Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 4221 del 18/12/2014


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 4221 Anno 2015
Presidente: PETTI CIRO
Relatore: ALMA MARCO MARIA

SENTENZA
sui ricorsi proposti da:



RACCUGLIA Domenico, nato ad Altofonte il 27/10/1964
CORRAO Salvatore, nato a Borgetto il 3/7/1955
MUSSO Santo, nato a Borgetto il 22/10/1971
GIAMBRONE Giuseppe, nato a Borgetto il 15/8/1957

nonché dal Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello di
Palermo nei confronti dei predetti e di NANIA Francesco, nato a Palermo il
19/1/1969 e BRUGNANO Pietro, nato a Partinico il 10/2/1973
avverso la sentenza n. 2611/2013 in data 10/6/2013 della Corte di Appello di
Palermo
visti gli atti, la sentenza e i ricorsi
udita la relazione svolta dal consigliere dr. Marco Maria ALMA;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale dott.
Massimo GALLI, che ha concluso chiedendo:
– per quanto concerne i ricorsi del P.G.: l’annullamento con rinvio della sentenza
impugnata nella parte relativa al mancato riconoscimento di circostanza
aggravante per CORRAO Salvatore, l’annullamento con rinvio della sentenza
impugnata nei confronti di NANIA Francesco, il rigetto dei ricorsi nei confronti di
MUSSO Santo, RACCUGLIA Domenico e GIAMBRONE Giuseppe, nonché la
declaratoria di inammissibilità del ricorso nei confronti di BRUGNANO Pietro;
– per quanto concerne il ricorso presentato nell’interesse di RACCUGLIA
Domenico: la declaratoria di inammissibilità;
– per quanto concerne i ricorsi presentati nell’interesse di CORRAO Salvatore,
MUSSO Santo e GIAMBRONE Giuseppe: il rigetto;
udito il difensore delle parti civili Comitato Addiopizzo, F.A.I. Federazione
Associazioni Antiracket ed Antiusura Italiane, Centro Studi ed Iniziative Culturali

Data Udienza: 18/12/2014

s

,

Pio La Torre Onlus, Confindustria Palermo, S.O.S. Impresa Palermo, Solidaria
SCS Onlus, Comune di Partinico e Confcommercio Palermo Avv. Ettore
BARCELLONA, che ha concluso associandosi alle richieste del P.G., chiedendo il
rigetto dei ricorsi e depositando conclusioni e note spese anche per gli avvocati
oggi sostituiti in udienza;
udito il difensore dell’imputato NANIA, Avv. Valerio VIANELLO ACCORRETTI, che
ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso del P.G.
udito il difensore dell’imputato BRUGNANO, Avv. Enrico TIGNINI, che ha
concluso associandosi alle richieste del P.G. d’udienza e chiedendo dichiararsi
l’inammissibilità del ricorso presentato contro il proprio assistito;
udito il difensore degli imputati CORRAO e MUSSO, Avv. Raffaele BONSIGNORE,
che ha concluso riportandosi ai motivi dei ricorsi, associandosi alle conclusioni
del P.G. d’udienza per quanto riguarda la posizione di CORRAO e chiedendo il
rigetto dei ricorsi del RG. nei confronti dei propri assistiti.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 10/6/2013 la Corte di Appello di Palermo, in parziale riforma
della sentenza del Tribunale di Palermo in data 23/4/2012, esclusa per tutti gli
imputati la circostanza aggravante di cui al comma 6, dell’art. 416-bis cod. pen.,
ha rideterminato la pena inflitta:
– a RACCUGLIA Domenico in anni 13 di reclusione;
– a CORRAO Salvatore, tenuto conto della continuazione riconosciuta con la
sentenza di primo grado, in anni 2 di reclusione in aggiunta alla pena inflitta con
la sentenza della Corte d’Assise di Palermo in data 23/7/2009 (irrevocabile il
21/10/2010), pena che, per l’effetto, è divenuta pari ad anni 9 di reclusione;
– a MUSSO Santo in anni 6 di reclusione;
– a GIAMBRONE Giuseppe in anni 6 di reclusione;
– a NANIA Francesco, tenuto conto della continuazione riconosciuta con la
sentenza di primo grado, in anni 2 di reclusione ed C 1.000,00 di multa in
aggiunta alla pena inflitta con la sentenza della Corte d’Assise di Palermo in data
20/4/2001 (irrevocabile il 7/6/2002), pena che, per l’effetto, è divenuta pari ad
anni 9 di reclusione ed C 5.131,76 di multa.
Ha assolto BRUGNANO Pietro dall’imputazione ascrittagli per non aver commesso
il fatto.
Ha confermato nel resto l’impugnata sentenza e condannato gli imputati per i
quali è stata dichiarata la colpevolezza, in solido tra loro, alla rifusione delle
spese processuali affrontate dalle parti civili costituite nelle misure
rispettivamente ritenute di giustizia.
Giova evidenziare fin da subito che le imputazioni per le quali si procede nei
confronti di tutti i predetti imputati riguardano il reato di partecipazione

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i.,

all’organizzazione mafiosa Cosa Nostra con differenti ruoli nell’ambito del
mandamento mafioso di Partinico e della famiglia mafiosa di Borgetto con
condotte che sulla base delle imputazioni originariamente elevate risultano
temporalmente collocate fino al maggio 2008.
Ricorrono per Cassazione avverso la predetta sentenza i difensori degli imputati
RACCUGLIA, CORRAO, MUSSO e GIAMBRONE deducendo quanto segue:

1A. Violazione dell’art. 606, lett. c) ed e) in relazione agli artt. 238-bis cod. proc.
pen. e 111 Cost.
Lamenta, al riguardo, il ricorrente che la Corte territoriale avrebbe omesso di
motivare in maniera congrua rispetto alla richiesta difensiva esplicitata nei motivi
di appello in ordine all’inutilizzabilità della sentenza del Tribunale di Palermo
emessa in data 27/10/2007 ed acquisita agli atti ai sensi dell’art. 238-bis cod.
proc. pen., sentenza riguardante soggetti diversi dall’odierno ricorrente ed
estranei all’imputazione addebitata allo stesso in questa sede.
Proprio in base alle risultanze della predetta sentenza la Corte territoriale
avrebbe ritenuto di attribuire il soprannome “veterinario” proprio al RACCUGLIA
il quale in tal modo non avrebbe potuto difendersi su tale punto nella sede
opportuna.
1B. Violazione dell’art. 606, lett. b), c) ed e) in relazione all’art. 416-bis cod.
pen. e 192, comma 3, cod. proc. pen.
Lamenta, al riguardo, il ricorrente che la sentenza di condanna emessa dalla
Corte territoriale si fonda non su prove ma su mere congetture in quanto la
Corte nel prendere in considerazione le dichiarazioni della collaborante Giusy
VITALE ha erroneamente ritenuto che le stesse trovino riscontro nelle
dichiarazioni di Michele SEIDITA, Antonino GIUFFRE’ e Gaspare PULIZZI, ciò in
quanto la VITALE è stata l’unica ad indicare il RACCUGLIA come il soggetto
conosciuto con il soprannome di “veterinario”, mentre né il SEIDITA né gli altri
collaboranti hanno affermato che il RACCUGLIA aveva tale soprannome.
Inoltre la sentenza impugnata avrebbe omesso di prendere in considerazione il
fatto che gli incontri che il SEIDITA ha riferito (non senza contraddizioni) aver
avuto con il RACCUGLIA non erano certo dimostrativi del ruolo apicale attribuito
a quest’ultimo. Anche dalle dichiarazioni dei collaboranti PULIZZI e GIUFFRE’
emergerebbe inoltre l’estraneità del RACCUGLIA ai fatti in contestazione, avendo
il PULIZZI all’udienza del 19/5/2010 parlato di altri soggetti di riferimento ad

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1) Per RACCUGLIA Domenico:

Altofonte ma non avendo egli mai riferito di essere stato a conoscenza di un
presunto ruolo rivestito da RACCUGLIA all’interno del mandamento di Partinico.
A ciò si aggiunga – sempre secondo il ricorrente – che la Corte territoriale, ha
assunto quale elemento principale per affermare la circostanza che il
soprannome “il veterinario” fosse da riferire alla persona del RACCUGLIA la citata
sentenza pronunciata dal Tribunale di Palermo in data 27/10/2007 mentre è
emerso processualmente (tramite le dichiarazioni dibattimentali del teste

polizia giudiziaria per confermare tale ipotesi investigativa.
Altrettanto dicasi per i soprannomi di “Sheverio peri i cacata”, “ragioniere” e
“capofficina” che sarebbero stati attribuiti all’odierno ricorrente esclusivamente
sulla base di mere congetture.
2) Per CORRAO Salvatore:
2A. Violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b), c) ed e) cod. proc. pen. in
relazione agli artt. 416-bis cod. pen., 125, 192 e 546, comma 1, lett. e) cod.
proc. pen. con riguardo al capo 1) della rubrica delle imputazioni.
Lamenta, al riguardo, il ricorrente di avere segnalato nei motivi di appello alla
Corte territoriale l’errato riferimento alla data di decorrenza della contestazione
elevata nell’imputazione (“dal 5 novembre 2004”) – data che coincide con
l’arresto del ricorrente – in quanto essendo il CORRAO già stato condannato con
sentenza passata in giudicato per condotte delittuose (art. 416-bis) a lui
contestate “fino al novembre 2004” lo stesso avrebbe potuto essere sottoposto a
procedimento penale per condotte successive a tale data, vale a dire “dal
dicembre 2004” in poi. La Corte territoriale avrebbe, invece, omesso di motivare
in maniera logica su tale aspetto così condannando due volte l’imputato per il
medesimo fatto con riguardo al predetto periodo di (parziale) sovrapposizione
temporale.
Altresì la Corte territoriale non avrebbe risolto con motivazione logica la
circostanza segnalata con la proposizione del gravame circa il fatto che al
CORRAO nel presente procedimento si contesta di far parte della famiglia
mafiosa di Borgetto mentre nella sentenza passata in giudicato gli era stato
contestato di aver fatto parte fino al novembre 2004 della famiglia mafiosa di
Partinico, così di fatto affermando che quantomeno nel novembre 2004
l’imputato avrebbe fatto parte allo stesso tempo di due differenti famiglie
mafiose.
La Corte territoriale, al fine di affermare la penale responsabilità del ricorrente
nel processo che in questa sede ci occupa ha, inoltre, valorizzato la precedente

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PANZARELLA Giuseppe) che nessuna indagine era stata effettuata dagli organi di

condanna a carico del CORRAO ed il contenuto di alcune conversazioni tra le
quali quelle intercettate all’interno del carcere di Messina così giungendo ad
affermare che esso CORRAO, nonostante il sopravvenuto stato di detenzione, ha
continuato a mantenere un ruolo di rilievo nell’organizzazione mafiosa. La Corte
territoriale avrebbe quindi errato nel ritenere la “permanenza” della
partecipazione all’associazione mafiosa anche in epoca successiva al novembre
2004 sulla base del fatto che il ricorrente era stato ritenuto partecipe di detta

giurisprudenza in materia – egli abbia concretamente assunto un ruolo nella
struttura criminale o realizzato compiti specifici affinché l’associazione
raggiungesse i suoi scopi. Le condotte ascritte in imputazione al CORRAO non
sarebbero quindi provate.
La Corte territoriale sarebbe, poi, incorsa in un ulteriore vizio giuridico e
motivazionale nel momento in cui ha utilizzato come prova dei fatti contestati
nell’imputazione il contenuto della conversazione del 2/10/2006 (ore 6.56.37)
intercorsa tra BACARELLA Gaspare e LA PUMA Salvatore – conversazione nella
quale gli stessi parlano di un soggetto “terzo” – e ciò sostenendo che per la
suddetta intercettazione “non si applica la regola di valutazione di cui all’art.
192, comma 3, cod. proc. pen. ma quella generale del prudente apprezzamento
del giudice” così ponendosi in contrasto con i principi al riguardo enunciati da
questa Suprema Corte che richiedono la sussistenza di precisi “riscontri” sul
punto trattandosi di “prova indiretta”. Al riguardo la Corte territoriale non
avrebbe neppure risposto alla doglianza difensiva nella quale – con riguardo ad
un’altra conversazione intercettata tra il BACARELLA ed il LA PUMA in data
11/11/2006 – si era evidenziato che i due parlavano di tale “manu lorde” (che si
identificherebbe nell’odierno ricorrente) e nella quale il BACARELLA ha esclamato
testualmente “minchia! Lui mi era sembrato”, cosa evidentemente impossibile in
quanto il CORRAO era detenuto dal 18/4/2005.
Ancora, sempre secondo il ricorrente, la sentenza impugnata sarebbe viziata
nella parte in cui la Corte territoriale ha ritenuto che l’imputato avesse
continuato a far parte della consorteria criminale, progettando e dirigendo azioni
delittuose, anche durante il regime detentivo mediante il nipote MUSSO Santo,
peraltro senza evidenziare che al CORRAO non è stato contestato alcun delittofine e che lo stesso MUSSO, durante le investigazioni non è mai stato visto dagli
operatori di polizia giudiziaria incontrarsi, frequentare o conversare con alcuno
dei presunti associati mafiosi, né a partecipare a riunioni con latitanti (ivi
compreso Domenico RACCUGLIA).

associazione in epoca precedente e ciò senza che – come richiederebbe la

Anche con riguardo al contenuto delle conversazioni intercettate, la sentenza
della Corte territoriale avrebbe erroneamente preteso di dimostrare la
colpevolezza del CORRAO attraverso la sola interpretazione dei dialoghi tra lo
stesso ed il nipote MUSSO Santo, senza ricercare alcun elemento di prova a
riscontro delle conversazioni intercettate con conseguente illogicità della
motivazione adottata.
2B. Violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e) cod. proc. pen. in relazione

Lamenta, al riguardo, il ricorrente il fatto che la Corte territoriale avrebbe errato
ritenendo la sussistenza della indicata circostanza aggravante della “associazione
armata” in quanto per la configurabilità della predetta circostanza aggravante
non è sufficiente che uno degli associati disponga di un’arma ma occorre che le
armi siano messe a disposizione dei compartecipi del gruppo.
In ogni caso il possesso di un’arma da parte dell’imputato è stato solo
incidentalmente rimarcato in sentenza senza uno specifico collegamento di tale
circostanza con la realtà associativa, il che determinerebbe il vizio di assenza di
motivazione sul punto.
2C. Violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b), c) ed e) cod. proc. pen. in
relazione agli artt. 62 bis, 132, 133, 230, e 417 cod. pen., 125 e 546 comma 1,
lett. e), cod. proc. pen.
Lamenta, al riguardo, il ricorrente che la sentenza impugnata è censurabile a
causa della mancata concessione all’imputato delle circostanze attenuanti
generiche in quanto sul punto è data riscontrarsi una carenza assoluta di
motivazione.
Infine, senza risposta – secondo il ricorrente – è rimasta la doglianza difensiva
circa l’eccessività della pena inflitta e, conseguentemente, della misura di
sicurezza applicata, essendosi sul punto la Corte territoriale limitata a rispondere
indistintamente alle doglianze difensive di tutti gli imputati.
3) Per MUSSO Santo:
3A. Violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b), c) ed e) cod. proc. pen. in
relazione agli artt. 416-bis cod. pen., 125, 192 e 546, comma 1, lett e) cod.
proc. pen. con riguardo al capo 1) della rubrica delle imputazioni.
Lamenta, al riguardo, il ricorrente che mentre nel capo di imputazione è stata
indicata solo la data finale del tempus commissi delicti (maggio 2008) in sede di
appello aveva chiesto alla Corte territoriale di circoscrivere il periodo di
contestazione all’imputato MUSSO “dall’aprile 2005 al novembre 2007” e che la

all’art. 416-bis, comma 4, cod. pen.

