Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 4259 del 17/12/2014


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 4259 Anno 2015
Presidente: PETTI CIRO
Relatore: PELLEGRINO ANDREA

Data Udienza: 17/12/2014

SENTENZA
Sui ricorsi personalmente proposti rispettivamente da
Trovato Giovanni, n. il 07.03.1960 a Messina, attualmente in custodia
cautelare in carcere
e da
D’Andrea Giovanni Giuseppe, n. il 19.03.1962 a Messina, attualmente
agli arresti domiciliari
rappresentati e assistiti dall’avv. Signorina Frisenda, avverso
l’ordinanza del Tribunale di Messina, sezione del riesame, n.
393/2014 in data 03.07.2014;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed i ricorsi;
sentita la relazione della causa fatta dal consigliere dott. Andrea
Pellegrino;
udita la requisitoria del sostituto procuratore generale dott. Oscar
Cedrangolo che ha chiesto di dichiararsi l’inammissibilità di entrambi i
ricorsi.

1

iL

RITENUTO IN FATTO

1.

Con ordinanza in data 03.12.2012, il giudice per le indagini presso il
Tribunale di Messina applicava nei confronti di Trovato Giovanni e di
D’Andrea Giovanni Giuseppe la misura cautelare della custodia in
carcere in relazione a diversi episodi di estorsione aggravata dall’art.

società Gicap s.r.I.; il provvedimento custodiale veniva confermato
dal Tribunale del riesame di Messina con ordinanza in data
18.12.2012, depositata in data 08.02.2013. A seguito di un primo
annullamento della Suprema Corte, il Tribunale pronunciava in sede
di rinvio, nuova ordinanza reiettiva dei ricorsi difensivi in data
11.11.2013.
2.

Con successive sentenze rispettivamente in data 18.04.2014 e in
data 11.03.2014, la Suprema Corte annullava anche l’ordinanza in
data 11.11.2013 del Tribunale del riesame nei confronti del Trovato
e del D’Andrea con rinvio al Tribunale per nuovo esame.
Si legge nella prima sentenza (relativa al Trovato): “…

quel che,

infatti, si è taciuto e che dovrà essere oggetto di nuova valutazione
è in che modo ‘l’innata capacità intimidatoria’ dell’indagato sia stata
esercitata nella specie e come in concreto egli si sia avvalso, per la
consumazione del reato, del metodo mafioso, per la cui
individuazione ci si limita a rinviare a noti e recenti capisaldi della
giurisprudenza elaborata da questa Corte in materia, pur non
univoca sul tema dell’individuazione di uno specifico gruppo mafioso
quale necessario presupposto dell’aggravante (Cass. Sez. 1 n. 1327
del 18/03/1994, Torcasio, Rv. 197430; Cass. Sez. 2 n. 28861 del
14/06/2013, Cardella, Rv. 256470; Cass. Sez. 5 n. 38964 del
21/06/2013, Nobis ed altri, Rv. 257760) … “.

Si legge nella seconda sentenza (relativa al D’Andrea): “… né appare
sufficiente il mero collegamento con contesti di criminalità
organizzata o la ‘caratura mafiosa’ degli autori del fatto, occorrendo come questa Corte ha già avuto modo di affermare (Cass. Sez. 2 n.
28861 del 14/06/2013, Carde/la, Rv. 256470 ove la ricorrenza
dell’aggravante è stata esclusa per il solo fatto che l’imputato era
sottoposto a procedimento penale per il delitto di cui all’art. 416 bis

7 del d.l. n. 152/1991 ai danni dei fratelli Capone, titolare della

cod. pen. e perché fosse presente nella zona un gruppo facente capo
a ‘Cosa Nostra’) – propriamente l’impiego di quel metodo. Metodo
che può atteggiarsi in vari modi (ad es. esplicito e mirato
avvertimento mafioso, rispetto al quale il timore già consolidato
funge da rafforzamento della minaccia specificamente formulata;
messaggio intimidatorio avente forma larvata o implicita implicante
avvertimento della sussistenza di un interesse dell’associazione per

