Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 41730 del 02/07/2015


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 41730 Anno 2015
Presidente: FIANDANESE FRANCO
Relatore: VERGA GIOVANNA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
ZACOMETTI GIUSEPPE N. IL 09/02/1970
BONILLO MAURIZIO N. IL 01/01/1974
avverso la sentenza n. 14/2014 CORTE APPELLO SEZ.DIST. di
TARANTO, del 07/07/2014
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 02/07/2015 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. GIOVANNA VERGA
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Set. tuaA dt.0 ‘ccvlairl-c’cyy, e
che ha concluso per i’ e

_

Udito, per la parte civile, l’Avv

Ad- -A-e-eAar2.2b–2

Data Udienza: 02/07/2015

RITENUTO IN FATTO
Con sentenza in data 6 luglio 2014 la Corte d’Appello di Lecce sezione distaccata di
Taranto, in parziale riforma della sentenza emessa in data 10 luglio 2013 dal giudice per
le indagini preliminari del tribunale di Taranto, che aveva condannato ZACOMETTI
Giuseppe e BONILLO Maurizio per concorso in tentata estorsione aggravata, riduceva la
pena inflitta sostituendo le pene accessorie della interdizione perpetua con quella delle
interdizione temporanea dai pubblici uffici, confermando nel resto l’impugnata. In

e respinto le istanze difensive tese ad ottenere la derubricazione del reato contestato in
quello meno grave dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone
sul presupposto che le condotte intimidatrici e violente non sono state poste in essere dal
soggetto titolare della pretesa in questione, ossia Torelli Tiziana alla quale non risulta
contestato alcun reato, bensì da soggetti terzi, quali il compagno della donna e il di lui
amico, certamente non legittimati ad agire in giudizio per la reintegrazione della Torelli
nel posto di lavoro rispetto ai quali pertanto non poteva ritenersi configurabile la
fattispecie delineata dall’articolo 393 codice penale. Veniva altresì rilevato dai giudici
d’appello che gli imputati avevano agito per una duplice finalità: imporre la
reintegrazione della donna nel posto di lavoro e impedire al datore di lavoro di
denunciare la vicenda delittuosa sottesa a quel licenziamento, circostanza quest’ultima
non azionabile davanti all’autorità giudiziaria
Ricorrono per Cassazione, a mezzo del difensore, con distinti ricorsi gli imputati
avanzando un motivo sostanzialmente identico. Entrambi lamentano vizio di motivazione
e violazione di legge con riguardo alla mancata derubricazione del reato nella violazione
dell’articolo 393 codice penale sostenendo l’azionabilità in giudizio della pretesa di
reintegro da parte della compagna del Bonillo attraverso anche un excursus delle norme
che disciplinano la materia giuslavorista.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso è infondato.
La questione sottoposta al giudizio di questa Corte è quella “se il comportamento violento
e minaccioso tenuto da ZACOMETTI Giuseppe e BONILLO Maurizio per costringere
Costantino Francesco a riassumere quale propria dipendente , Torelli Tiziana, moglie del
Bonillo, licenziata perché ritenuta responsabile di una serie di ammanchi, uno dei quali
ripreso dall’impianto di videoregistrazione installato nel locale, realizzi un tentativo di
estorsione, come ritenuto dai giudici di merito, o un tentativo di esercizio arbitrario delle
proprie ragioni come sostenuto dai ricorrenti”.

1

particolare i giudici di merito avevano ritenuto corretta la qualificazione giuridica dei fatti

Il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (art. 393 c.p.) e quello di estorsione (
art. 629 c.p.) si differenziano sotto il profilo dell’elemento soggettivo, mentre la condotta
nella sua oggettività è normalmente identica.
In ordine alla differenza dei due reati a fronte di un’interpretazione giurisprudenziale che
ha affermato che quale che sia stata l’intensità e la gravità della violenza o della
minaccia, solo l’azione che miri all’attuazione di una pretesa non suscettibile di tutela
davanti all’autorità giudiziaria meriti una tipizzazione in termini di estorsione ( Cass N.
7940 del 1986 Rv. 173481, N. 12329 del 2010 Rv. 247228, N. 12329 del 2010 Rv.