Corte pur avendo dato atto in motivazione della specifica doglianza non ha, poi,
di fatto, risposto alla stessa.
In secondo luogo la sentenza impugnata sarebbe viziata nella parte in cui non è
stato dimostrato quale contributo effettivo, consapevole e costante in favore
dell’organizzazione mafiosa “cosa nostra” avrebbe prestato il MUSSO al quale
non è stata contestata la partecipazione ad alcun reato-fine dell’organizzazione
stessa ed in relazione al quale non ha adeguatamente enucleato dal compendio
probatorio le condotte dimostrative di tale ruolo.

CORRAO Salvatore, la Corte territoriale sarebbe poi incorsa in un ulteriore vizio
giuridico e motivazionale nel momento in cui ha utilizzato come prova dei fatti
contestati nell’imputazione il contenuto della conversazione del 2/10/2006 (ore
6.56.37) intercorsa tra BACARELLA Gaspare e LA PUMA Salvatore nella quale gli
stessi parlano di un soggetto “terzo” sostenendo che per la suddetta
intercettazione “non si applica la regola di valutazione di cui all’art. 192, comma
3, cod. proc. pen. ma quella generale del prudente apprezzamento del giudice” e
ciò in contrasto con i principi al riguardo enunciati da questa Suprema Corte che
richiedono la sussistenza di precisi “riscontri” sul punto trattandosi di “prova
indiretta”.
Ancora, sempre secondo il ricorrente, la sentenza impugnata sarebbe viziata
nella parte in cui la Corte territoriale ha ritenuto che l’imputato avesse fornito un
apporto alla consorteria criminale assumendo, per conto dello zio detenuto
CORRAO Salvatore un ruolo di collegamento o di tramite con il mondo esterno,
peraltro senza evidenziare che al MUSSO, come detto, non è stato contestato
alcun delitto-fine e che lo stesso MUSSO, durante le investigazioni non è mai
stato visto dagli operatori di polizia giudiziaria incontrarsi, frequentare o
conversare con alcuno dei presunti associati mafiosi, né a partecipare a riunioni
con latitanti (ivi compreso Domenico RACCUGLIA).
Anche con riguardo al contenuto delle conversazioni intercettate, la sentenza
della Corte territoriale avrebbe erroneamente preteso di dimostrare la
colpevolezza del MUSSO attraverso la sola interpretazione dei dialoghi tra lo
stesso e lo zio CORRAO Salvatore, senza ricercare alcun elemento di prova a
riscontro delle conversazioni intercettate con conseguente illogicità della
motivazione adottata.
3B. Violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e) cod. proc. pen. in relazione
all’art. 416-bis, comma 4, cod. pen.

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In terzo luogo, così come già evidenziato nel ricorso presentato nell’interesse di

Lamenta, al riguardo, il ricorrente il fatto che la Corte territoriale avrebbe errato
ritenendo la sussistenza della indicata circostanza aggravante della “associazione
armata” in quanto per la configurabilità della predetta circostanza aggravante
non è sufficiente che uno degli associati disponga di un’arma ma occorre che le
armi siano messe a disposizione dei compartecipi del gruppo.
Il motivo di ricorso è identico a quello presentato nell’interesse di CORRAO
Salvatore e di cui al superiore punto 2B.

relazione agli artt. 62 bis, 132, 133, 230, e 417 cod. pen., 125 e 546 comma 1,
lett. e), cod. proc. pen.
Il motivo di ricorso è identico a quello presentato nell’interesse di CORRAO
Salvatore e di cui al superiore punto 2C al quale ci si riporta.
4) Per GIAMBRONE Giuseppe:
4A. Violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b), c) ed e) in relazione agli artt. 179
e 222 cod. proc. pen.
Lamenta, al riguardo, il ricorrente di avere eccepito in sede di appello una nullità
derivante dal fatto che la collaborante VITALE Giuseppa nel corso dell’udienza del
15-16/6/2010 era stata chiamata a svolgere attività di interpretazione di appunti
provenienti da soggetto diverso dalla stessa ed alla medesima esibiti dal Pubblico
Ministero. Sul punto la Corte territoriale, pur riconoscendo la sussistenza della
predetta nullità, ha ritenuto che la difesa vi avesse rinunciato acconsentendo alla
acquisizione degli atti del processo poi annullato dalla Corte di Cassazione.
Secondo il ricorrente in ciò consisterebbe l’errore non avendo, invece, egli
rinunziato alla eccepita nullità che peraltro non avrebbe comunque consentito di
utilizzare un atto nullo ed il Giudice di secondo grado, pur riconoscendo la nullità,
non vi ha dato seguito ritenendo erroneamente il rigetto implicito del Tribunale,
nel silenzio della motivazione dello stesso.
4B. Violazione dell’art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen. in relazione all’art.
192, comma 3 – travisamento del fatto, omessa valutazione dei mezzi di prova.
Lamenta, al riguardo, il ricorrente, che il Tribunale in sede di rinvio e la Corte
territoriale, poi, si sono appiattiti sulla prima sentenza del 27/10/2007, poi
annullata da questa Corte Suprema, che aveva erroneamente valutato il
contenuto della deposizione di VITALE Giuseppina alle udienze del 15-16/6/2006
circa l’appartenenza di GIAMBRONE Giuseppe alla consorteria mafiosa dato che
la VITALE aveva riferito che questi “non è uomo d’onore appartenente a “cosa
nostra”, bensì persona disponibile nel senso che se gli domandi un favore non ti

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3C. Violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b), c) ed e) cod. proc. pen. in

dice no e non può permettersi di dire no”. Detta espressione unita ad altre
utilizzate dalla collaborante si presta a significati diversi da quelli ritenuti dagli
organi giudicanti. Peraltro – a detta del ricorrente – le dichiarazioni effettuate
dalla VITALE si baserebbero su mere illazioni. Del resto – evidenzia sempre il
ricorrente – la non appartenenza del GIAMBRONE al sodalizio criminale sarebbe
comprovata anche dal contenuto di un’intercettazione ambientale relativa ad un
incontro tra GALLINA Maria e LO CRICCHIO Ottavio nel corso della quale i

stesso si era trasferito negli Stati Uniti) giungendo anche ad ipotizzare un caso di
c.d. “lupara bianca”, conclusione che gli stessi non avrebbero assunto se
l’odierno imputato fosse stato un loro associato. Tale notizia destò anche la
curiosità di Bernardo PROVENZANO che inviò un “pizzino” a Salvatore LO
PICCOLO chiedendogli “di chi fosse figlio” il GIAMBRONE ed il LO PICCOLO gli
rispose che non lo sapeva.
Anche le dichiarazioni che la VITALE ha effettuato all’udienza del 16/6/2010
dicendo di avere incontrato il GIAMBRONE unitamente ad un’altra persona ed in
compagnia del proprio nipote LOMBARDO Nicola i quali le chiesero quali erano la
sue intenzioni comunicandole che in quel momento il territorio era sotto la
supervisione del RACCUGLIA sarebbero divenute frutto di un’erronea, illogica e
contraddittoria interpretazione da parte della Corte territoriale la quale da un lato
ha affermato che non v’è prova che l’incontro sia avvenuto e, dall’altro, ha
attribuito tale affermazione proprio al GIAMBRONE.
Ancora, il collaboratore SEIDITA ha riferito di avere avuto diversi incontri con
RACCUGLIA e VICARI Antonino i quali, a suo dire si appartavano per discutere le
modalità dell’uccisione di GIAMBRONE Vito (fratello dell’odierno ricorrente) il che
porta ad escludere che GIAMBRONE Giuseppe potesse collaborare con costoro
come, invece, ha riferito la VITALE.
Tutto ciò, conclude il ricorrente, deve portare ad escludere una partecipazione
del GIAMBRONE alla associazione mafiosa di cui trattasi.
4C. Lamenta, inoltre, il ricorrente che la corte territoriale avrebbe errato nel
momento in cui ha ritenuto sussistente la circostanza aggravante della
“associazione armata” di cui all’art. 416-bis, comma 4, cod. pen. ricavandone la
prova dalle intercettazioni ambientali, dai colloqui a Gazzi e dall’arresto del
RACCUGLIA. Invero, nel corso delle perquisizioni eseguite nei luoghi di
pertinenza del GIAMBRONE non sono state rinvenute armi od altri beni di
analoga natura, né dalle ulteriori indagini (intercettazioni, pedinannenti, ecc.) è

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predetti disquisiscono della scomparsa del GIAMBRONE dal territorio (in realtà lo

emerso che il GIAMBRONE avesse il possesso di armi o che abbia programmato
delitti con l’uso di armi.
GIAMBRONE sarebbe stato quindi condannato per avere partecipato ad
un’associazione armata mentre le armi che erano in possesso di altri avrebbero
potuto essere utilizzate contro di lui, armi che, oltretutto, come si evincerebbe
dalle conversazioni intercettate erano custodite in maniera assai riservata ed
inaccessibile a chiunque. In sostanza, la pronuncia della Corte territoriale si

Corte Suprema.
Peraltro, sussistendo contrasto giurisprudenziale sul punto il ricorrente ha
richiesto l’assegnazione della presente decisione alle Sezioni Unite di questa
Corte Suprema.
Ricorre, infine, come detto, il Procuratore Generale presso la Corte di Appello di
Palermo deducendo la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della
motivazione della sentenza impugnata nonché l’erronea applicazione della legge
penale (artt. 192 cod. proc. pen. 81, 132 e 133 cod. pen.) sotto i seguenti
profili:
1. per CORRAO Salvatore:
Lamenta il Pubblico Ministero ricorrente che erroneamente la Corte territoriale ha
escluso il ruolo apicale dell’imputato CORRAO in seno all’articolazione locale
dell’organizzazione mafiosa di appartenenza.
Emergerebbe, infatti, dalle conversazioni ambientali intercettate in carcere tra lo
stesso ed il nipote MUSSO Santo che il CORRAO non solo veniva costantemente
tenuto informato circa le vicende che interessavano la famiglia mafiosa di
appartenenza e che egli non si limitava solo a commentare tali notizie ma che
dettava direttive su specifici episodi concernenti danneggiamenti od appalti da
aggiudicare a soggetti determinati e sulle strategie da adottare in ordine agli
equilibri all’interno della cosca.
La Corte territoriale nell’esaminare tale situazione ed il relativo compendio
probatorio sarebbe quindi incorsa nel medesimo errore metodologico nel quale
erano incorsi i giudici di prime cure non tenendo in debito conto la
prospettazione accusatoria secondo la quale, avendo il CORRAO programmato
l’eliminazione (“mandi in ferie”) dell’odierno coimputato GIAMBRONE Giuseppe
detto “Valigia”, del di lui nipote GIAMBRONE Antonino detto “Pomata” e di LO
BAUDO Giuseppe detto “a Zotta” (tutti esponenti del gruppo contrapposto e
questi ultimi due effettivamente uccisi nell’anno 2007) avrebbe in tal modo
evidenziato il suo ruolo di leadership in seno alla consorteria criminale, ruolo che

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porrebbe in contrasto con la più recente giurisprudenza in materia di questa

invece la stessa Corte territoriale dopo avere evidenziato che il conferimento di
un mandato ornicidiario “costituisce chiara testimonianza di un ruolo direttivo”
non ha peraltro confermato con riguardo al CORRAO asserendo che le
conversazioni indicate dalla Pubblica Accusa hanno comunque un contenuto
equivoco e che il CORRAO rivestiva un ruolo subordinato rispetto al RACCUGLIA
od al RAPPA nei confronti dei quali manteneva atteggiamenti di grande rispetto
ed ai quali mandava “deferenti saluti”.