richiesta di agire in conformità; assenza di messaggio, con silente
richiesta, qualora l’associazione abbia raggiunto una forza
intimidatrice tale da rendere superfluo l’avvertimento mafioso, sia
pure implicito, secondo le enunciazioni che Cass. Sez. 5 n. 38964 del
21/06/2013, Nobis ed altri, Rv. 257760 ha tentato di fornire), ma
sempre inequivocabilmente riferibile ad un ben determinato sodalizio
criminale rilevante ai sensi e per gli effetti dell’art. 416 bis cod. pen..
Appare, inoltre, evidente che il vizio di motivazione in ordine alla
sussistenza del metodo mafioso si riverbera immediatamente sulle
valutazioni in punto adeguatezza della misura coercitiva in rapporto
alle effettive esigenze cautelari, costituente del resto già il proprium
della decisione di annullamento pronunziata da questa Corte il
16/6/2013. Spetterà al Tribunale rivalutare l’adeguatezza del regime
cautelare attualmente imposto al ricorrente, nel rispetto del principio
che la condotta provvisoriamente ascrittagli non è tale da integrare
l’aggravante del metodo mafioso di cui all’art. 7 d.l. n. 152 del 1991
e ricordando altresì la non fungibilità di questo con l’agevolazione
mafiosa, costituente l’altro dei possibili profili integrativi della relativa
sussistenza, come espressamente affermato da questa Corte con
sentenza Sez. 6 n. 45203 del 22/10/2013, Paparo ed altri, Rv.
256870… “.
3.

Con ordinanza in data 03.07.2014, pronunciata a seguito di rinvio
della Suprema Corte, il Tribunale di Messina rigettava le istanze di
riesame proposte nell’interesse di Trovato Giovanni e di D’Andrea
Giovanni Giuseppe, confermando l’ordinanza cautelare impugnata.

4.

Avverso quest’ultima ordinanza, propongono ricorso per cassazione,
sia il Trovato (con due distinti atti) che il D’Andrea.

5.

Nel primo ricorso il Trovato, lamenta:
-violazione dell’art. 606 lett. c) cod. proc. pen. in relazione all’art.

un comportamento attivo o omissivo del destinatario, con implicita

309, commi 9 e 10 cod. proc. pen. (primo motivo);
– violazione di legge (art. 606 lett. b), c) ed e) cod. proc. pen.) in
relazione all’art. 309, commi 5, 6 e 8 cod. proc. pen. (secondo
motivo);
– violazione dell’art. 606 lett. b), c) ed e) cod. proc. pen. in relazione
agli artt. 34, 36, 627 e 178 cod. proc. pen. (terzo motivo);
– violazione dell’art. 606 lett. b), c) ed e) cod. proc. pen. in relazione

agli artt. 623 lett. a) e 627 comma 3 cod. proc. pen. (quarto
motivo);
– motivazione mancante o manifestamente illogica (art. 606 lett. b),
c) ed e) cod. proc. pen.) in relazione all’aggravante di cui all’art. 7
d.l. n. 152/1991 e all’art. 274 cod. proc. pen. (quinto motivo).
In relazione al primo motivo, si evidenzia come il presente giudizio,
conseguente a due sentenze della Suprema Corte con le quali veniva
annullata l’ordinanza applicativa della misura custodiale, per il
giudice del rinvio risultavano abbondantemente trascorsi i termini
previsti dall’art. 309, commi 9 e 10 cod. proc. pen., con conseguente
inefficacia per decorrenza termini dell’ordinanza impugnata.
In relazione al secondo motivo, evidenzia il ricorrente come il
Tribunale del riesame avesse fissato l’udienza di trattazione per il
19.6.2014 nella quale, l’organo giudicante, dopo aver sentito i
difensori, riservava la decisione; successivamente il Tribunale fissava
nuova udienza per il 03.07.2014 per acquisire d’ufficio il dispositivo
della sentenza pronunciata dal Tribunale di Messina in data
20.06.2014, relativa al giudizio di merito e sentire nuovamente le
parti. Vi era così stata una evidente violazione dei termini previsti
dall’art. 309, comma 8 cod. proc. pen. essendo avvenuta
l’acquisizione in parola non prima dell’udienza camerale ma in un
momento successivo, dopo aver già posto il procedimento in riserva
per la decisione.
In relazione al terzo motivo, si censura l’ordinanza impugnata per
aver fatto parte del collegio giudicante ed aver steso la motivazione
il giudice dott.ssa Elena Maria Teresa Calamita, che già aveva fatto
parte del collegio (e steso la motivazione) che aveva pronunciato
nella precedente ordinanza in data 18.12.2012, in presenza della
violazione dell’art. 34 cod. proc. pen..
In relazione al quarto motivo, si evidenzia come l’ordinanza

