Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 42397 del 01/07/2014


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Penale Ord. Sez. 7 Num. 42397 Anno 2014
Presidente: CARMENINI SECONDO LIBERO
Relatore: IASILLO ADRIANO

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:
MANGIONE LUIGI N. IL 06/07/1953
avverso la sentenza n. 1689/2003 CORTE APPELLO di BARI, del
10/12/2012
dato avviso alle parti;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. ADRIANO IASILLO;

Data Udienza: 01/07/2014

Mangione Luigi
N.R.G. 51910/2013

Considerato che:
Mangione Luigi ricorre avverso la sentenza, in data 10.12.2012, della
Corte di Appello di Bari, confermativa della sentenza di primo grado, con la

pena di anni 1 e mesi 2 di reclusione, e, chiedendone l’annullamento,
osserva genericamente che vi sarebbe carenza di motivazione sulla sua
penale responsabilità, sul diniego delle attenuanti generiche e sulla congruità
della pena.
Il ricorso è privo della specificità, prescritta dall’art. 581, lett. c), in
relazione all’ad 591 lett. c) c.p.p., a fronte delle motivazioni svolte dal giudice
d’appello, che non risultano viziate da illogicità manifeste e sono esaustive
avendo risposto correttamente a tutte le doglianze contenute nell’appello. In
particolare avendo evidenziato come sia ampiamente provata la sussistenza
dei reati di cui sopra dal fatto, certo, del possesso delle cose di provenienza
furtiva da parte dell’imputato, che non ha fornito, poi, alcuna giustificazione
sul possesso di tali cose. Questa Suprema Corte ha, in proposito, più volte
affermato il principio – condiviso dal Collegio – che ai fini della configurabilità
del reato di ricettazione, la prova dell’elemento soggettivo può essere
raggiunta anche sulla base dell’omessa – o non attendibile – indicazione della
provenienza della cosa ricevuta, la quale è sicuramente rivelatrice della
volontà di occultamento, logicamente spiegabile con un acquisto in mala fede
(Sez. 2, Sentenza n. 2436 del 27/02/1997 Ud. – dep. 13/03/1997 – Rv.
207313; Sez. 2, Sentenza n. 16949 del 27/02/2003 Ud. – dep. 10/04/2003 Rv. 224634).
Manifestamente infondata è anche la doglianza relativa alla mancata
derubricazione della ricettazione nel reato di cui all’art. 712 del cod. penale.
A tal proposito, in via di principio, si rammenta – in conformità a
precedenti arresti di questa sezione confermati dalle Sezioni Unite – che si
configura il reato di ricettazione, sotto il profilo del dolo eventuale,
ogniqualvolta l’agente si è posto il quesito circa la legittima provenienza della
“res” risolvendolo nel senso dell’indifferenza della soluzione; si configura

quale è stato condannato – per vari episodi di ricettazione ipotesi lieve – alla

invece l’ipotesi di cui all’art. 712 c.p. quando il soggetto ha agito con
negligenza nel senso che, pur sussistendo oggettivamente il dovere di
sospettare circa l’illecita provenienza dell’oggetto, egli non si è posto il
problema ed ha, quindi, colposamente realizzato la condotta vietata (Cass.
pen., Sez. 2, 15/01/2001, n. 14170). In sostanza nel delitto di ricettazione è
ravvisabile il dolo eventuale quando la situazione fattuale – nella valutazione