attestati di stima ed affetto trovano giustificazione nei diversi ruoli direttivi (di
capo famiglia e di capo mandamento) rivestiti dai predetti.
Così come la conversazione intercettata in data 8/7/2006 tra il CORRAO ed il
MUSSO relativa ai propositi omicidiari di cui si è detto appare di contenuto
tutt’altro che equivoco se rapportata all’intero contesto nel quale si è svolta ed al
complessivo compendio probatorio e non esaminata in una situazione di
sostanziale autonomia come avrebbe, invece, erroneamente fatto la Corte
Territoriale così ribaltando la decisione del Giudice di prime cure.
Ancora, la Corte territoriale avrebbe dedicato poche parole meramente
descrittive ed acritiche all’esame dell’altro elemento che secondo la
prospettazione accusatoria dimostra il ruolo di organizzazione e direzione della
consorteria criminale in capo all’imputato, ossia la conversazione del 2/10/2006
tra LA PALMA e BACARELLA nel corso della quale i due commentano le “qualità”
dei soggetti succedutisi ai vertici della cosca di Borgetto, limitandosi ad
osservare che da detta conversazione emerge che “CORRAO aveva avuto
all’interno della famiglia un compito direttivo poi perduto, evidenziando come lo
stesso per un certo periodo ha poi comandato”, senza però trarne ancora una
volta le logiche conclusioni.
2. per BRUGNANO Pietro:
Ribaltando la condanna per concorso esterno in associazione mafiosa emessa dal
Giudice di prime cure, la Corte territoriale ha assolto il BRUGNANO per non avere
commesso il fatto.
Lamenta il Pubblico Ministero ricorrente che anche in questo caso la Corte
territoriale avrebbe effettuato un approccio errato al materiale probatorio avendo
decontestualizzato le emergenze processuali nei confronti del BRUGNANO. In
particolare, la Corte territoriale dopo aver dato per certa l’identificazione del
BRUGNANO in tale “Piero” emerso nel corso dei colloqui tra Salvatore CORRAO, il
di lui figlio Leonardo e Santo MUSSO ha ritenuto non certo il fatto che lo stesso
possa identificarsi nel “Pieruzzo” aduso a commettere furti d’auto e del quale

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Nel fare ciò la Corte territoriale non avrebbe tenuto in debito conto il fatto che gli

BACARELLA e LA PUMA avrebbero descritto l’azione nella fase preparatoria
dell’omicidio di Antonino GIAMBRONE ciò anche in relazione al dato ritenuto
altamente significativo che il BRUGNANO non ha precedenti penali specifici per
furto o ricettazione di autovetture.
L’assenza di precedenti specifici dell’imputato sarebbe quindi frutto di una
valutazione illogica da parte della Corte territoriale non avendo mai LA PUMA,
BACARELLA od altri fatto riferimento a “precedenti specifici” del “Pieruzzo” ma

d’auto.
I Giudici d’appello avrebbero, inoltre, tralasciato di considerare il significativo
elemento logico valorizzato dal Tribunale al fine di ricondurre alla persona del
BRUGNANO tanto il “Piero” che il “Pieruzzo”, ovvero l’interesse degli appartenenti
alla famiglia mafiosa di Borgetto nei confronti dell’imputato così come emerge
nel corso di un colloquio intercettato in carcere il 29/7/2006 tra CORRAO e
MUSSO i quali discutendo inequivocabilmente del BRUGNANO hanno
commentato che il “picciutteddu” si comporta bene (ovviamente secondo l’ottica
mafiosa) nonché di prendere in considerazione una prospettiva unitaria delle
risultanze processuali valorizzando – come invece avevano fatto i Giudici di
prime cure – il contesto temporale dei colloqui di cui si è detto, avvenuti nel
pieno dell’attività prodromica all’omicidio del GIAMBRONE.
3. per NANIA Francesco:
Confermando la sentenza impugnata tanto dall’imputato che dal Pubblico
Ministero, la Corte territoriale ha condannato NANIA Francesco per la condotta di
partecipazione all’associazione criminosa a far tempo dal 18/3/2000 (il
precedente periodo è coperto da precedente giudicato) e fino al novembre 2004
e lo ha assolto per la condotta successiva contestatagli fino al maggio 2008.
Lamenta, al riguardo, il Pubblico Ministero ricorrente la presenza nella sentenza
impugnata di un vizio di motivazione sul punto in quanto la Corte territoriale
dopo avere evidenziato in una prima parte il profondo e risalente radicamento
familiare del NANIA nella consorteria mafiosa di Partinico ha successivamente
trattato dell’impugnazione proposta dal Pubblico Ministero rigettandola con una
motivazione solo apparente non esaminando criticamente le risultanze segnalate
dalla Pubblica Accusa come dimostrative del perdurante inserimento
dell’imputato in “cosa nostra” e limitandosi ad una mera e parziale elencazione
delle intercettazioni dei colloqui in carcere tra CORRAO e MUSSO nelle parti in cui
hanno parlato dell’imputato indicandolo come “Bocciolo” o come il “Nano”.

12

solo al fatto che questi fosse un soggetto non nuovo alla consumazione di furti

Anche in questo caso – secondo il ricorrente – la Corte territoriale non ha dato il
giusto rilievo critico al contenuto delle conversazioni intercettate, non ha fatto
alcun riferimento ai rilievi proposti dal Pubblico Ministero appellante in ordine alle
rilevate criticità della sentenza, né ha affrontato adeguatamente i motivi del
viaggio di MUSSO, BACARELLA e PELLERITO nell’ottobre 2006 negli Stati Uniti
(ove all’epoca si trovava il NANIA) viaggio acriticamente liquidato come una
sorta di rimpatriata tra vecchi amici. In realtà, ha rilevato il ricorrente, sulla base

nella necessità di risolvere una crisi di potere venutasi a determinare nella cosca
di Borgetto e, pertanto, è nell’autorevole intervento dell’imputato che in questa
sede ci occupa che andrebbe individuata la vera ragione del predetto viaggio
negli USA.
Da ultimo la Corte territoriale avrebbe errato nella propria decisione anche sotto
un profilo di diritto con riguardo alla perdurante partecipazione al sodalizio
criminoso contestata a soggetto già condannato con sentenza irrevocabile per il
medesimo delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen., trattandosi di condotta a
natura permanente che tale permane fino alla dissociazione od alla morte, sicché
la perdurante appartenenza al sodalizio criminale di un soggetto del quale sia
provata l’affiliazione non richiede un contributo apprezzabile e concreto,
bastando una qualsiasi dimostrazione, anche solo di carattere morale, della
persistenza del vincolo associativo.
4. per tutti gli imputati:
Rileva il Pubblico Ministero ricorrente che in conseguenza dell’eliminazione della
circostanza aggravante di cui all’art. 416-bis, comma 6, cod. pen. la Corte
territoriale ha ridotto sensibilmente le pene comminate a tutti gli imputati ma ha
omesso da dare debito conto a norma dell’art. 132 cod. pen. dell’uso del proprio
potere discrezionale e della valutazione dei criteri che a norma dell’art. 133 cod.
pen. devono orientare l’esercizio di tale potere.
La Corte territoriale si sarebbe, infatti, limitata nella motivazione della sentenza
impugnata ad enunciare clausole di stile senza effettuare un giudizio più
penetrante anche in relazione alla specificità dei fatti ed alla capacità a
delinquere degli imputati.
Infine, la Corte territoriale ha ritenuto di individuare la pena base a carico di
CORRAO Salvatore in quella di anni 7 di reclusione inflittagli con la sentenza
irrevocabile per il medesimo delitto di cui all’art. 416-bis in quanto aggravato ai
sensi del comma 6 della medesima disposizione di legge. Ciò contrasta – a detta
del ricorrente – con i principi in materia dettati dalle Sezioni Unite di questa

13

delle intercettazioni effettuate il viaggio negli USA trovava il suo fondamento

Corte Suprema sulla base dei quali in tema di reato continuato la violazione più
grave va individuata in astratto. Orbene, il CORRAO, come detto aveva riportato
condanna per il delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen., aggravato anche ai sensi
del comma 6 della medesima disposizione di legge commesso prima dell’entrata
in vigore della I. 5/12/2005 n. 251 e punito con la pena edittale da 6 a 15 anni di
reclusione, mentre nel caso della sentenza che in questa sede ci occupa lo stesso
CORRAO è stato ritenuto colpevole del medesimo reato commesso fino al maggio

conto dell’esclusione dell’indicata circostanza aggravante, lo stesso è punito con
pena edittale da 7 a 15 anni di reclusione e, quindi, è il reato per il quale si
procede che la Corte territoriale avrebbe dovuto assumere come reato-base per
il computo della pena ai fini della continuazione.
Per dovere di completezza deve essere rilevato che in data 4/9/2014 la difesa
dell’imputato NANIA ha depositato nella Cancelleria di questa Corte una memoria
con la quale ha eccepito la violazione dell’art. 582 in relazione all’art. 591 cod.
proc. pen. sostenendo che l’atto di ricorso del Pubblico Ministero è affetto da
violazione di legge essendo lo stesso stato depositato presso la Segreteria della
Procura Generale della Repubblica di Palermo ma non presso la Cancelleria del
Giudice come previsto a pena di inammissibilità dall’art. 582 cod. proc. pen.
Ha, inoltre, rilevato il medesimo difensore, allegando un atto datato 6/3/2014
della medesima Procura Generale come dallo stesso si evince che la sentenza
contro il NANIA sarebbe divenuta definitiva il 31/10/2013.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Vanno doverosamente premesse in diritto ed in relazione agli aspetti di censura
della motivazione della sentenza (comuni a tutti i ricorsi qui in esame) alcuni
principi di carattere generale alla luce degli arresti giurisprudenziali di questa
Corte Suprema.
In tema di sindacato del vizio della motivazione ex art. 606 cod. proc. pen.,
comma 1, lett. e), si deve rammentare che, nell’apprezzamento delle fonti di
prova, il compito del giudice di legittimità non è di sovrapporre la propria
valutazione a quella compiuta dai giudici di merito, ma solo di stabilire se questi
ultimi: 1) abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione; 2) abbiano
fornito una corretta interpretazione di essi; 3) abbiano dato esaustiva e
convincente risposta alle deduzioni delle parti; 4) abbiano esattamente applicato
le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la
scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre (v. Cass. Sez. U, sent. n.

14

2008, reato che è da considerarsi in astratto più grave in quanto, anche tenendo

930 del 13/12/1995, dep. 29/01/1996, Rv. 203428; Sez. 6, sent. n. 10751 del
05/11/1996,

dep.

13/12/1996,

Rv.

206335;

06/06/1997,

dep.

21/07/1997,

Rv.

208241;

Sez.

10/02/1998,

dep.

10/03/1998,

Rv.

210016;

Sez.

17/12/1998,

dep.

05/02/1999,

Rv.

212278;

Sez.

Sez.

1,
1,
1,
6,

sent.
sent.
sent.
sent.

n.
n.
n.
n.

7113

del

803

del

1507

del

863

del

10/03/1999, Rv. 212997). Dall’affermazione di questo principio, ormai costante
nel panorama giurisprudenziale, discende che: A) esula dai poteri della

impugnato, la formulazione di una nuova e diversa valutazione degli elementi di
fatto posti a fondamento della decisione, giacché tale attività è riservata
esclusivamente al giudice di merito, potendo riguardare il giudizio di legittimità
solo la verifica dell'”iter” argomentativo di tale giudice, accertando se
quest’ultimo abbia o meno dato conto adeguatamente delle ragioni che lo hanno
condotto ad emettere la decisione (Cass. Sez. 6, 14.4.1998 n. 1354); B) la
specificità della disposizione di cui all’art. 606 cod. proc. pen., lett. e) esclude
che la norma possa essere dilatata per effetto di regole processuali concernenti
la motivazione stessa, utilizzando la diversa ipotesi di cui all’art. 606 cod. proc.
pen., lett. c). L’espediente non è consentito: sia per i ristretti limiti nei quali la
disposizione ora citata prevede la deducibilità per cassazione delle violazioni di
norme processuali (considerate solo se stabilite “a pena di nullità, di
inutilizzabilità, di inammissibilità o di decadenza”), sia perché la puntuale
indicazione contenuta nella lett. e), riferita al “testo del provvedimento
impugnato”, collega in via esclusiva e specifica al limite predetto qualsiasi vizio
motivazionale; D) non può costituire motivo di ricorso sotto il profilo dell’omessa
motivazione il mancato riferimento a dati probatori acquisiti; se è vero che tale
vizio è ravvisabile non solo quando manca completamente la parte motiva della
sentenza, ma anche qualora non sia stato considerato un argomento
fondamentale per la decisione espressamente sottoposto all’analisi del giudice, il
concetto di mancanza di motivazione non può essere tanto esteso da includere
ogni omissione concernente l’analisi di determinati elementi probatori. Invero, un
elemento probatorio estrapolato dal contesto in cui esso si inserisce, non posto a
raffronto con il complesso probatorio, può acquisire un significato molto
superiore a quello che gli è attribuibile in una valutazione completa del quadro
delle prove acquisite. Ritenere il vizio di motivazione per l’omessa menzione di
un tale elemento nella sentenza comporterebbe il rischio di annullamento di
decisioni logiche e ben correlate alla sostanza degli elementi istruttori disponibili.
Per ovviare ad un tale rischio, la Corte di legittimità dovrebbe valutare la portata