4

impugnata abbia omesso di fornire e di apportare alle indicazioni
dedotte dalla Suprema Corte con ordinanza in data 18.04.2014, le
nuove argomentazioni richieste dai giudici remittenti, ponendosi così
in netta contrapposizione con i disposti degli artt. 623 lett. a) e 627,
comma 3 cod. proc. pen. che impongono al giudice del rinvio di
uniformarsi alla decisione della Suprema Corte.
In relazione al quinto motivo, si evidenzia come il Tribunale, ancora

aggravante di cui all’art. 7 d.l. n. 152/1991, piuttosto che ancorarsi e
seguire le disposizioni imposte in sede di rinvio circa la necessità di
elementi concreti dai quali desumere l’avvenuta consumazione del
reato con l’utilizzo del metodo mafioso, abbia fatto riferimento
all’innata capacità intimidatoria del Trovato, riconducibile ai suoi
accertati legami familiari ed alla vicenda di soggetti che aderirebbero
alle richieste dell’imputato.
6. Nel secondo ricorso il Trovato, lamenta:
-violazione dell’art. 606 lett. b) ed e) cod. proc. pen. in relazione
all’art. 7 di. n. 152/1991 nonché in relazione agli artt. 275 comma 3
e 627 comma 3 cod. proc. pen. (motivo unico).
In relazione al motivo proposto il ricorrente, nel censurare
nuovamente le valutazioni del Tribunale del riesame per essere lo
stesso incorso nei medesimi errori interpretativi e valutativi del
precedente giudice, evidenzia come il c.d. principio dell’assorbimento
del giudizio cautelare nel giudizio di primo grado esplica i suoi effetti
nei procedimenti incidentali

de libertate per quanto concerne la

sussistenza o meno dei gravi indizi di colpevolezza ma non con
riferimento in relazione al permanere delle esigenze cautelari ed alla
eventuale rivalutazione dell’adeguatezza e della proporzionalità della
misura in atto, circostanze per le quali il detto principio non può
costituire una preclusione in sede di riesame. Fermo quanto precede,
non v’è traccia nell’ordinanza impugnata delle modalità operative con
le quali il Trovato si sarebbe avvalso del metodo mafioso nonchè
delle modalità con le quali egli abbia esercitato la sua persuasione
intimidatoria ed abbia concretizzato le presunte minacce alle persone
offese avendo il predetto provvedimento operato esclusivamente
riferimenti a dati congetturali ed astratti, legati a fattori territoriali o
asseritamente notori, avulsi da qualsivoglia collegamento a

i

una volta, nel cercare di giustificare la sussistenza della circostanza

circostanze e comportamenti reali attribuibili univocamente alla
persona del ricorrente.
7. Nel proprio ricorso il D’Andrea, lamenta:
-violazione dell’art. 623, comma 1 lett. a) cod. proc. pen., dell’art.
273, comma 2 disp. att. cod. proc. pen. e dell’art. 627, comma 3
cod. proc. pen. in relazione all’art. 7 I. 203/1991 ed all’art. 606 lett.
b), c) ed e) cod. proc. pen., inosservanza o erronea applicazione

della legge penale, inosservanza di norme processuali, motivazione
carente, apparente, illogica e/o contraddittoria (primo motivo);
-violazione dell’art. 623, comma 1 lett. a) cod. proc. pen., dell’art.
173, comma 2 disp. att. cod. proc. pen. e dell’art. 627, comma 3
cod. proc. pen. in relazione all’art. 275 cod. proc. pen. ed all’art. 606
lett. b), c) ed e) cod. proc. pen., inosservanza di norme processuali,
motivazione carente, apparente, illogica e/o contraddittoria (secondo
motivo).
In relazione al primo motivo, evidenzia il ricorrente come il theme
decidendum su cui il Tribunale era chiamato a pronunciarsi afferiva
esclusivamente all’adeguatezza o meno del regime coercitivo a
fronte dell’insussistenza dell’aggravante di cui all’art. 7 I. n.
203/1991: viceversa, il Tribunale ha erroneamente proceduto
nuovamente al riesame del giudizio di gravità indiziaria concernente
l’aggravante ad effetto speciale, incorrendo nella palese violazione
delle norme processuali che regolano il giudizio di rinvio.
In relazione al secondo motivo, si censura il provvedimento
impugnato nella parte in cui, nell’operare la valutazione
dell’adeguatezza del regime cautelare attualmente imposto al
ricorrente (agli arresti domiciliari dal 13.02.2014 per gravi motivi di
salute) sulla base di un compendio indiziarlo che contemplava
erroneamente ed illegittimamente l’aggravante ad effetto speciale,
era incorso in una motivazione apparente, manifestamente illogica
e/o contraddittoria.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I ricorsi appaiono manifestamente infondati e, come tali, risultano
inammissibili.