dell’esperienza – sia tale da far ragionevolmente ritenere che non vi sia stata
una semplice mancanza di diligenza nel verificare la provenienza della “res”,
ma una consapevole accettazione del rischio che la cosa acquistata o
ricevuta fosse di illecita provenienza (Sez. 2, Sentenza n. 45256 del
22/11/2007 Ud. – dep. 05/12/2007 – Rv. 238515; Sez. Un. Sentenza n.
12433 del 26/11/2009 Ud. – dep. 30/03/2010 – Rv. 246324).
Ciò premesso, occorre osservare che la Corte di appello ha
puntualizzato di ravvisare il dolo diretto tenendo conto proprio della mancata
giustificazione del possesso del bene e per tutti gli altri motivi indicati nella
sentenza impugnata.
Si osserva, in proposito, che le valutazioni di merito sono insindacabili
nel giudizio di legittimità, quando il metodo di valutazione delle prove sia
conforme ai principi giurisprudenziali e l’argomentare scevro da vizi logici,
come nel caso di specie. (Cass. pen. sez. un., 24 novembre 1999, Spina,
214794).
Quanto sopra spiega, con evidenza, anche perché la Corte non abbia
ravvisato il reato di cui all’articolo 712 del c.p. e perché non vi sia la
necessità di ulteriore spiegazione sul punto, oltre a quella esaustiva fornita
dal Giudice di merito. Infatti tale deduzione difensiva è logicamente
incompatibile con la decisione adottata e pertanto non era neppure
necessario che fosse confutata esplicitamente (Sez. 4, Sentenza n. 1149 del
24/10/2005 Ud. – dep. 13/01/2006 – Rv. 233187). A tal proposito questa
Suprema Corte ha, infatti, più volte, affermato il principio — condiviso dal
Collegio — che la regola della “concisa esposizione dei motivi di fatto e di
diritto su cui la decisione è fondata”, enunciata dall’art. 546, comma primo,
lettera e), cod. proc. pen., rende non configurabile il vizio di legittimità
allorquando nella motivazione il giudice abbia dato conto soltanto delle

operata dal giudice di merito in conformità alle regole della logica e

ragioni in fatto e in diritto che sorreggono il suo convincimento, in quanto
quelle contrarie devono considerarsi implicitamente disattese perché del tutto
incompatibili con la ricostruzione del fatto recepita e con le valutazioni
giuridiche sviluppate. (Sez. 4, Sentenza n. 36757 del 04/06/2004 Ud. – dep.
17/09/2004 – Rv. 229688).
In relazione ai dubbi sollevati dal ricorrente per quanto riguarda la
provenienza delittuosa di alcune cose ricettate, si deve sottolineare che la

Corte di appello oltre a fornire un’incensurabile motivazione sul perché,
invece, ritiene provata tale circostanza richiama anche un consolidato e
condiviso principio di questa Corte secondo il quale l’affermazione della
responsabilità per il delitto di ricettazione non richiede l’accertamento
giudiziale della commissione del delitto presupposto, nè dei suoi autori, nè
dell’esatta tipologia del reato, potendo il giudice affermarne l’esistenza
attraverso prove logiche (Sez. 2, Sentenza n. 29685 del 05/07/2011 Ud. dep. 25/07/2011 – Rv. 251028; Sez. 1, Sentenza n. 29486 del 26/06/2013
Ud. – dep. 10/07/2013 – Rv. 256108).
Infine la Corte di appello ha ben posto in rilievo perché non incide su
quanto sopra il fatto che alcuni oggetti rinvenuti nel luogo nella disponibilità
dell’imputato fossero stati rubati in un periodo nel quale l’imputato era fuori
dal paese. Infatti, la Corte di merito ricava la convinzione che l’area di cui
l’imputato aveva la disponibilità fosse normalmente adibita a deposito di
oggetti rubati — e ovviamente con il consenso del Mangione stesso — anche
dal fatto che molte delle cose di illecita provenienza rinvenute nel luogo di cui
sopra erano state rubate in varie date, nelle quali l’imputato era certamente
nel paese ove si trova la predetta area.
Manifestamente infondata è anche la doglianza relativa al diniego delle
attenuanti generiche; infatti la Corte territoriale valuta correttamente i vari
elementi fissati dall’articolo 133 del c.p. per tale diniego.
Questa suprema Corte ha più volte affermato che ai fini dell’applicabilità
delle circostanze attenuanti generiche di cui all’art. 62 bis cod. pen., il
Giudice deve riferirsi ai parametri di cui all’art. 133 del codice penale, ma non
è necessario, a tale fine, che li esamini tutti, essendo sufficiente che
specifichi a quale di esso ha inteso fare riferimento Sez. 2, Sentenza n. 2285
del 11/10/2004 Ud. – dep. 25/01/2005 – Rv. 230691).