15

Cassazione, nell’ambito del controllo della motivazione del provvedimento

dell’elemento additato dalla difesa nel contesto probatorio acquisito, con una
sovrapposizione argomentativa che sconfinerebbe nei compiti riservati al giudice
di merito (Cass. Sez. 1, sent. n. 13528 del 11/11/1998, dep. 22/12/1998, Rv.
212053); E) in tema di giudizio di appello, il giudice non è tenuto a prendere in
considerazione ogni argomentazione proposta dalle parti, essendo sufficiente che
egli indichi le ragioni che sorreggono la decisione adottata, dimostrando di aver
tenuto presente ogni fatto decisivo; né l’ipotizzabilità di una diversa valutazione

in sede di legittimità (Cass. Sez. 5, sent. n. 7588 del 06/05/1999, dep.
11/06/1999, Rv. 213630).
Passando al più specifico tema del “vizio di manifesta illogicità” della
motivazione, va osservato che il controllo di legittimità viene esercitato
esclusivamente sul fronte della coordinazione delle proposizioni e dei passaggi
attraverso i quali si sviluppa il tessuto argomentativo del provvedimento
impugnato, senza la possibilità, per il giudice di legittimità, di verificare se i
risultati dell’interpretazione delle prove siano effettivamente corrispondenti alle
acquisizioni probatorie risultanti dagli atti del processo, sicché nella verifica della
fondatezza, o meno, del motivo di ricorso ex art. 606 cod. proc. pen., comma 1,
lett. e), il compito della Corte di Cassazione non consiste nell’accertare la
plausibilità e l’intrinseca adeguatezza dei risultati dell’interpretazione delle prove,
coessenziale al giudizio di merito, ma in quello, ben diverso, di stabilire se i
giudici di merito: al) abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione;
bl) abbiano dato esauriente risposta alle deduzioni delle partì; cl)
nell’interpretazione delle prove abbiano esattamente applicato le regole della
logica, le massime di comune esperienza e i criteri legali dettati in tema di
valutazione delle prove, in modo da fornire la giustificazione razionale della
scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre. Ne consegue che, ai fini
della denuncia del vizio in esame, è indispensabile dimostrare che il testo del
provvedimento impugnato sia manifestamente carente di motivazione e/o di
logica, per cui non può essere ritenuto legittimo l’opporre alla valutazione dei
fatti contenuta nella decisione una diversa ricostruzione degli stessi (magari
altrettanto logica), perché in tal caso verrebbe inevitabilmente invasa l’area degli
apprezzamenti riservati al giudice di merito (Cass. Sez. U, sent. n. 6402 del
30/04/1997, dep. 02/07/1997, Rv. 207944; Sez. 1, sent. n. 12496 del
21/09/1999, dep. 04/11/1999, Rv. 214567; Sez. 4, sent. n. 4842 del
02/12/2003, dep. 06/02/2004). Infatti il controllo di legittimità operato dalla
Corte di Cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga

16

delle medesime risultanze processuali costituisce vizio di motivazione, valutabile

effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, né deve condividerne
la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se tale giustificazione sia
compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di
apprezzamento (Cass. Sez. 5, sent. n. 1004 del 30/11/1999, dep. 31/01/2000,
Rv. 215745; Sez. 4, sent. n. 4842 del 02/12/2003, dep. 06/02/2004, Rv.
229369).
Va da ultimo ancora osservato che la denunzia di minime incongruenze

ritenga tali da determinare una diversa decisione (ma che non siano
inequivocabilmente muniti di un chiaro carattere di decisività), non possono dar
luogo all’annullamento della sentenza, posto che non costituisce vizio della
motivazione qualunque omissione valutativa che riguardi singoli dati estrapolati
dal contesto. Al contrario, è solo l’esame del complesso probatorio entro il quale
ogni elemento sia contestualizzato che consente di verificare la consistenza e la
decisività degli elementi medesimi, oppure la loro ininfluenza ai fini della
compattezza logica dell’impianto argomentativo della motivazione (Cass. Sez. 2,
sent. n. 18163 del 22/04/2008, dep. 06/05/2008, Rv. 239789).
Passando al tema del vizio di “travisamento” dell’atto va osservato che, a seguito
delle modifiche dell’art. 606 cod. proc. pen., comma 1, lett. e) ad opera della L.
n. 46 del 2006, art. 8, mentre non è consentito dedurre il “travisamento del
fatto” (Cass. Sez. 6, sent. n. 25255 del 14/02/2012, dep. 26/06/2012, Rv.
253099), stante la preclusione per il giudice di legittimità di sovrapporre la
propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti
gradi di merito, è invece, consentita la deduzione del vizio di “travisamento della
prova”, che ricorre nel caso in cui il giudice di merito abbia fondato il proprio
convincimento su una prova che non esiste o su un risultato di prova
incontestabilmente diverso da quello reale, considerato che, in tal caso, non si
tratta di reinterpretare gli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini
della decisione, ma di verificare se detti elementi sussistano (Cass. Sez. 2, sent.
n. 23419 del 23/05/2007, dep. 14/06/2007, Rv. 236893; Sez. 4, sent. n. 35683
del 10/07/2007, dep. 28/09/2007, Rv. 237652; Sez. 5, sent. n. 39048 del
25/09/2007, dep. 23/10/2007, Rv. 238215). Sul tema va ancora precisato che la
novella codícistica, introdotta con la L. n. 46 del 2006, nel riconoscere la
possibilità di deduzione del vizio di motivazione anche con il riferimento ad “atti
processuali” (che devono essere specificamente indicati nei motivi di
impugnazione, nel rispetto del principio di autosufficienza del ricorso medesimo),
non ha comunque mutato la natura del giudizio di Cassazione, che rimane pur

17

argomentative o l’omessa esposizione di elementi di valutazione, che il ricorrente

sempre un giudizio di legittimità, sicché gli atti eventualmente indicati devono
contenere elementi processualmente acquisiti, di natura certa ed obiettivamente
incontrovertibili, che possano essere considerati decisivi in rapporto esclusivo
alla motivazione del provvedimento impugnato e, nell’ambito di una valutazione
unitaria, devono essere tali da inficiare la struttura logica del provvedimento
stesso (Cass. Sez. 2, sent. n. 7380 del 11/01/2007, dep. 22/02/2007, Rv.
235716). In consonanza con quanto fin qui richiamato, va ancora osservato che:

dichiarativa (deposizione testimoniale, dichiarazione di un collaboratore di
giustizia), l’oggetto della stessa deve essere del tutto definito o attenere alla
proposizione di un dato storico semplice e non opinabile (in tal senso Cass. Sez.
4, sent. n. 15556 del 12/02/2008, dep. 15/04/2008, Rv. 239533 ove in
motivazione si è affermato che al di fuori degli evidenziati limiti, dovendosi
considerare la deposizione sempre il frutto della percezione soggettiva del
testimone, la sua valutazione ha inevitabilmente chiamato il giudice di merito a
“depurare” il dichiarato dalle cause di interferenza provenienti dal dichiarante,
operazione che per essere apprezzata dal giudice di legittimità presuppone la
contezza non del singolo atto processuale, bensì dell’intero compendio
probatorio, nonché una analisi comparativa che rimane preclusa a suddetto
giudice); 2) in forza della regola della “autosufficienza” del ricorso, operante
anche in sede processuale penale, il ricorrente che intenda dedurre in sede di
legittimità il travisamento di una prova testimoniale ha l’onere di suffragare la
validità del suo assunto mediante la completa trascrizione dell’integrale
contenuto delle dichiarazioni rese dal testimone, non consentendo la citazione di
alcuni brani delle medesime l’effettivo apprezzamento del vizio dedotto (Cass.
Sez. 4, sent. n. 37982 del 26/06/2008, dep. 03/10/2008, Rv. 241023).
Da ultimo in tema di valutazione del contenuto di intercettazioni si deve ancora
rammentare che: A2) gli indizi raccolti nel corso delle intercettazioni possono
costituire fonte diretta di prova della colpevolezza dell’imputato e non devono
necessariamente trovare riscontro in altri elementi esterni, qualora siano: a)
gravi, cioè consistenti e resistenti alle obiezioni e quindi attendibili e convincenti;
b) precisi e non equivoci, cioè non generici e non suscettibili di diversa
interpretazione altrettanto verosimile; c) concordanti, cioè non contrastanti tra
loro e, più ancora, con altri dati o elementi certi (Cass. Sez. 6, sent. n. 3882 del
04/11/2011, dep. 31/01/2012, Rv. 251527); B2) l’interpretazione del linguaggio
e del contenuto delle conversazioni costituisce questione di fatto, rimessa alla
valutazione del giudice di merito, che si sottrae al sindacato di legittimità se

18

1) qualora la prova che si assume essere stata travisata provenga da una fonte

motivata in conformità ai criteri della logica e delle massime di esperienza (Cass.
Sez. 6, sent. n. 46301 del 30/10/2013, dep. 20/11/2013, Rv. 258164; Sez. 6,
sent. n. 11794 del 11/02/2013, dep. 12/03/2013, Rv. 254439; Sez. 6, sent. n.
15396 del 11/12/2007, dep. 11/04/2008, Rv. 239636; Sez. 6, sent. n. 17619 del
08/01/2008, dep. 30/04/2008, Rv. 239724; Cass. Sez. 6, sent. n. 35680 del
10/06/2005, dep. 04/10/2005, Rv. 232576).
Ciò doverosamente premesso, passando ora al merito dei singoli ricorsi, il

1. Con il primo motivo di ricorso proposto nell’interesse dell’imputato
RACCUGLIA e sopra indicato al punto “1A” si lamenta che la Corte territoriale
avrebbe omesso di motivare in maniera congrua in ordine all’inutilizzabilità della
sentenza del Tribunale di Palermo emessa in data 27/10/2007 ed acquisita agli
atti ai sensi dell’art. 238-bis cod. proc. pen., sentenza riguardante soggetti
diversi dall’odierno ricorrente ed estranei all’imputazione addebitata allo stesso
in questa sede.
La censura è connotata da manifesta infondatezza se si considera – come ha
correttamente evidenziato la Corte territoriale ed è condiviso dall’odierno
Collegio – che l’interpretazione dell’art. 238 bis c.p.p., patrocinata dal ricorrente,
e cioè che le sentenze irrevocabili acquisite ai sensi di tale norma non sarebbero
utilizzabili nei confronti di terzi rimasti estranei ai procedimenti nei quali esse
sono state pronunciate, è sconfessata dal tenore testuale della disposizione, che
recita “le sentenze divenute irrevocabili possono essere acquisite ai fini della
prova di fatto in esse accertato”, senza alcuna limitazione, quindi, alla riferibilità
del fatto accertato al soggetto imputato nel procedimento in cui dette sentenze
vengono acquisite. Del resto l’utilizzabilità erga omnes del fatto accertato non è
in alcun modo lesiva del diritto di difesa del terzo, garantito dalle limitazioni,
regolate dall’art. 192 c.p.p., comma 3, cui l’art. 238 bis c.p.p. fa espresso
richiamo, che assistono l’efficacia probatoria del fatto accertato nel diverso
procedimento (in tal senso cfr. ex ceteris Cass. Sez. 5, sent. n. 7993 del
13/11/2012, dep. 19/02/2013, Rv. 255058).
In ogni caso, le sentenze irrevocabili acquisite ai sensi dell’art. 238 bis cod. proc.
pen. sono valutate, al pari delle dichiarazioni dei coimputati nel medesimo
procedimento o in procedimento connesso, attraverso la verifica dei necessari
riscontri che possono consistere in elementi di prova sia rappresentativa che
logica (Cass. Sez. 6, sent. n. 42799 del 30/09/2008, dep. 17/11/2008, Rv.
241860).

19

Collegio osserva quanto segue:

E, valga il vero, non è corretto sostenere come fa il ricorrente che proprio in
base alle risultanze della predetta sentenza la Corte territoriale avrebbe ritenuto
di attribuire il soprannome “veterinario” proprio al RACCUGLIA il quale in tal
modo non avrebbe potuto difendersi su tale punto nella sede opportuna.
In realtà, come si evince chiaramente dal testo della sentenza impugnata, la
collaborante VITALE fin dal proprio interrogatorio del 18/2/2005 ha trattato della
posizione del RACCUGLIA indicandone il soprannome “veterinario”, soprannome

corso delle dichiarazioni rese in data 16/6/2010 nel dibattimento di primo grado.
In sostanza il contenuto della sentenza del Tribunale di Palermo emessa in data
27/10/2007 ed acquisita agli atti ai sensi dell’art. 238-bis cod. proc. pen. non
rappresenta l’unico elemento sulla base del quale la Corte territoriale risulta aver
fondato il proprio convincimento che l’imputato RACCUGLIA fosse
soprannominato “veterinario” ma costituisce riscontro alle dichiarazioni rese dalla
VITALE anche in una sede processuale nella quale l’imputato era presente ed ha
avuto la possibilità di difendersi.
La Corte territoriale ha quindi correttamente agito quando ha ritenuto di
utilizzare il contenuto della sentenza de qua anche sotto tale profilo perché ciò è
conforme ad un principio stabilito da questa Corte Suprema e condiviso
dall’odierno Collegio in base al quale, “quando una sentenza irrevocabile viene
acquisita nel processo ai sensi dell’art. 238 bis cod. proc. pen., per fornire la
prova diretta del fatto oggetto del suo accertamento, necessita di una conferma
esterna, mentre, nell’ipotesi in cui la stessa sentenza venga utilizzata come mero
riscontro di altre prove già acquisite, tale conferma non risulta necessaria” (Cass.
Sez. 4, sent. n. 12349 del 29/01/2008, dep. 20/03/2008, Rv. 239299).
2. Con il secondo motivo di ricorso proposto nell’interesse dell’imputato
RACCUGLIA e sopra indicato al punto “2A” si lamenta che la sentenza di
condanna emessa dalla Corte territoriale si fonda non su prove ma su delle mere
congetture in quanto la Corte nel prendere in considerazione le dichiarazioni
della collaborante Giusy VITALE ha erroneamente ritenuto che le stesse trovino
riscontro nelle dichiarazioni di Michele SEIDITA, Antonino GIUFFRE’ e Gaspare
PULIZZI, ciò in quanto la VITALE è stata l’unica ad indicare il RACCUGLIA come il
soggetto conosciuto con il soprannome di “veterinario”, mentre né il SEIDITA né
gli altri collaboranti hanno dichiarato che il RACCUGLIA aveva tale soprannome.
Inoltre, come detto, la sentenza impugnata avrebbe omesso di prendere in
considerazione il fatto che gli incontri che il SEIDITA ha riferito (non senza
contraddizioni) aver avuto con il RACCUGLIA non erano certo dimostrativi del

20

che, ha evidenziato la Corte territoriale, è stato ribadito dalla dichiarante nel

ruolo apicale attribuito a quest’ultimo. Anche dalle dichiarazioni dei collaboranti
PULIZZI e GIUFFRE’ emergerebbe inoltre l’estraneità del RACCUGLIA ai fatti in
contestazione, avendo il PULIZZI all’udienza del 19/5/2010 parlato di altri
soggetti di riferimento ad Altofonte ma non avendo egli mai riferito di essere
stato a conoscenza di un presunto ruolo rivestito da RACCUGLIA all’interno del
mandamento di Partinico.
Il predetto motivo di ricorso è manifestamente infondato e, per l’effetto,

La difesa del ricorrente attraverso una “parcellizzazione” di alcune risultanze
processuali tenta, innanzitutto, di sottoporre a questa Corte un nuovo, quanto
inammissibile, giudizio di merito in ordine alla posizione del RACCUGLIA.
Nel fare ciò, ed anche in chiara violazione del sopra citato principio di
autosufficienza del ricorso, si limita a citare alcuni passaggi delle dichiarazioni di
collaboranti o testimoni così tralasciando l’interezza del loro contenuto e
cercando di evidenziare una sorta di travisamento delle prove.
Nel caso di specie va doverosamente ricordato che con riguardo alla decisione in
ordine all’odierno ricorrente ci si trova dinanzi ad una c.d. “doppia conforme” e
cioè doppia pronuncia di eguale segno per cui il vizio di travisamento della prova
può essere rilevato in sede di legittimità solo nel caso in cui il ricorrente
rappresenti (con specifica deduzione) che l’argomento probatorio asseritamente
travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione della
motivazione del provvedimento di secondo grado.
Il vizio di motivazione può, infatti, essere fatto valere solo nell’ipotesi in cui
l’impugnata decisione ha riformato quella di primo grado nei punti che in questa
sede ci occupano, non potendo, nel caso di c.d. “doppia conforme”, superarsi il
limite del “devolutum” con recuperi in sede di legittimità, salvo il caso in cui il
giudice d’appello, per rispondere alle critiche dei motivi di gravame, abbia
richiamato atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice (Cass.
Sez. 4, sent. n. 19710/2009, Rv. 243636; Sez. 1, sent. n. 24667/2007; Sez. 2,
sent. n. 5223/2007, Rv 236130).
Nel caso in esame, invece, il giudice di appello ha esaminato lo stesso materiale
probatorio già sottoposto al tribunale e, dopo aver preso atto delle censure
dell’appellante, è giunto, con riguardo alla posizione dell’imputato, alla medesima
conclusione della sentenza di primo grado, sottolineando come dalle prove
assunte è emerso un ruolo apicale del RACCUGLIA nell’ambito della consorteria
mafiosa di riferimento con tutte le caratteristiche evidenziate nel capo di
imputazione che lo riguarda.