6

Primo ricorso di Trovato Giovanni.
2. Il primo motivo di gravame è manifestamente infondato.
Come da insegnamento di questa Suprema Corte (Sez. 6, sent. n.
22310 del 29/05/2006, dep. 23/06/2006, Spagnulo, Rv. 2344736),
nel giudizio di rinvio conseguente all’annullamento di un’ordinanza

“de libertate” – pronunciata dal Tribunale del riesame – non è
applicabile la disciplina dei termini prevista dall’art. 309 cod. proc.

proc. pen., con la conseguenza che la notificazione dell’avviso
dell’udienza di rinvio al difensore deve avvenire nel termine di
almeno dieci giorni liberi prima dell’udienza.

Il principio del diverso regime dei termini del provvedimento emesso
in sede di riesame a seguito di annullamento con rinvio da parte
della Corte di cassazione si ricava dalla sentenza delle Sez. U, n. 5
del 1996, D’Avino, pronuncia che, pur non affrontando la questione
del termine di comparizione bensì dei termini di cui all’art. 309,
commi 5 e 9 cod. proc. pen. nella materia delle misure cautelari
personali, ha affermato la mancanza di perentorietà dei termini
stessi. La giustificazione di tale asserto è basata sulla differenza tra
l’urgenza di provvedere con estrema rapidità nel caso di riesame
successivo all’ordinanza impositiva della misura, incidendo il
provvedimento sul bene della libertà e imponendosi, per tale
motivo, una necessità di concentrazione dei tempi del procedimento
relativo, e il diverso grado di speditezza che è richiesto nel giudizio
di rinvio, allorché sul provvedimento de libertate si è già pronunciato
il Tribunale in sede di riesame, ipotesi in cui si è già avuto in due
diversi gradi di giurisdizione una prima valutazione sul
provvedimento coercitivo. Nella motivazione della citata sentenza, si
legge che “… ciò che la norma esige, anche in applicazione di regole
costituzionali, ed in applicazione dei principi contenuti nell’art. 5,
comma 4 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo
e delle libertà fondamentali, resa esecutiva in Italia con la L. 4
agosto 1955, n. 848, è il contatto immediato tra persona sottoposta
a provvedimento limitativo e giudice che deve decidere sulla misura
stessa nel più breve tempo possibile; la ulteriore fase del
procedimento deve seguire in tempi sempre brevi dato l’oggetto
della decisione, ma resta svincolata dalla perentorietà del termine.

pen. per il giudizio di riesame bensì quella dettata dall’art. 127 cod.

Come autorevole dottrina ha sostenuto, l’inerzia del giudice che è
chiamato a pronunciarsi nel termine fissato viene paragonato,
quanto agli effetti, ai ricorsi amministrativi di tipo innpugnatorio in
cui alla omessa pronuncia entro i termini da parte dell’autorità adita
viene attribuito il valore di rigetto del ricorso. Quindi, quel che
conta, è la valorizzazione, sul piano tecnico, della circostanza,
attribuita dalla legge, alla mancanza di una decisione. La pronuncia

assolvono più alle esigenze imposte dalla legge e riguardano
esclusivamente la fase delle impugnazioni a cui rimangono estranei i
principi relativi al diritto di habeas corpus”.
3.

La

rado decidendi

alla base della sentenza Davino – come

riconosciuto nella sentenza Spagnulo – è nettamente percepibile e la
differenza tra giudizio di riesame successivo al provvedimento
impositivo della misura e giudizio di riesame a seguito
dell’annullamento con rinvio della relativa ordinanza da parte della
Suprema Corte è chiaramente posta in evidenza.
L’interpretazione della norma in senso diverso da quello ora
prospettato non spiegherebbe come, una più attenuata necessità di
speditezza nel giudizio di rinvio, debba essere individuata e
riconosciuta solo per l’organo giudicante relativamente ai tempi del
procedimento e della emissione della decisione, e non anche per
l’imputato e per il suo difensore che, nell’ordinario giudizio di
riesame, sono gravati da un termine di comparizione
particolarmente ridotto di tre giorni liberi.
4.

Pari manifesta infondatezza involge il secondo motivo di doglianza.
Si censura la decisione del Tribunale del riesame di acquisire
d’ufficio, nonostante l’avvenuta conclusione della discussione, la
copia del dispositivo di sentenza di condanna nel giudizio di primo
grado, pur in presenza dell’avvenuta fissazione da parte del
giudicante di una successiva udienza finalizzata a consentire
l’interlocuzione in merito da parte dei difensori.
Invero, la facoltà, riconosciuta al Tribunale del riesame dall’art. 309,
comma 9, cod. proc. pen., di utilizzare ulteriori elementi per la
decisione, espressione di un dovere funzionale il cui esercizio è
indispensabile per la corretta definizione del procedimento
incidentale, è subordinata – secondo la condivisibile affermazione

definitiva e, quindi, il completamento dell’iter processuale non

contenuta in un precedente di questa Suprema Corte (Sez. 1, sent.
n. 45246 del 22/10/2003, dep. 24/11/2003, Carucci, Rv. 226818) alla duplice condizione che tali elementi, i quali – se documentati assumono la qualità di atti del procedimento, gli siano offerti dalle
parti, e che ciò avvenga nel corso dell’udienza, e quindi anche in
sede di discussione orale, quando è ancora possibile l’instaurarsi tra
le parti di un contraddittorio anche sul loro contenuto.