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Inoltre, sempre secondo i principi di questa Corte — condivisi dal
Collegio – ai fini dell’assolvimento dell’obbligo della motivazione in ordine al
diniego della concessione delle attenuanti generiche, il giudice non è tenuto
a prendere in considerazione tutti gli elementi prospettati dall’imputato
essendo sufficiente che egli spieghi e giustifichi l’uso del potere discrezionale
conferitogli dalla legge con l’indicazione delle ragioni ostative alla

in un caso posto all’attenzione di questa Suprema Corte – che ha considerato
corretta la relativa motivazione – il giudice di merito aveva ritenuto che non
potessero concedersi le attenuanti generiche in relazione alla gravità del fatto
ed ai precedenti penali dell’imputato. (Si veda Sez. 1, Sentenza n. 3772 del
11/01/1994 Ud. – dep. 31/03/1994 – Rv. 196880).
Incensurabile è la motivazione della Corte territoriale per quanto
riguarda la congruità della pena (la Corte osserva tra l’altro che il giudice di
primo grado oltre ad aver riconosciuto l’attenuante di cui al secondo comma
ha applicato lievi aumenti ex art. 81 del c.p. e per la recidiva e si è, anche,
dimenticato di applicare la multa).
In proposito questa Suprema Corte ha più volte affermato il principio —
condiviso dal Collegio – che la determinazione della misura della pena tra il
minimo e il massimo edittale rientra nell’ampio potere discrezionale del
giudice di merito, il quale assolve il suo compito anche se abbia valutato
globalmente gli elementi indicati nell’art. 133 cod. pen. (Sez. 4, Sentenza n.
41702 del 20/09/2004 Ud. – dep. 26/10/2004 – Rv. 230278). Inoltre, solo per
l’irrogazione di una pena base pari o superiore al medio edittale si richiede
una specifica motivazione in ordine ai criteri soggettivi ed oggettivi elencati
dall’art. 133 cod. pen., valutati ed apprezzati tenendo conto della funzione
rieducativa, retributiva e preventiva della pena (Sez. 3, Sentenza n. 10095
del 10/01/2013 Ud. – dep. 04/03/2013 – Rv. 255153).
A fronte di quanto sopra il ricorrente contrappone solo contestazioni,
che non tengono conto delle argomentazioni del Corte di appello.
In proposito questa Suprema Corte ha più volte affermato il principio,
condiviso dal Collegio, che è inammissibile il ricorso per cassazione quando
manchi l’indicazione della correlazione tra le ragioni argomentate dalla
decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’atto di impugnazione,

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concessione delle circostanze, ritenute di preponderante rilievo. Ad esempio

che non può ignorare le affermazioni del provvedimento censurato, senza
cadere nel vizio di aspecificità, che conduce, ex art. 591, comma primo, lett.
c), cod. proc. pen. all’inammissibilità del ricorso (Si veda fra le tante: Sez. 1,
sent. n. 39598 del 30.9.2004 – dep. 11.10.2004 – rv 230634).
Uniformandosi a tali orientamenti, che il Collegio condivide, va
dichiarata inammissibile l’impugnazione.

ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché al versamento, in
favore della Cassa delle ammende, di una somma che, considerati i profili di
colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in Euro 1.000,00.

PQM

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa
delle ammende.

Così deliberato in camera di consiglio, il 01/07/2014

Ne consegue, per il disposto dell’art. 616 c.p.p., la condanna del

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