21

inammissibile sotto molteplici profili.

La sentenza della Corte territoriale con riguardo alla posizione del ricorrente qui
in esame, oltre che fare legittimi richiami a quella (più ampia) del Giudice di
prime cure, è congruamente motivata, opera una ricostruzione logica e
coordinata delle emergenze processuali e non presenta elementi rilevanti di
travisamento delle prove.
D’altro canto il materiale probatorio raccolto nei confronti dell’imputato
RACCUGLIA, costituito dalle dichiarazioni di diversi collaboratori di giustizia

dichiarazioni degli stessi, dalle indagini di P.G. e dalle deposizioni dei relativi
operatori (FARRIS, SORRENTINO e PANZARELLA), dalle intercettazioni e dalla
sentenza del Tribunale di Palermo del 27/10/2007 (che rappresenta, peraltro,
solo uno dei plurimi elementi contro l’imputato) è a tal punto granitico da non
poter essere certo messo in dubbio dal contenuto di alcune frasi estrapolate dal
compendio processuale ad opera della difesa del ricorrente che non lasciano
neppure lontanamente ipotizzare un travisamento probatorio od un non corretto
sviluppo logico-motivazionale della decisione assunta dai giudici del merito.
Si è già detto della questione manifestamente infondata, ripresa anche nel
secondo motivo di ricorso qui in esame, circa il soprannome “veterinario”
attribuito al RACCUGLIA (emergente non solo dalla più volte citata sentenza del
Tribunale di Palermo ma anche dalle reiterate dichiarazioni della VITALE e dagli
accertamenti di P.G. riportati nel presente processo) ed a conclusione analoga
può giungersi con riguardo agli altri soprannomi (“Sheverio peri i cacata”,
“ragioniere” e “capofficina”) attribuiti all’imputato nel punto in cui la Corte
territoriale ha – con motivazione anche in questo caso congrua e logica evidenziato che gli stessi non emergono solo dalla sentenza del 27/10/2007
acquisita agli atti ma anche dagli accertamenti di P.G. seguiti a conversazioni
intercettate, descritti dai testi SORRENTINO e PANZARELLA e puntualmente
indicati nella sentenza impugnata.
Si tratta tutt’altro che di mere presunzioni e congetture, come vorrebbe la difesa
del ricorrente che in questo caso si è limitata, in modo del tutto generico (e
quindi inammissibile), ad asserire che la Corte territoriale avrebbe ripreso in
maniera semplicistica gli elementi emersi riportando quanto detto dal teste
SORRENTINO.
3. Con il primo motivo di ricorso proposto nell’interesse di CORRAO Salvatore,
come sopra riportato al punto 2A, si contesta il fatto che la Corte territoriale
avrebbe errato ritenendo corretta la data di decorrenza della contestazione
elevata nell’imputazione (“dal 5 novembre 2004”) – data che coincide con

22

(VITALE, SEIDITA, GIUFFRE’ e PULIZZI), dai plurimi positivi riscontri alle

l’arresto del ricorrente – in quanto essendo il CORRAO già stato condannato con
sentenza passata in giudicato per condotte delittuose (art. 416-bis) a lui
contestate “fino al novembre 2004” lo stesso avrebbe potuto essere sottoposto a
procedimento penale per condotte successive a tale data, vale a dire “dal
dicembre 2004” in poi.
Il motivo di ricorso sotto tale profilo è manifestamente infondato.
La questione del tempus commissi delicti già espressamente sottoposta alla

motivazione assolutamente congrua.
La Corte ha, infatti, evidenziato come la contestazione “fino al novembre 2004”
debba essere ancorata al 1/11/2004 in ossequio al principio del favor rei con la
conseguenza che ancorare l’inizio della nuova contestazione a far tempo dal
5/11/2004 appare corretto. D’altro canto la difesa dell’imputato non ha
evidenziato alcun elemento emergente dalla precedente sentenza di condanna in
base al quale nella generica dicitura “fino al novembre 2004”, riguardante un
reato per sua natura permanente, debbano ritenersi ricomprese condotte che
consentono di affermare che le stesse sono state poste in essere nel corso del
mese di novembre 2004 e, quindi, che detta permanenza si è protratta in data
successiva al 1/11/2004.
In ogni caso la questione della potenziale sovrapposizione temporale tra i periodi
presi in considerazione dalle due sentenze assume anche il carattere della totale
irrilevanza atteso che la Corte territoriale ha finito per ritenere la “continuazione”
tra le condotte (anteriori e successive al novembre 2004) contestate all’imputato
e qualificate come violazione dell’art. 416-bis cod. pen. così rideterminando la
pena attraverso un aumento valutato come congruo a causa dell’ulteriore
rilevante estensione temporale (fino al maggio 2008) sostanzialmente ritenendo
– come emerge incontestabilmente dalla motivazione della sentenza impugnata

che l’appartenenza del CORRAO al sodalizio criminale – prima e dopo il

novembre 2004 – si è protratta di fatto senza soluzione di continuità.
Anche l’ulteriore questione sollevata dal ricorrente nel medesimo motivo di
ricorso e riguardante il fatto che la Corte territoriale non avrebbe risolto con
motivazione logica la circostanza segnalata con la proposizione del gravame circa
il fatto che al CORRAO nel presente procedimento si contesta di far parte della
famiglia mafiosa di Borgetto mentre nella sentenza passata in giudicato gli era
stato contestato di aver fatto parte fino al novembre 2004 della famiglia mafiosa
di Partinico, così di fatto affermando che quantomeno nel novembre 2004

23

Corte territoriale è stata dalla stessa risolta in maniera del tutto logica e con

l’imputato avrebbe fatto parte allo stesso tempo di due differenti famiglie
mafiose, si presenta chiaramente infondata.
Si è pocanzi già evidenziato come la questione della sovrapposizione temporale
tra le contestazioni contenute nella menzionata sentenza irrevocabile e quella di
cui al presente procedimento è infondata. A ciò si deve solo aggiungere che la
Corte territoriale nella motivazione della sentenza impugnata ha congruamente
evidenziato che non sussiste contraddizione logica relativa al fatto che al

famiglie mafiose (di Partinico e di Borgetto) in quanto, come confermato dalle
dichiarazioni di collaboratori di giustizia raccolte in corso di processo, quella di
Partinico “aveva un’area di influenza particolarmente ampia, ricomprendente
anche i paesi di Borgetto, Altofonte e S.Giuseppe Iato”.
Ha operato, poi, la difesa dell’imputato CORRAO una serie di contestazioni sopra nel dettaglio riportate sempre al punto 2A – segnalando che la Corte
territoriale, sulla base della sentenza irrevocabile in atti e sulla base del
contenuto delle conversazioni intercettate avrebbe errato nel ritenere la
“permanenza” della partecipazione dell’imputato, nonostante il sopravvenuto
stato di detenzione dello stesso, all’associazione mafiosa di cui trattasi anche in
epoca successiva al novembre 2004 senza che egli abbia concretamente assunto
un ruolo nella struttura criminale o realizzato compiti specifici affinché
l’associazione raggiungesse i suoi scopi.
Fermo restando che quella posta dal ricorrente è una questione in fatto
concernente valutazioni di merito legate alla lettura del complessivo compendio
probatorio e, quindi, insindacabile in questa sede, deve essere peraltro
evidenziato come anche in questo caso la motivazione della Corte territoriale
oltre che particolarmente ampia è anche caratterizzata da assoluta logicità.
Nella stessa si è, infatti, evidenziato come dai colloqui intercettati tra il CORRAO
ed il nipote (e odierno coimputato MUSSO Santo) è emerso come il primo – già
condannato per associazione mafiosa per fatti risalenti ad epoca
immediatamente precedente – non risulta avere reciso i propri legami con la
struttura criminale, ma, al contrario, ha continuato ad interessarsi delle vicende
del sodalizio criminale, disquisendo delle condotte del vertice dello stesso (il
RACCUGLIA) al quale ha continuato a mostrare grande deferenza,
preoccupandosi delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e delle
investigazioni di polizia e raccomandando al nipote di stare attento; ancora,
discutendo – mediante l’uso di espressioni criptiche ma interpretate in maniera
logica dai giudici di merito – dei ruoli e degli eventuali mutamenti di

24

CORRAO si sarebbe contestata nelle due sentenze l’appartenenza a due diverse

composizione (“cambio d’olio”) del sodalizio criminale (“officina”), degli scambi di
informazioni con il RACCUGLIA (“Ti è arrivata qualche lettera?”), delle azioni
delittuose verificatesi (tra le quali l’incendio di un trattore) con il conseguente
invito a reagire che il CORRAO ha fatto al nipote (“prima spianate questo terreno
… si spiana tutto bello pulito, paro, paro, paro”), nonché di altre azioni – tra le
quali quella di “mandare in ferie” tale “valigia” (identificato in GIAMBRONE
Antonino successivamente ucciso) che chiaramente si inseriscono in progettualità

ben lungi dall’essere considerate – come vorrebbe la difesa – in mere millanterie
senza alcuna influenza esterna sulla vita dell’associazione.
Come detto l’interpretazione del contenuto delle conversazioni intercettate è
insindacabile in questa sede sempre che non ci si trovi di fronte – ma così non è
– ad un chiaro travisamento del contenuto della prova (cfr. ex ceteris Cass. Sez.
6, sent. n. 46301 del 30/10/2013, dep. 20/11/2013, Rv. 258164 – sopra già
citata).
In punto di diritto deve solo aggiungersi che correttamente ha operato la Corte
territoriale quando ha ritenuto sulla base degli elementi sopra indicati la
permanenza (anche dopo i fatti per i quali è già stato definitivamente
condannato) dell’appartenenza del CORRAO al sodalizio criminale di cui trattasi e
ciò anche in epoca successiva al suo arresto, infatti, così come notoriamente
avviene per la partecipazione all’associazione mafiosa denominata “cosa nostra”,
“ove una organizzazione criminale di tipo mafioso richieda ai partecipi la loro
definitiva adesione, fino a quando non abiurino o vengano a morte, la perdurante
appartenenza al gruppo di persona della quale sia provata l’affiliazione può
essere correttamente ritenuta in qualunque momento, se manchi la notizia di
una sua intervenuta dissociazione, anche in assenza della prova di condotte
attualmente riferibili al fenomeno associativo, ed anche nel caso di arresto e di
condanna” (Cass. Sez. 6, sent. n. 6262 del 17/01/2003, dep. 07/02/2003, Rv.
227710).
Tale orientamento di questa Corte Suprema, condiviso dall’odierno Collegio, ha
trovato conferma anche in pronunce più recenti nella quali si è evidenziato che
“in tema di associazione per delinquere, il sopravvenuto stato detentivo di un
soggetto non determina la necessaria ed automatica cessazione della
partecipazione al sodalizio, atteso che la perdurante appartenenza al gruppo di
persona della quale sia provata l’affiliazione può essere correttamente ritenuta in
qualunque momento ove manchi la notizia di una sua intervenuta dissociazione”
(Cass. Sez. 2, sent. n. 17100 del 22/03/2011, dep. 03/05/2011, Rv. 250021).