possano ritenere ampiamente rispettati anche nella fattispecie, dal
momento che:
-nessuna delle parti risulta aver manifestato preventivo (o
successivo) dissenso a detta acquisizione, finendo per prestare
formale acquiescenza – per non dire, sostanziale adesione – sul
punto;
-con la concessione di un’udienza di rinvio, il Tribunale ha inteso
procrastinare i tempi della discussione, garantendo a tutte le parti il
pieno contraddittorio anche sui contenuti dell’acquisito atto.
5. Anche il terzo motivo è manifestamente infondato.
In tema di annullamento con rinvio di un’ordinanza da parte della
Suprema Corte, se il collegio chiamato a rivalutare la questione
risulti composto da magistrati che già si erano pronunziati in merito,
non sussiste causa di incompatibilità ai sensi dell’art. 34 cod. proc.
pen.: invero, l’ipotesi di cui alla lettera a) dell’art. 623 cod. proc.
pen., a differenza di quanto previsto dalla lettera d) del medesimo
articolo, non prevede che i componenti del collegio di rinvio siano
diversi da quelli che emisero il provvedimento annullato (Sez. 3,
sent. n. 3629 del 04/12/1998, dep. 30/01/1999, Marraffa, Rv.
212385).
L’asserita causa di “incompatibilità” ex art. 34 cod. proc. pen. di uno
dei giudici del “collegio di rinvio”, per avere lo stesso giudice, a suo
tempo, partecipato alla decisione annullata da questa Corte, non è
qui deducibile potendo detta incompatibilità essere dedotta dalla
parte interessata con il mezzo della ricusazione, la cui dichiarazione,
con riferimento al caso in esame (art. 37, comma 1 lett. a) cod.
proc. pen. in relazione al combinato disposto degli artt. 36 lett. g) e
34, comma 1 cod. proc. pen.), doveva, a pena di decadenza, essere
“proposta prima del compimento dell’atto da parte del giudice” (art.

Fermo quanto precede, ritiene il Collegio come detti presupposti si

38, comma 1 cod. proc. pen.). In ogni caso, non si ritiene che
l’ipotesi in esame sia assimilabile, sotto il profilo della incompatibilità
di cui all’art. 34 cod. proc. pen., a quella della partecipazione del
giudice al giudizio di rinvio dopo l’annullamento della “sentenza”
conclusiva di precedente giudizio, cui lo stesso giudice abbia
partecipato.
L’art. 623 lett. a) cod. proc. pen. prevede, infatti, che, ove venga

annullata un'”ordinanza”, la Corte di Cassazione “dispone che gli atti
siano trasmessi al giudice che l’ha pronunciata”, senza specificare,
come nel caso di annullamento di sentenza (art. 623 lett. d) cod.
proc. pen.), che i componenti del Collegio debbano essere diversi da
quello dal quale fu emessa l’ordinanza annullata: il che porta a
ritenere che l’incompatibilità relativa alla duplicità di giudizi assuma
rilevanza nell’ambito del giudizio di merito (v. Cass., sent. n. 3156
del 20/10/1992) e non anche sulle decisioni incidentali in materia di
libertà (in tal senso, v. anche Cass., sent. n. 2687 del 10/06/1997,
che ha ritenuto la manifesta infondatezza della questione ha
ritenuto la manifesta infondatezza della questione di legittimità
costituzionale dell’art. 34 cod. proc. pen., sollevata in relazione alla
specifica ipotesi qui esaminata).
6. Non miglior sorte merita il quarto motivo di ricorso, anch’esso
manifestamente infondato essendosi il giudice del rinvio di
uniformato ai principi fissati dalla Suprema Corte.
Invero, si legge nel provvedimento impugnato: “… ciò premesso e
procedendo comunque ad una rivalutazione dei fatti alla luce del
principio di diritto fissato dalla Corte di Cassazione, il Tribunale
ribadisce che tutti gli episodi estorsivi in contestazione siano
aggravati dalla circostanza di cui all’art. 7 L. 203/91 per essere
connotati dall’utilizzo del metodo mafioso, avuto riguardo all’aura
criminale che circonda la persona di Trovato Giovanni. Infatti
l’appartenenza di quest’ultimo ad una famiglia della quale la
maggior parte dei componenti sono personaggi di spicco della
consorteria mafiosa “Mangialupi”, in uno con la spavalderia e
prevaricazione che connotano il suo agire e alla piena
consapevolezza dell’effetto intimidatorio in grado di provocare sui
terzi, sono circostanze idonee ad ingenerare nel contesto territoriale
messinese una speciale intimidazione che promana dalla stessa

