente la Corte di appello ha ritenuto di negare
al Dervishaj un’ulteriore riduzione della pena finale irrogata dal giudice di primo
grado, avendo – con motivazione completa e congrua – escluso, come si è visto,
che il prevenuto avesse fornito alcuna reale collaborazione all’autorità giudiziaria
e risultando la condotta delittuosa accertata di rilevante gravità (v. pagg. 6-7
sent. Impugn.).
3. Anche il motivo del ricorso presentato dal Rilande è manifestamente
Infondato.
Costituisce ius receptum nella giurisprudenza di questa Corte il principio
secondo il quale, quando l’impugnante abbia rinunziato ad uno o più motivi di
gravame, automaticamente il perimetro del giudizio è ristretto ai superstiti,
essendo inibito al giudice di prendere cognizione di quei capi e punti della
decisione sui quali ha fatto acquiescenza la parte, la quale, poi, non potrebbe, a
giudizio di impugnazione concluso, riproporre al giudice funzionalmente
superiore, doglianze circa quei capi e punti, senza incorrere nella preclusione di
4

efficacia causale minima rispetto alla commissione del contestato delitto, anche

cui all’art. 606 comma 3 cod. proc. pen.. Peraltro, se è vero che, fintanto che il
rapporto processuale non si sia esaurito con la formazione del giudicato, il
giudice deve procedere “ex officio” a quelle verifiche che la legge impone di
operare in ogni stato e grado del processo, quale l’immediata applicazione di
formule assolutorie ex art. 129 cod. proc. pen., è anche vero che, nel caso di
specie, dalla sentenza impugnata e dal ricorso non emergono affatto elementi
evidenti che consentano di prosciogliere l’imputato nel merito.

616 cod. proc. pen., la condanna dei ricorrenti al pagamento in favore dell’erario
delle spese del presente procedimento e ciascuno al pagamento in favore della
Cassa delle ammende di una somma che si stima equo fissare nell’importo
indicato nel dispositivo che segue.
P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese
processuali e ciascuno della somma di euro 1.000,00 in favore della Cassa delle
ammende.
Così deciso il 10/01/2013

4. Alla declaratoria di inammissibilità dei ricorsi consegue, a norma dell’art.

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