25

sempre legate alle vicende del sodalizio criminale di appartenenza e che sono

A ciò va aggiunto che il CORRAO, come rilevato, durante la detenzione non era
certo in stato di totale isolamento tale da impedirgli di comunicare
(prevalentemente per tramite del nipote MUSSO) con l’esterno, di partecipare
alle vicende del gruppo e alla programmazione delle sue attività (v. Cass. Sez. 4,
sent. n. 2893 del 07/12/2005, dep. 25/01/2006, Rv. 232883) e, in ogni caso,
appare essere stata dalla Corte territoriale correttamente raggiunta la prova (e
per quel che conta in questa sede compiutamente e logicamente motivata la

di carattere morale alle attività della consorteria mafiosa.
Sempre secondo il ricorrente, la Corte territoriale sarebbe poi incorsa in un
ulteriore vizio giuridico e motivazionale nel momento in cui ha utilizzato come
prova dei fatti contestati nell’imputazione il contenuto della conversazione del
2/10/2006 (ore 6.56.37) intercorsa tra BACARELLA Gaspare e LA PUMA
Salvatore nella quale gli stessi parlano di un soggetto “terzo” sostenendo che per
la suddetta intercettazione “non si applica la regola di valutazione di cui all’art.
192, comma 3, cod. proc. pen. ma quella generale del prudente apprezzamento
del giudice” e ciò in contrasto con i principi al riguardo enunciati da questa
Suprema Corte che richiedono la sussistenza di precisi “riscontri” sul punto
trattandosi di “prova indiretta”.
Anche in questo caso la doglianza difensiva è infondata.
Al riguardo questa Corte Suprema ha già avuto modo di precisare che “il
contenuto di un’intercettazione, anche quando si risolva in una precisa accusa in
danno di terza persona, indicata come concorrente in un reato alla cui
consumazione anche uno degli interlocutori dichiari di aver partecipato, non è
equiparabile alla chiamata in correità e pertanto, se anch’esso deve essere
attentamente interpretato sul piano logico e valutato su quello probatorio, non è
però soggetto, in tale valutazione, ai canoni di cui all’art. 192, comma terzo, cod.
proc. pen.” (Cass. Sez. 5, sent. n. 21878 del 26/03/2010, dep. 08/06/2010, Rv.
247447).
Orbene, fermo restando che l’intercettazione citata non costituisce certo l’unico
elemento di prova nei confronti del CORRAO, va detto che la stessa deve essere
contestualizzata, con la conseguenza che “riscontri” al contenuto della stessa
derivano proprio dal restante compendio probatorio raccolto nei confronti del
CORRAO. Bene ha, quindi, agito anche in questo caso la Corte territoriale
tenendo in debito conto anche detta conversazione e rigettando con motivazione
congrua e logica le contestazioni a suo tempo sollevate dalla difesa
dell’imputato.

26

valutazione della stessa) prova che l’imputato abbia fornito un contributo anche

Quanto, poi, alla contestazione relativa al fatto che la Corte territoriale non
avrebbe neppure risposto alla doglianza difensiva che, con riguardo ad un’altra
conversazione intercettata tra il BACARELLA ed il LA PUMA in data 11/11/2006,
ha evidenziato che i due parlavano di tale “manu lorde” (che si identificherebbe
nell’odierno ricorrente) e nella quale il BACARELLA ha esclamato “minchia! Lui mi
era sembrato”, cosa evidentemente impossibile in quanto il CORRAO era
detenuto dal 18/4/2005, la circostanza appare francamente irrilevante nell’intero

delle decisività.
Al riguardo deve essere solo ribadito che “in tema di ricorso in cassazione ai
sensi dell’art. 606, comma primo lett. e), la denunzia di minime incongruenze
argomentative o l’omessa esposizione di elementi di valutazione, che il ricorrente
ritenga tali da determinare una diversa decisione, ma che non siano
inequivocabilmente munite di un chiaro carattere di decisività, non possono dar
luogo all’annullamento della sentenza, posto che non costituisce vizio della
motivazione qualunque omissione valutativa che riguardi singoli dati estrapolati
dal contesto, ma è solo l’esame del complesso probatorio entro il quale ogni
elemento sia contestualizzato che consente di verificare la consistenza e la
decisività degli elementi medesimi oppure la loro ininfluenza ai fini della
compattezza logica dell’impianto argomentativo della motivazione” (Cass. Sez. 2,
sent. n. 9242 del 08/02/2013, dep. 27/02/2013, Rv. 254988).
Manifestamente infondate oltre che assolutamente generiche sono, poi, le
doglianze del ricorrente relativamente al fatto che la sentenza impugnata
sarebbe viziata nella parte in cui la Corte territoriale ha ritenuto che l’imputato
ha continuato a far parte della consorteria criminale, progettando e dirigendo
azioni delittuose, anche durante il regime detentivo mediante il nipote MUSSO
Santo, peraltro senza evidenziare che al CORRAO non è stato contestato alcun
delitto-fine e che lo stesso MUSSO, durante le investigazioni non è mai stato
visto dagli operatori di polizia giudiziaria incontrarsi, frequentare o conversare
con alcuno dei presunti associati mafiosi, né a partecipare a riunioni con latitanti
(ivi compreso Domenico RACCUGLIA).
Non è infatti dato comprendere perché – come sembrerebbe argomentare la
difesa del ricorrente – non possa ritenersi la sussistenza del reato associativo
anche in assenza di contestazione di reati-fine.
La Corte territoriale, richiamandosi a precedenti giurisprudenziali condivisi anche
dall’odierno Collegio, ha, sul punto, correttamente evidenziato che “il reato di
associazione di tipo mafioso è configurabile anche in difetto della commissione di

27

contesto probatorio sopra descritto in quanto pacificamente priva del requisito

reati-fine, purché l’organizzazione sul territorio, la distinzione di ruoli, i rituali di
affiliazione ed il livello organizzativo e programmatico raggiunto ne lascino
concretamente presagire la prossima realizzazione” (Cass. Sez. 2, sent. n. 4304
del 11/01/2012, dep. 01/02/2012, Rv. 252205).
Anche con riguardo alla questione relativa al fatto che il MUSSO non è mai stato
visto durante le investigazioni incontrarsi, frequentare o conversare con alcuno
dei presunti associati mafiosi la Corte territoriale ha fornito una spiegazione

particolare attenzione dallo stesso mostrata per mantenere i contatti con i
consociati” così come raccomandatogli proprio dallo zio CORRAO in una delle
conversazioni intercettate e sopra già richiamata.
4. Con un secondo motivo di ricorso – sopra indicato al punto 2B ma che, per
l’identità di materia merita una trattazione congiunta con i ricorsi presentati
nell’interesse di MUSSO Santo (punto 3B) e GIAMBRONE Giuseppe (punto 4C) la difesa dell’imputato CORRAO, così come quelle degli imputati MUSSO e
GIAMBRONE, lamenta la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e) cod.
proc. pen. in relazione all’art. 416-bis, comma 4, cod. pen. sostanzialmente
sostenendo che la Corte territoriale ha errato allorquando ha ritenuto la
sussistenza della circostanza aggravante della “associazione armata”.
La difesa del ricorrente GIAMBRONE ha richiesto, sussistendo contrasto
giurisprudenziale sul punto, l’assegnazione della presente decisione alle Sezioni
Unite di questa Corte Suprema.
Le menzionate doglianze sono infondate e la sentenza della Corte territoriale ha
fornito una risposta adeguata e corretta in punto di diritto alla questione de qua
evidenziando non solo come sia fatto notorio il possesso di armi da parte della
consorteria mafiosa ma anche come dalle conversazioni intercettate tra i
BACARELLA ed il LA PUMA è emerso che gli odierni imputati erano in possesso di
armi (anche legate all’attività preparatoria finalizzata all’omicidio di GIAMBRONE
Antonino) nonché il fatto del ritrovamento all’atto dell’arresto del RACCUGLIA di
numerose armi nella disponibilità del medesimo.
Sul punto deve essere ricordato che “in tema di associazione per delinquere di
stampo mafioso, non si espone a censura la sentenza del giudice di merito che
ritenga sussistente l’aggravante della disponibilità delle armi di cui all’art. 416bis, comma quarto, cod. pen., quando il delitto associativo sia contestato agli
appartenenti di una “famiglia” mafiosa aderente all’organizzazione denominata
“cosa nostra”, anche nel caso in cui la disponibilità delle armi sia provata a carico
di un solo appartenente (in motivazione si evidenzia infatti che, con riferimento

28

congrua e logica evidenziando come “detto elemento testimonia, piuttosto, la

alla stabile dotazione di armi della organizzazione mafiosa denominata “cosa
nostra”, bene e correttamente può ritenersi che la circostanza costituisca fatto
notorio, non ignorabile dai singoli partecipi (Cass. Sez. 6, sent. n. 11194 del
08/03/2012, dep. 22/03/2012, Rv. 252177).
Tale affermazione trova fondamento nell’esperienza storica e giudiziaria le quali
consentono di ritenere il carattere armato di detta organizzazione criminale.
D’altro canto, la norma richiede la semplice “disponibilità di armi” da parte

5400 del 14/12/1999, dep. 08/05/2000, Rv. 216149).
A ciò si aggiunga che in tema di associazione per delinquere di tipo mafioso,
l’aggravante della disponibilità di armi, prevista dai commi quarto e quinto
dell’art. 416-bis cod. pen., presenta natura oggettiva, ed è applicabile anche nei
confronti degli associati che non abbiano personalmente custodito od utilizzato le
armi stesse (Cass. Sez. 6, sent. n. 7707 del 04/12/2003, dep. 23/02/2004, Rv.
229769; in tal senso anche Sez. 6, sent. n. 42385 del 15/10/2009, dep.
04/11/2009, Rv. 244904; Sez. 5, sent. n. 1703 del 24/10/2013, dep.
16/01/2014, Rv. 258956).
Quello appena citato è l’orientamento prevalente oltre che più recente di questa
Corte Suprema alla quale l’odierno Collegio ritiene di aderire. Eventuali contrasti
con altre pronunce di questa Corte, peraltro risalenti nel tempo, non presentano
caratteristiche tali da determinare la rimessione della questione alle Sezioni
Unite ai sensi dell’art. 618 cod. proc. pen.
5. Con un ultimo motivo di ricorso – sopra indicato al punto 2C ma che, per
l’identità di materia merita una trattazione congiunta con il ricorso presentato
nell’interesse di MUSSO Santo (punto 3C) eccepisce la difesa del ricorrente
CORRAO la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b), c) ed e) cod. proc. pen. in
relazione agli artt. 62 bis, 132, 133, 230, e 417 cod. pen., 125 e 546 comma 1,
lett. e), cod. proc. pen.
Lamenta, come detto, la difesa del CORRAO che la sentenza impugnata è
censurabile a causa della mancata concessione all’imputato delle circostanze
attenuanti generiche in quanto sul punto è data riscontrarsi una carenza assoluta
di motivazione.
La doglianza è infondata.
Innanzitutto deve evidenziarsi che la Corte territoriale ha dato correttamente
atto anche della doglianza del CORRAO sul punto oltre a quelle del MUSSO e del
NANIA con la conseguenza che l’omissione nel contenuto della sentenza
impugnata del nominativo del CORRAO nel momento in cui sono state prese in

29

dell’associazione e non l’effettiva utilizzazione delle stesse (Cass. Sez. 6, sent. n.

considerazione contestualmente le tre posizioni appare esclusivamente frutto di
una mera omissione materiale, non va dimenticato che la Corte territoriale ha
fatto riferimento al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti
generiche per il fatto dell’appartenenza dei predetti soggetti “ad un’associazione
assai pericolosa come quella mafiosa in un periodo di tempo assai prolungato”,
circostanza, questa che accomuna certamente il CORRAO al MUSSO ed al NANIA.
A ciò si aggiunga che la sentenza di primo grado, alla quale in più occasioni ha

specificamente preso in considerazione la posizione del CORRAO (cfr. pag. 271)
evidenziando congruamente come allo stesso non potevano essere concesse le
circostanze attenuanti generiche e come la posizione dello stesso è strettamente
collegata a quella del coimputato MUSSO.
Si deve in proposito rammentare che, secondo l’orientamento di questa Corte,
condiviso dal Collegio, in tema di attenuanti generiche, posto che la ragion
d’essere della relativa previsione normativa è quella di consentire al giudice un
adeguamento, in senso più favorevole all’imputato, della sanzione prevista dalla
legge, in considerazione di peculiari e non codificabili connotazioni tanto del fatto
quanto del soggetto che di esso si è reso responsabile, ne deriva che la
meritevolezza di detto adeguamento non può mai essere data per scontata o per
presunta, sì da dar luogo all’obbligo, per il giudice, ove questi ritenga invece di
escluderla, di giustificarne sotto ogni possibile profilo, l’affermata insussistenza.
Ne consegue che, “ai fini dell’assolvimento dell’obbligo della motivazione in
ordine al diniego della concessione delle attenuanti generiche, il giudice non è
tenuto a prendere in considerazione tutti gli elementi prospettati dall’imputato,
essendo sufficiente che egli spieghi e giustifichi l’uso del potere discrezionale
conferitogli dalla legge con l’indicazione delle ragioni ostative alla concessione e
delle circostanze ritenute di preponderante rilievo” (Cass. Sez. 1^ sent. n. 3772
del 11.01.1994 dep. 31.3.1994 rv 196880).
Quanto poi al trattamento sanzionatorio le doglianze dei ricorrenti sono
manifestamente infondate. Non deve essere invero dimenticato che la Corte
d’Appello ha ridotto sensibilmente le pene inflitte agli imputati dal Giudice di
prime cure e, quindi, non si comprende di cosa abbiano a lamentarsi i ricorrenti i
cui gravami sul punto sono stati di fatto accolti ancorché con motivazione
sintetica.
A ciò si aggiunga che “la determinazione in concreto della pena costituisce il
risultato di una valutazione complessiva e non di un giudizio analitico sui vari
elementi offerti dalla legge, sicché l’obbligo della motivazione da parte del

30

fatto riferimento la Corte di Appello evidenziando di condividerne il contenuto ha

giudice dell’impugnazione deve ritenersi compiutamente osservato, anche in
relazione alle obiezioni mosse con i motivi d’appello, quando egli, accertata
l’irrogazione della pena tra il minimo e il massimo edittale, affermi di ritenerla
adeguata o non eccessiva. Ciò dimostra, infatti, che egli ha considerato sia pure
intuitivamente e globalmente, tutti gli aspetti indicati nell’art. 133 cod. pen. ed
anche quelli specificamente segnalati con i motivi d’appello (Cass. Sez. 6, sent.
n. 10273 del 20.5.1989 dep. 12.7.1989 rv 181825. Conf. mass. N. 155508; n.