10

persona di Trovato Giovanni. Proprio in considerazione di tale
particolare condizione soggettiva Trovato Giovanni incute uno
speciale timore nei confronti delle persone che spesso gli consente
di non dover rincorrere a minacce esplicite. Pertanto in tale
contesto ambientale vanno valutate le condotte in esame. Come già
evidenziato nel primo provvedimento di riesame, nel caso di specie
il Trovato non ha fatto ricorso ad alcuna minaccia esplicita perché

non ne aveva la necessità atteso che le sue richieste dovevano
essere assecondate a causa dell’effetto intimidatorio promanante
dalla sua stessa persona. Infatti per molto tempo i fratelli Capone
hanno accettato il giogo imposto loro dal Trovato a causa del forte
stato di soggezione in cui versavano. Tra l’altro gli stessi fratelli
Capone hanno dichiarato di non voler stipulare alcun contratto di
fornitura con i supermercati gestiti dal Trovato per timore di essere
coinvolti in una procedura di sequestro di prevenzione attesa la
fama criminale e di mafiosità che avvolge il personaggio del
Trovato: in altre parole temevano che il loro nome potesse essere
associato a quello del Trovato e conseguentemente alla sua aura di
mafiosità. Inoltre, a ulteriore dimostrazione della speciale capacità
intimidatoria del Trovato al cospetto delle altre persone giova
ricordare che i venditori ambulanti Allia, Vernuccio e Foti hanno
prontamente spostato il proprio banco di rivendita di frutta e ortaggi
nel momento Trovato Giovanni vi si è presentato loro. In tale
episodio il Trovato non ha prospettato alcuna minaccia esplicita,
essendosi limitato a presentarsi agli ambulanti e ad avanzare la
propria richiesta. Pertanto solo interpretando il comportamento del
Trovato – che si è avvalso della piena consapevolezza dello speciale
effetto intimidatorio che è in grado di provocare negli altri – nel
contesto territoriale di appartenenza dove la sua fama criminale e
l’appartenenza ad una famiglia della quale la maggior parte dei
componenti sono personaggi di spicco della consorteria mafiosa ”
Mangialupi” sono dati assolutamente notori, è possibile apprezzare
le modalità attraverso le quali l’innata capacità intimidatoria del
Trovato sia stata esercitata nel caso concreto. Nella specie, infatti,
Trovato Giovanni non ha dovuto nemmeno ricorrere a minacce
esplicite per ingenerare una speciale condizione di soggezione nei
destinatari delle sue richieste, poiché il Trovato si è avvalso della

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piena consapevolezza della propria capacità innata di intimidire le
persone tanto che è stato sufficiente avanzare le sue richieste ai
fratelli Capone per ottenere per molto tempo forniture di prodotti a
condizioni assolutamente vantaggiose e fuori mercato per timore di
papabili ritorsioni.
7.

Anche il quinto motivo è manifestamente infondato.
Si tratta, in particolare, di un motivo inammissibile, in quanto

manifestamente infondato per la parte in cui contesta l’esistenza di
un apparato giustificativo della decisione, che invece esiste; non
consentito, per la parte in cui pretende di valutare, o rivalutare, gli
elementi probatori al fine di trarre proprie conclusioni in contrasto
con quelle del giudice del merito chiedendo al giudice di legittimità
un giudizio di fatto che non le compete.
Esula, infatti, dai poteri della Suprema Corte quello di una “rilettura”
degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui
valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza
che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di
una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle
risultanze processuali. Il motivo proposto tende, appunto, ad
ottenere un’inammissibile ricostruzione dei fatti mediante criteri di
valutazione diversi da quelli adottati dal giudice di merito, il quale,
con motivazione esente da vizi logici e giuridici, ha esplicitato le
ragioni del suo convincimento.

Secondo ricorso di Trovato Giovanni
8.