6. Con il motivo di ricorso sopra nel dettaglio indicato al punto 3A, la difesa
dell’imputato MUSSO ha rilevato la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b), c)
ed e) cod. proc. pen. in relazione agli artt. 416-bis cod. pen., 125, 192 e 546,
comma 1, lett. e) cod. proc. pen. con riguardo al capo 1) della rubrica delle
imputazioni.
Lamenta, al riguardo, il ricorrente che mentre nel capo di imputazione è stata
indicata solo la data finale del tempus commissi delicti (maggio 2008) in sede di
appello aveva chiesto alla Corte territoriale di circoscrivere il periodo di
contestazione all’imputato MUSSO “dall’aprile 2005 al novembre 2007” e che la
Corte pur avendo dato atto in motivazione della specifica doglianza non ha, poi,
di fatto, risposto alla stessa.
La doglianza sul punto è infondata trattandosi di questione già presa in
considerazione nella sentenza di primo grado e correttamente analizzata e quindi
di fatto ripresa dalla sentenza di appello nel momento in cui ha confermato la
prima.
Quanto alle restanti doglianze contenute nel motivo di ricorso sopra riassunto al
punto 3A, va detto che si tratta delle medesime questioni (assenza di
motivazione circa il contributo effettivo prestato dall’imputato alla consorteria
criminale, assenza di contestazione di reati-fine, erronea utilizzazione probatoria
del contenuto della conversazione del 2/10/2006, ore 6.56.37 intercorsa tra
BACARELLA Gaspare e LA PUMA Salvatore, assenza di prova di incontri o di
frequentazioni del MUSSO con taluno dei presunti associati mafiosi o di
partecipazione dello stesso a riunioni con latitanti, assenza di riscontri al
contenuto delle conversazioni intercettate) già affrontate allorquando si è
trattato degli analoghi motivi di ricorso presentati nell’interesse dell’imputato
CORRAO.
Le doglianze sono infondate per le medesime ragioni già esposte al riguardo e
che qui non possono che ritenersi ribadite. La Corte territoriale, con motivazione
congrua, priva di contraddizioni o di vizi logici e rispettosa degli enunciati principi

31

148766; n. 117242).

di diritto ha, infatti, correttamente ricostruito sulla base di una solida struttura
probatoria il ruolo del MUSSO come soggetto trait d’union tra lo zio CORRAO
(detenuto) e la consorteria mafiosa di appartenenza, vettore di informazioni
bidirezionali circa le attività compiute o progettate del sodalizio criminale e
quindi consapevole del fatto di fornire un apporto che la stessa Corte territoriale
ha definito “indispensabile ed insostituibile” al controllo del CORRAO sulla
famiglia mafiosa. Ciò, in punto di diritto, integra certamente il reato in

7. Con un primo motivo di ricorso indicato al superiore punto 4A, la difesa
dell’imputato GIAMBRONE ha segnalato l’asserita violazione dell’art. 606, comma
1, lett. b), c) ed e) in relazione agli artt. 179 e 222 cod. proc. pen., lamentando
di avere eccepito in sede di appello una nullità derivante dal fatto che la
collaborante VITALE Giuseppa nel corso dell’udienza del 15-16/6/2010 era stata
chiamata a svolgere attività di interpretazione di appunti provenienti da soggetto
diverso dalla stessa ed alla medesima esibiti dal Pubblico Ministero. Al riguardo
la Corte territoriale, pur riconoscendo la sussistenza della predetta nullità, ha
ritenuto che la difesa vi avesse rinunciato acconsentendo alla acquisizione degli
atti del processo poi annullato dalla Corte di Cassazione.
La doglianza è infondata.
Deve, al riguardo, ed in via del tutto preliminare essere rilevato che il ricorrente
si limita nel motivo di ricorso a fare generico riferimento all’eccezione contenuta
in una propria memoria conclusiva (del 20/4/2010) relativa ad un processo poi
annullato da questa Corte, memoria che non allega, nonché, sempre in modo
assolutamente generico, al contenuto dei verbali di interrogatorio resi da VITALE
Giuseppa il 3 ed il 4/3/2005 nonché il 15 ed il 16/6/2010.
Sul punto è, innanzitutto, il caso di ricordare che “il ricorso per cassazione che
denuncia il vizio di motivazione deve contenere, a pena di inammissibilità e in
forza del principio di autosufficienza, le argomentazioni logiche e giuridiche
sottese alle censure rivolte alla valutazione degli elementi probatori, e non può
limitarsi a invitare la Corte alla lettura degli atti indicati, il cui esame diretto è
alla stessa precluso” (Cass. Sez. 6, sent. n. 29263 del 08/07/2010, dep.
26/07/2010, Rv. 248192) e, ancora, che “è inammissibile il ricorso per
cassazione che deduca il vizio di manifesta illogicità della motivazione e, pur
richiamando atti specificamente indicati, non contenga la loro integrale
trascrizione o allegazione, così da rendere lo stesso autosufficiente con
riferimento alle relative doglianze” (Cass. Sez. 2, sent. n. 26725 del 01/03/2013,
dep. 19/06/2013, Rv. 256723).

32

contestazione al MUSSO.

A ciò si aggiunga che la Corte territoriale nella motivazione della sentenza
impugnata ha espressamente affrontato l’analoga questione proposta dal
difensore dell’imputato in sede di gravame correttamente evidenziando
l’insussistenza dei profili lamentati in quanto da un lato la difesa ha acconsentito
all’acquisizione di tutti gli atti del (precedente – ndr.) processo e quindi anche di
appunti provenienti da soggetto diverso dalla collaborante di giustizia VITALE e,
sebbene dal giudice di prime cure è stato consentito che la VITALE consultasse

“ma solo le risposte fornite dalla VITALE sul punto”.
D’altro canto, dal non cristallino motivo di ricorso che in questa sede ci occupa
sembrerebbe che il difensore non si dolga dell’utilizzazione di detti appunti (che
peraltro la Corte ha evidenziato non essere stati neppure presi in considerazione)
quanto piuttosto del fatto che essendo tali appunti stati sottoposti in sede di
interrogatorio all’esame della VITALE, la stessa si sarebbe illegittimamente
trasformata in una sorta di consulente tecnico del Pubblico Ministero o di perito
del Giudice.
A parte il fatto che chiedere ad un imputato di fornire un’interpretazione di
appunti provenienti da terzi che gli vengono esibiti non può certo mutare il ruolo
processuale del soggetto, ciò in ogni caso non rende nulli

tout court gli

interrogatori della VITALE ma al più può incidere sull’utilizzabilità processuale di
quella esclusiva parte di azione che il difensore vorrebbe qualificare come
“consulenza” se non addirittura come “perizia”.
E’ però appena il caso di ricordare le norme relative alla nomina di consulenti e
periti hanno carattere ordinatorio e che eventuali irregolarità o anomalie sul
punto non sono valorizzabili di per sé stesse come vizio della motivazione della
sentenza vertendosi, piuttosto, in presenza di un atto procedimentale formato in
eventuale violazione dei diritti difensivi, tale quindi da formare oggetto di
un’eccezione di nullità, che deve essere sollevata entro i termini fissati dall’art.
182, comma secondo, cod. proc. pen. (arg. ex Sez. 5, n. 782 del 11/10/2012,
dep. 08/01/2013, Rv. 254322; Sez. 1, n. 1101 del 27/10/2009, dep.
13/01/2010, Rv. 245938). Trattandosi peraltro di nullità relativa la stessa, nel
caso in esame, è comunque stata sanata ex art. 183, lett. a), cod. proc. pen.
avendo la parte accettato gli effetti dell’atto acconsentendone l’acquisizione tout
court agli atti del nuovo processo.
8. Con un secondo motivo di ricorso (sopra nel dettaglio riassunto al punto 4B)
lamenta la difesa dell’imputato GIAMBRONE la violazione dell’art. 606, comma 1,
lett. e) cod. proc. pen. in relazione all’art. 192, comma 3, ritenendo che la Corte

33

gli atti suddetti, non sono poi stati utilizzati gli atti stessi ai fini della decisione

territoriale sia incorsa in un travisamento dei fatti ed abbia omesso di valutare
alcuni rilevanti elementi di prova.
Detto motivo di ricorso è manifestamente infondato in quanto con lo stesso il
ricorrente tenta di proporre una lettura alternativa delle emergenze processuali
ed in particolare del contenuto delle dichiarazioni rese dalla VITALE, peraltro
limitandosi a commentare alcune dichiarazioni rese dalla stessa ed in asserito
contrasto con quelle effettuate dall’altro collaboratore Michele SEIDITA (che non

ambientali.
La motivazione della Corte di Appello con riguardo alla posizione del GIAMBRONE
si presenta, invero, congrua ed esente da vizi di manifesta illogicità o di
travisamento della prova.
Si è già avuto modo di evidenziare al riguardo che secondo l’orientamento di
questa Corte, che il Collegio condivide, “anche nella vigenza del nuovo codice di
procedura penale vale il principio secondo cui il vizio di motivazione non può
essere utilmente dedotto in Cassazione sol perché il giudice abbia trascurato o
disatteso elementi di valutazione che, ad avviso della parte, avrebbero dovuto o
potuto dar luogo ad una diversa decisione, poiché ciò si tradurrebbe in una
rivalutazione del fatto preclusa in sede di legittimità. Esso è configurabile,
invece, unicamente quando gli elementi trascurati o disattesi abbiano un chiaro
ed inequivocabile carattere di decisività, nel senso che una loro adeguata
valutazione avrebbe dovuto necessariamente portare, salvo intervento di
ulteriori e diversi elementi di giudizio, ad una decisione più favorevole di quella
adottata” (Cass. Sez. 1, sent. n. 6922 del 11.5.1992 dep. 11.6.1992 rv 190572)
situazione che peraltro non si è verificata nel caso in esame.
Né si può configurare nel caso di specie un vizio di “travisamento del fatto” ciò
perché, secondo l’orientamento di questa Corte, condiviso dal Collegio, “in tema
di vizi di motivazione, il vizio noto come “travisamento del fatto” può
sopravvivere, nella vigente disciplina, soltanto nell’ipotesi, prevalentemente
teorica, in cui il giudice, dopo aver fatto propria una certa ricostruzione degli
eventi, ne tragga, sul piano giuridico, conclusioni confliggenti con la medesima e
supponenti, sotto il profilo logico, una ricostruzione diversa” (Cass. Sez. 1, sent.
n. 1712 del 15.12.1999, dep. 14.02.2000, rv 215291).
9. Quanto ai motivi di ricorso formulati dal Pubblico Ministero deve osservarsi
quanto segue:
9.1 Deve innanzitutto premettersi che è priva di fondamento la doglianza
contenuta nella memoria presentata nell’interesse dell’imputato NANIA riguardo

34

sono state testualmente riportate) nonché il contenuto delle intercettazioni

al fatto che l’atto di gravame formulato dal Pubblico Ministero sarebbe stato solo
presentato nella Segreteria del proprio Ufficio e non nella Cancelleria del giudice
come previsto a pena di inammissibilità dall’art. 582 cod. proc. pen.
E’ sufficiente, infatti, osservare come proprio in calce alla sentenza impugnata
risulta apposta un’annotazione di Cancelleria dalla quale si evince che il Pubblico
Ministero ha presentato ricorso per Cassazione in data 29/10/2013 nei confronti
degli imputati BRUGNANO, CORRAO, NANIA, RACCUGLIA, MUSSO e

della Corte d’Appello. A nulla rileva quindi l’assenza di un’analoga annotazione in
calce al ricorso stesso.
E’ quindi pacificamente frutto di errore l’annotazione in calce alla medesima
sentenza del passaggio in giudicato della sentenza (in data 31/10/2013 quindi
due giorni dopo la proposizione del gravame da parte del Pubblico Ministero) nei
confronti degli imputati BRUGNANO e NANIA.
9.2 Passando, quindi, all’esame del motivi di ricorso, lamenta innanzitutto il
Pubblico Ministero ricorrente che erroneamente la Corte territoriale ha escluso il
ruolo apicale dell’imputato CORRAO in seno all’articolazione locale
dell’organizzazione mafiosa di appartenenza, ciò in quanto lo stesso non si
limitava solo a commentare le notizie fornitegli dal nipote MUSSO ma che
dettava direttive su specifici episodi concernenti danneggiamenti od appalti da
aggiudicare a soggetti determinati e sulle strategie da adottare in ordine agli
equilibri all’interno della cosca nonché avrebbe deliberato l’eliminazione (“mandi
in ferie”) dell’odierno coimputato GIAMBRONE Giuseppe detto “Valigia”, del di lui
nipote GIAMBRONE Antonino detto “Pomata” e di LO BAUDO Giuseppe detto “a
Zotta” (tutti esponenti del gruppo contrapposto e questi ultimi due
effettivamente uccisi nell’anno 2007).
La motivazione della Corte territoriale (peraltro conforme a quella assunta al
riguardo dal giudice di prime cure) si presenta sul punto ancora una volta
congrua, logica e priva di contraddizioni laddove si è evidenziato sulla base
prevalentemente del contenuto delle conversazioni intercettate di come sebbene
il CORRAO rivestisse un ruolo di rilievo in seno all’organizzazione criminale lo
stesso si collocava pur sempre in posizione subordinata al RACCUGLIA tale da
consentire di escludere in capo al primo di avere rivestito – quantomeno nel
periodo preso in considerazione dalla sentenza che in questa sede ci occupa – un
ruolo apicale nell’organizzazione stessa.
Anche con riguardo alla vicenda dell’omicidio del GIAMBRONE (“valigia”), sulla
quale molto insiste il ricorrente, la motivazione adottata dalla Corte territoriale è

35

GIAMBRONE, ricorso che è stato registrato al nr. 1760/2013 R.G. Impugnazioni

tutt’altro che illogica o contraddittoria: se da un lato, infatti, i giudici di merito
hanno evidenziato che il deliberare un omicidio è certo manifestazione di un
“ruolo direttivo” in seno all’organizzazione criminale, dall’altro hanno però
precisato che il contenuto dell’intercettazione relativo alla deliberazione di
“mandare in ferie” il GIAMBRONE si espone a letture alternative “per l’oggettiva
vaghezza dei riferimenti” così da non dare per provato che l’omicidio fosse stato
effettivamente deliberato dal CORRAO.

medesime critiche di infondatezza di cui si è detto con riguardo ai ricorsi sopra
esaminati presentati dai difensori di alcuni degli imputati, proponendo una
lettura alternativa delle emergenze processuali e delle conversazioni intercettate
senza tenere conto del fatto che il vizio di motivazione non può essere utilmente
dedotto in Cassazione sol perché il giudice abbia trascurato o disatteso degli
elementi di valutazione che, ad avviso della parte, avrebbero dovuto o potuto
dar luogo ad una diversa decisione, poiché ciò si tradurrebbe in una rivalutazione
del fatto preclusa in sede di legittimità.
9.3 Con riguardo, poi, alla posizione dell’imputato BRUGNANO che la Corte
territoriale ha assolto per non avere commesso il fatto così ribaltando la
condanna per concorso esterno in associazione mafiosa emessa dal Giudice di
prime cure, lamenta il Pubblico Ministero ricorrente che anche in questo caso la
Corte territoriale avrebbe effettuato un approccio errato al materiale probatorio
avendo decontestualizzato le emergenze processuali nei confronti dell’imputato.
In particolare, il Pubblico Ministero ha evidenziato che la Corte territoriale dopo
aver dato per certa l’identificazione del BRUGNANO in tale “Piero” emerso nel
corso dei colloqui tra Salvatore CORRAO, il di lui figlio Leonardo e Santo MUSSO
ha ritenuto non certo il fatto che lo stesso possa identificarsi nel “Pieruzzo” aduso
a commettere furti d’auto e del quale BACARELLA e LA PUMA avrebbero descritto
l’azione nella fase preparatoria dell’omicidio di Antonino GIAMBRONE ciò anche in
relazione al dato ritenuto altamente significativo che il BRUGNANO non ha
precedenti penali specifici per furto o ricettazione di autovetture.
L’assenza di precedenti specifici dell’imputato sarebbe quindi frutto di una
valutazioni illogica da parte della Corte territoriale non avendo mai LA PUMA,
BACARELLA od altri fatto riferimento a “precedenti specifici” del “Pieruzzo” ma
solo al fatto che questi fosse un soggetto non nuovo alla consumazione di furti
d’auto.
I Giudici d’appello avrebbero, inoltre e come detto, tralasciato di considerare il
significativo elemento logico valorizzato dal Tribunale al fine di ricondurre alla

36

In sostanza, il motivo di ricorso formulato dal Pubblico Ministero si espone alle

r

persona del BRUGNANO tanto il “Piero” che il “Pieruzzo”, ovvero l’interesse degli
appartenenti alla famiglia mafiosa di Borgetto nei confronti dell’imputato così
come emerge nel corso di un colloquio intercettato in carcere il 29/7/2006 tra
CORRAO e MUSSO i quali discutendo inequivocabilmente del BRUGNANO hanno
commentato che il “picciutteddu” si comporta bene (ovviamente secondo l’ottica
mafiosa) nonché di prendere in considerazione una prospettiva unitaria delle
risultanze processuali valorizzando – come invece avevano fatto i Giudici di

pieno dell’attività prodromica all’omicidio del GIAMBRONE.
In realtà le doglianze del Pubblico Ministero ricorrente sopra riportate
propongono anche in questo caso una diversa lettura degli elementi probatori
che si risolve chiaramente in una valutazione di merito pacificamente
insindacabile in questa sede.
La motivazione della Corte territoriale sul punto è logica e non contraddittoria.
Né, sulla base dei principi giurisprudenziali sopra evidenziati si può parlare nel
caso di specie di un travisamento dei fatti.
La Corte territoriale ha infatti distinto tra le conversazioni intercettate tra il
MUSSO ed il CORRAO nelle quali si parla di un “Piero” che, sulla base dei
riscontri effettuati, si può pacificamente identificare nel BRUGNANO e le
conversazioni intercettate tra il BACARELLA ed il LA PUMA nelle quali si fa
riferimento a tale “Pieruzzu” indicato come ladro di autovetture, pacificamente
coinvolto nella fase preparatoria dell’omicidio di GIAMBRONE Antonino.
Sulla base di tali incontestate premesse ha però ritenuto la Corte territoriale di
non ritenere raggiunta la prova che il “Piero” ed il “Pieruzzu” si identificano nella
medesima persona ciò in quanto mentre, come detto, in base a riscontri
oggettivi il “Piero” è stato identificato nel BRUGNANO, tali riscontri non
sussistono con riguardo al “Pieruzzu” ed anche l’unico elemento che
caratterizzerebbe quest’ultimo – quello di essere un esperto in furti di
autovetture – non ha trovato riscontro per effetto della mancata sussistenza in
capo al BRUGNANO di precedenti penali per furto o ricettazione di autoveicoli.
E’ ben vero che, come ha evidenziato il Pubblico Ministero ricorrente, tale
circostanza non è significativa perché è ben possibile essere “esperti” di furti
d’auto senza essere mai stati condannati per tale reato, ma si deve anche tener
conto del fatto, come all’evidenza ha implicitamente fatto la Corte territoriale che
tale mancato riscontro finisce per alimentare quel ragionevole dubbio (non
ritenuto superabile in base agli ulteriori elementi indicati dal Pubblico Ministero)

37

prime cure – il contesto temporale dei colloqui di cui si è detto, avvenuti nel

í
che ha portato la Corte medesima a pronunciare una sentenza assolutoria frutto
di una discrezionalità di valutazione non sindacabile in questa sede.
9.4 Con riguardo, poi, alla posizione dell’imputato NANIA Francesco, ha
lamentato il Pubblico Ministero ricorrente che la Corte territoriale ha errato nel
confermare la sentenza del Giudice di prime cure (impugnata tanto dall’imputato
che dal Pubblico Ministero) condannando il NANIA per la condotta di
partecipazione all’associazione criminosa a far tempo dal 18/3/2000 (il
precedente periodo è coperto da precedente giudicato) e fino al novembre 2004
ma assolvendolo per la condotta successiva contestatagli fino al maggio 2008.
Lamenta, al riguardo, il Pubblico Ministero ricorrente la presenza nella sentenza
impugnata di un vizio motivazionale sul punto in quanto la Corte territoriale,
dopo avere evidenziato in una prima parte il profondo e risalente radicamento
familiare del NANIA nella consorteria mafiosa di Partinico, ha successivamente
trattato dell’impugnazione proposta dal Pubblico Ministero rigettandola con una
motivazione solo apparente non esaminando criticamente le risultanze segnalate
dalla Pubblica Accusa come dimostrative del perdurante inserimento
dell’imputato in “cosa nostra” e limitandosi ad una mera e parziale elencazione
delle intercettazioni dei colloqui in carcere tra CORRAO e MUSSO nelle parti in cui
hanno parlato dell’imputato indicandolo come “Bocciolo” o come il “Nano”.
Secondo il ricorrente, la Corte territoriale non ha dato il giusto rilievo critico al
contenuto delle conversazioni intercettate, non ha fatto alcun riferimento ai
rilievi che il Pubblico Ministero appellante sulle rilevate criticità della sentenza, né
ha affrontato adeguatamente i motivi del viaggio di MUSSO, BACARELLA e
PELLERITO nell’ottobre 2006 negli Stati Uniti (ove all’epoca si trovava il NANIA).
Anche in questo caso ci troviamo di fronte ad un motivo di ricorso che tende a
proporre una lettura degli elementi probatori differente da quella operata dai
Giudici di merito (sia di primo grado che di appello).
In realtà la Corte territoriale ha dato correttamente atto delle emergenze delle
conversazioni intercettate nelle quali si parla dell’odierno imputato nonché del
viaggio effettuato negli Stati Uniti dei soggetti di cui si è detto, ma ha poi
rilevato che gli elementi probatori di cui trattasi non presentano alcuna
connotazione con riguardo alla posizione del NANIA e che dalle intercettazioni
“non si colgono elementi precisi che possano consentire di affermare che lo
stesso mantenesse, pur trovandosi negli Stati Uniti, un collegamento con la
famiglia mafiosa di appartenenza”.
Quella fatta dalla Corte territoriale (e, prima ancora, dal Giudice di prime cure) è
una valutazione di puro merito e, per l’effetto, insindacabile in questa sede,

38

,

legata ad una particolare lettura del contenuto delle intercettazioni e del
significato del viaggio negli Stati Uniti che ha portato l’organo giudicante a
ritenere non raggiunta la prova che il NANIA dopo il suo trasferimento negli Stati
Uniti abbia tenuto condotte tali da portarlo a ritenere ancora concorrente nella
associazione di stampo mafioso. Detti documenti e vicende indubbiamente si
possono prestare a letture ed interpretazioni alternative, ma sulla base dei
principi di diritto sopra enunciati, la motivazione adottata dalla Corte territoriale

travisamento dei fatti tali da portare all’annullamento dell’impugnata sentenza.
Ne consegue che anche tale motivo di ricorso è da ritenersi infondato.
A ciò si aggiunga che ci si trova in questo caso di fronte ad una decisione
assolutoria c.d. “doppia conforme” nella quale non è ravvisabile alcun
travisamento della prova.
9.5 Con un quarto ed ultimo motivo di ricorso lamenta il Pubblico Ministero che
la Corte territoriale da un lato nel ridurre sensibilmente le pene comminate a
tutti gli imputati omesso da dare debito conto a norma dell’art. 132 cod. pen.
dell’uso del proprio potere discrezionale e della valutazione dei criteri che a
norma dell’art. 133 cod. pen. hanno orientato l’esercizio di tale potere e,
dall’altro, ha errato quando ha ritenuto di individuare la pena base a carico di
CORRAO Salvatore in quella inflittagli con la sentenza irrevocabile per il
medesimo delitto di cui all’art. 416-bis in quanto aggravato ai sensi del comma 6
della medesima disposizione di legge.
Sotto il primo profilo il ricorso è da ritenersi infondato.
Valgono, questo riguardo i principi di diritto già enunciati al superiore punto 5
allorquando si è trattato del contenuto dei ricorsi degli imputati CORRAO e
MUSSO che in senso diametralmente opposto hanno lamentato l’eccessività della
pena inflitta e la carenza motivazionale sul punto.
Quanto al secondo profilo di ricorso del Pubblico Ministero va detto che
effettivamente il CORRAO aveva riportato condanna per il delitto di cui all’art.
416-bis cod. pen., aggravato anche ai sensi del comma 6 della medesima
disposizione di legge commesso prima dell’entrata in vigore della I. 5/12/2005 n.
251 e punito con la pena edittale da 6 a 15 anni di reclusione, mentre nel caso
della sentenza che in questa sede ci occupa lo stesso CORRAO è stato ritenuto
colpevole del medesimo reato commesso fino al maggio 2008, reato che è da
considerarsi in astratto più grave in quanto, anche tenendo conto dell’esclusione
dell’indicata circostanza aggravante, lo stesso è punito con pena edittale da 7 a
15 anni di reclusione.

39

appare sufficiente e non presenta né vizi di manifesta illogicità né vizi di

E’ pacifico il principio di diritto in forza del quale “in tema di reato continuato, la
violazione più grave va individuata in astratto in base alla pena edittale prevista
per il reato ritenuto dal giudice in rapporto alle singole circostanze in cui la
fattispecie si è manifestata e all’eventuale giudizio di comparazione fra di esse”
(Cass. Sez. U, sent. n. 25939 del 28/02/2013, dep. 13/06/2013, Rv. 255347).
Pur tuttavia non può non essere evidenziato il fatto che ancorché la Corte
territoriale non si è attenuta al criterio sopra indicato, nel procedere ad

pena per l’effetto della continuazione con altri fatti-reato, non è comunque
addivenuta alle determinazione di una pena illegale con la conseguenza che non
si è determinato nella sentenza impugnata un vizio tale da comportarne
l’annullamento.
Da quanto sopra consegue il rigetto di tutti i ricorsi in esame, con condanna degli
imputati ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Ne discendono, altresì, le correlative statuizioni di seguito espresse in ordine alla
rifusione delle spese del grado in favore delle costituite parti civili la cui
liquidazione viene operata secondo gli importi in dispositivo meglio enunciati.
Al riguardo deve essere evidenziato che, stante la sostanziale identità delle
posizioni delle parti civili costituite, la Corte ritiene di liquidare per ogni difensore
la somma-base di C 2.500,00 (oltre agli accessori di legge), somma aumentata
del 20% per ogni ulteriore assistito degli stessi diverso dal primo e, in presenza
di espressa richiesta ex art. 93 c.p.c., di procedere alla distrazione dei relativi
importi a favore dei difensori antistatari.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi del Procuratore Generale e quelli degli imputati RACCUGLIA
Domenico, CORRAO Salvatore, MUSSO Santo e GIAMBRONE Giuseppe e
condanna gli imputati ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Condanna inoltre gli imputati RACCUGLIA Domenico, CORRAO Salvatore, MUSSO
Santo e GIAMBRONE Giuseppe alla rifusione delle spese in favore delle parti civili
costituite:
– Comitato Addiopizzo, F.A.I. Federazione Associazioni Antiracket ed Antiusura
Italiane, Centro Studi ed Iniziative Culturali Pio La Torre Onlus, Confindustria
Palermo, che liquida nella misura complessiva di Euro 4.000,00 oltre ad
accessori di legge, con distrazione ai sensi dell’art. 93 cod. proc. civ. a favore del
difensore antistatario Avv. Ettore BARCELLONA;

40

un’operazione pur sempre discrezionale come quella della determinazione della

- S.O.S. Impresa Palermo e Solidaria SCS Onlus che liquida nella misura
complessiva di Euro 3.000,00 oltre ad accessori di legge, con distrazione ai sensi
dell’art. 93 cod. proc. civ. a favore del difensore antistatario Avv. Fausto Maria
AMATO;
– Comune di Partinico e Confcommercio Palermo che liquida nella misura di Euro
2.500,00 ciascuna oltre ad accessori di legge, con distrazione ai sensi dell’art. 93
cod. proc. civ. a favore dei rispettivi difensori antistatari Avv. Anna MANNONE ed

Così deciso in Roma il giorno 18 dicembre 2014.

Avv. Gaetano Fabio LANFRANCA.

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