L’unico motivo svolto – che reitera sostanzialmente il quinto motivo
del primo ricorso – è anch’esso manifestamente infondato per le
ragioni dinanzi esposte.
Invero, le osservazioni critiche articolate in ricorso si risolvono nella
introduzione di temi in fatto diversi da quelli emergenti dalla
ricostruzione – vincolante perché esente da vuoti logici – resa nel
doppio giudizio di conformità operato dai giudici del merito,
assumendo i toni tipici ed altrettanto inammissibili, delle valutazioni
alternative rispetto a quelle segnalate nell’ordinanza non
adeguatamente supportate dall’indicazione dei profili di manifesta
illogicità del motivare della Corte destinati ad inficiarne il portato.

12

Ricorso di D’Andrea Giovanni Giuseppe
9.

Il primo motivo di gravame è inammissibile.
Evidenzia il ricorrente come con la sentenza di annullamento senza
rinvio, la Suprema Corte aveva devoluto al Tribunale esclusivamente
il compito di verificare l’adeguatezza del regime cautelare imposto al
ricorrente a fronte della riconosciuta insussistenza dell’aggravante di
cui all’art. 7 I. n. 203/1991; viceversa, il Tribunale aveva proceduto

nuovamente a rivalutare la gravità indiziaria tenendo conto della
ricorrenza dell’aggravante de qua riconosciuta in sede di pronuncia
di primo grado.
Ritiene il Collegio come la valutazione del Tribunale non integri le
dedotte violazioni avendo lo stesso proceduto a riesaminare la
situazione indiziaria alla luce delle nuove evidenze acquisite e non
potendosi ritenere che il giudice del provvedimento impugnato, così
procedendo, abbia disatteso il dictum della Suprema Corte finendo
con il realizzare una sorta di sostanziale reformatío in peius: invero,
un simile divieto, sussiste solo nei rapporti tra il processo di primo
grado e quello di appello, ma non nei rapporti tra pronuncia di
annullamento e sentenza di merito (cfr., in situazione di fatto
assimilabile alla presente, Sez. 6, sent. n. 5505 del 14/04/1999,
dep. 29/04/1999, Gagliano Giorgi, Rv. 213685).
10. Identiche conclusioni di inammissibilità vanno tratte con riferimento
al secondo motivo di doglianza.
Invero, secondo la costante giurisprudenza di questa Suprema Corte
(cfr., Sez. 6, sent. n. 10951 del 15/03/2006, dep. 29/03/2006,
Casula, Rv. 233708; Sez. 1, sent. n. 41738 del 19/10/2011, dep.
15/11/2011, Pmt in proc. Longo, Rv. 251516), anche alla luce della
nuova formulazione dell’art. 606, comma primo lett. e) cod. proc.
pen., dettata dalla L. 20 febbraio 2006 n. 46, il sindacato del giudice
di legittimità sul discorso giustificativo del provvedimento impugnato
deve mirare a verificare che la relativa motivazione sia: a)
“effettiva”, ovvero realmente idonea a rappresentare le ragioni che il
giudicante ha posto a base della decisione adottata; b) non
“manifestamente illogica”, ovvero sorretta, nei suoi punti essenziali,
da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell’applicazione
delle regole della logica; c) non internamente “contraddittoria”,
ovvero esente da insormontabili incongruenze tra le sue diverse

I

13

parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa
contenute; d) non logicamente “incompatibile” con altri atti del
processo, dotati di una autonoma forza esplicativa o dimostrativa
tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento
svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali
incompatibilità così da vanificare o radicalmente inficiare sotto il
profilo logico la motivazione (nell’affermare tale principio, la Corte

ha precisato che il ricorrente, che intende dedurre la sussistenza di
tale incompatibilità, non può limitarsi ad addurre l’esistenza di “atti
del processo” non esplicitamente presi in considerazione nella
motivazione o non correttamente interpretati dal giudicante, ma
deve invece identificare, con l’atto processuale cui intende far
riferimento, l’elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto
emerge e che risulta incompatibile con la ricostruzione adottata dal
provvedimento impugnato, dare la prova della verità di tali elementi
o dati invocati, nonché dell’esistenza effettiva dell’atto processuale
in questione, indicare le ragioni per cui quest’ultimo inficia o
compromette in modo decisivo la tenuta logica e l’interna coerenza
della motivazione).
Non è dunque sufficiente che gli atti del processo invocati dal
ricorrente siano semplicemente “contrastanti” con particolari
accertamenti e valutazioni del giudicante e con la sua ricostruzione
complessiva e finale dei fatti e delle responsabilità né che siano
astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più persuasiva di
quella fatta propria dal giudicante. Ogni giudizio, infatti, implica
l’analisi di un complesso di elementi di segno non univoco e
l’individuazione, nel loro ambito, di quei dati che – per essere
obiettivamente più significativi, coerenti tra loro e convergenti verso
un’unica spiegazione – sono in grado di superare obiezioni e dati di
segno contrario, di fondare il convincimento del giudice e di
consentirne la rappresentazione, in termini chiari e comprensibili, ad
un pubblico composto da lettori razionali del provvedimento. E’,
invece, necessario che gli atti del processo richiamati dal ricorrente
per sostenere l’esistenza di un vizio della motivazione siano
autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale
che la loro rappresentazione sia in grado di disarticolare l’intero
ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno

14
(

radicali incompatibilità, così da vanificare o da

rendere

manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione. Il
giudice di legittimità è, pertanto, chiamato a svolgere un controllo
sulla persistenza o meno di una motivazione effettiva, non
manifestamente illogica e internamente coerente, a seguito delle
deduzioni del ricorrente concernenti “atti del processo”. Tale
controllo, per sua natura, è destinato a tradursi in una valutazione,

di carattere necessariamente unitario e globale, sulla reale
“esistenza” della motivazione e sulla permanenza della “resistenza”
logica del ragionamento del giudice. Al giudice di legittimità resta,
infatti, preclusa, in sede di controllo sulla motivazione, la pura e
semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della
decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di
ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal
giudice di merito, perché ritenuti maggiormente plausibili o dotati di
una migliore capacità esplicativa. Queste operazioni
trasformerebbero, infatti, la Corte nell’ennesimo giudice del fatto e
le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione assegnatale dal
legislatore di organo deputato a controllare che la motivazione dei
provvedimenti adottati dai giudici di merito (a cui le parti non
prestino autonomamente acquiescenza) rispettino sempre uno
standard di intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e
spiegare l’iter logico seguito dal giudice per giungere alla decisione.
Può quindi affermarsi che, anche a seguito delle modifiche dell’art.
606 cod. proc. pen., comma 1, lett. e) ad opera della L. n. 46 del
2006, art. 8, “mentre non è consentito dedurre il travisamento del
fatto, stante la preclusione per il giudice di legittimità si sovrapporre
la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta
nei precedenti gradi di merito, è invece, consentito dedurre il vizio
di travisamento della prova, che ricorre nel caso in cui il giudice di
merito abbia fondato il proprio convincimento su una prova che non
esiste o su un risultato di prova incontestabilmente diverso da
quello reale, considerato che in tal caso, non si tratta di
reinterpretare gli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai
fini della decisione, ma di verificare se detti elementi sussistano”
(Sez. 5, sent. n. 39048 del 25/09/2007, dep. 23/10/2007, Casavola
e altri, Rv. 238215).

15

11. Fermo quanto precede, la motivazione del provvedimento
impugnato appare del tutto congrua e giustificata nella parte in cui
ha riconosciuto la permanenza del pericolo di reiterazione della
condotta “desumibile dalle modalità di svolgimento del fatto
caratterizzato dall’avere il D’Andrea accompagnato Trovato Giovanni
– soggetto circondato da indiscussa aura criminale per
l’appartenenza ad una famiglia della quale la maggior parte dei

“Mangialupi” con provvedimenti giurisdizionali anche definitivi – al
cospetto della persona offesa proprio quando il Trovato avanzava le
sue pretese estorsive. Il prevenuto, infatti, ha rivestito un ruolo
tutt’altro che marginale essendo intervenuto attivamente nella
discussione tra il Trovato e Capone Antonino supportando le ragioni
del primo ed avendo perorato la causa del Trovato proprio nel
momento in cui quest’ultimo, con fare concitato e minaccioso,
avanzava le proprie richieste di forniture. Tale contegno ha
certamente rafforzato il proposito criminale del Trovato ai danni
della vittima che ha subito una doppia pressione psicologica …”.
12. Ne consegue l’inammissibilità dei ricorsi e, per il disposto dell’art.
616 cod. proc. pen., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle
spese processuali nonché al versamento, in favore della Cassa delle
ammende, di una somma che, considerati i profili di colpa emergenti
dai rispettivi ricorsi, si determina equitativamente in euro 1.000,00
per ciascuno.
Si provveda a norma dell’art. 94 disp. att. cod. proc. pen..

PQM

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle
spese processuali e ciascuno al versamento della somma di Euro
1.000,00 alla Cassa delle ammende.
Si provveda a norma dell’art. 94 disp. att. cod. proc. pen..
Così deliberato in Roma, udienza in camera di consiglio del 17.12.2014

Il Consigliere estensore

componenti è stata riconosciuta parte dell’associazione mafiosa

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