2013 Rv. 257375), vi è altro orientamento che afferma che se è vero che l’elemento
intenzionale costituisce in linea di principio la linea di demarcazione delle due ipotesi
delittuose, ciò malgrado la gravità della violenza e la intensità dell’intimidazione veicolata
con la minaccia non costituiscono momenti del tutto indifferenti nel qualificare il fatto in
termini di estorsione piuttosto che di esercizio arbitrario ex art. 393 c.p. ( Cass. Sez. 6°
n. 17785 del 2015 Rv. 263255; Sez. 1, n. 32795 del 02/07/2014 Rv. 261291;Sez. 5, 3
maggio 2013, n. 19230, Palazzotto, Rv. 256249; Sez. 5, 20 luglio 2010, n. 28539,
Coppola, Rv. 247882; Sez. 6, 23 novembre 2010, n. 41365, Straface Rv. 248736; Sez.
2, 26 settembre 2007, n. 35610, Della Rocca, Rv. 237992; Sez. 2, 5 aprile 2007, n.
14440, Mezzanzanica, Rv. 236457; Sez. 2, 10 dicembre 2004, n. 47972, Caldara, Rv.
230709; Sez. 1, 4 marzo 2003, n. 10336, Preziosi, Rv. 228156).
Entrambi gli orientamenti riconoscono però che la differenza tra l’esercizio arbitrario delle
proprie ragioni e il delitto di estorsione risiede nell’elemento soggettivo che per il primo
reato consiste nella ragionevole opinione dell’agente di esercitare un diritto con la
coscienza che l’oggetto della pretesa gli competa giuridicamente, mentre per l’estorsione
si concretizza nel fine di procurare a sé e ad altri un profitto ingiusto con la
consapevolezza che quanto si pretende non compete e non è giuridicamente azionabile.
Il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni ha infatti un presupposto che può
essere scisso in tre momenti: esistenza di una pretesa giuridica munita d’azione; obbligo
di ricorrere al giudice; possibilità concreta del ricorso all’Autorità Giudiziaria.
Nella stessa struttura del reato è infatti insita la “pretesa di esercitare un diritto”, con
l’effetto che la sussistenza di una tale finalità, accompagnata dalla convinzione
dell’agente, fondata o putativa, di vantare un diritto, costituisce elemento essenziale del
reato e non causa di esclusione del dolo: è evidente, invero, che, ove l’agente avesse la
coscienza dell’ingiustizia della sua pretesa (cioè fosse in mala fede quanto a
quest’ultima), non agirebbe per fare ragione a sè medesimo, bensì per rendere torto ad
altri, il che integrerebbe un diverso e più grave titolo criminoso (Cass. N. 833 del
1969 Rv. 111980, N. 9450 del 1988 Rv. 179238, N. 13115 del 2001 Rv. 218202, N.
41368 del 2010 Rv. 248715). L’incriminazione ha infatti lo scopo di impedire la violenta
sostituzione dell’attività individuale all’attività degli organi giudiziari. Da qui il
2

247228, N. 22935 del 2012 Rv. 253192, N. 705 del 2013 Rv. 258071, N. 51433 del

collegamento dell’incriminazione nel titolo relativo ai delitti contro l’amministrazione della
Giustizia. In sintesi il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni mira ad evitare
che il privato si faccia ragioni con le proprie mani.
Si è posto così il problema, considerato che si tratta di reato comune e quindi può essere
commesso da chiunque, se possa essere soggetto attivo colui che esercita il preteso
diritto pur non avendone la titolarità e si è affermato (le fattispecie esaminate riguardano
tutte la violazione di cui all’art. 392 c.p.) che può anche essere colui che non abbia la
titolarità del diritto arbitrariamente esercitato, purchè si comporti come se fosse il titolare

negotiorum gestor, espressione tecnicamente adoperata dalla scienza giuridica e dalla
legge per designare soltanto l’istituto regolato dal codice civile agli art. 2028 ss.,
nell’ambito del quale vanno sussunte le ipotesi specifiche caratterizzate dall’essere
la gestione il risultato della spontanea iniziativa del gestore (in questo senso, Sez. VI,
8.3.2013 n. 23322 , Anzalone, Sez. VI, 5 aprile 2001, n. 15972, Corieri; nonché, Sez. VI,
10 marzo 1983, n. 4098, Ligori; Sez. VI, 30 aprile 1985, n. 8434, Chiacchiera; Sez. VI,
21 dicembre 1979, n. 9471, Spinelli) . Nelle sentenze richiamate è stata ritenuta la
responsabilità ex art. 392 c.p. da parte di chi abbia di fatto esercitato arbitrariamente un
diritto di cui pretendeva essere titolare, comportandosi come se fosse proprietario o
legittimo possessore, esercitando tipiche facoltà dominicali.
E’ stato però ritenuto dalla giurisprudenza civile di questa Corte (Cass.
n. 2229 del 30/07/1973 (Rv. 365480)) che chi abbia assunto l’utile gestione di un affare
altrui non è però legittimato processualmente in senso sia attivo che passivo perché la
sostituzione processuale è ammessa nei soli casi espressamente previsti dalla legge.
Al di fuori dell’esercizio di un proprio preteso diritto o di una

negotiorum gestío nei

termini sopra indicati non può trovare applicazione il delitto di ragion fattasi . Ed è di
tutta evidenza come nel caso in esame l’azione posta in essere spontaneamente dai
prevenuti e diretta in modo non equivoco a costringere Costantino Francesco a
riassumere la Torelli alle proprie dipendenze dopo che lo stesso aveva formalizzato il
licenziamento per via della condotta illecita della donna, non possa essere qualificata
come esercizio arbitrario delle proprie ragioni, non avendo i prevenuti agito per l’esercizio
di un proprio diritto o su mandato della titolare o ancora quali gestori di fatto di affari
della donna nei termini sopra indicati, considerato che la asserita pretesa giudiziaria
azionabile avente ad oggetto la reintegrazione nel posto di lavoro e la legittimazione a
farla valere non poteva essere gestita che dal titolare del diritto.
La condotta posta in essere dagli imputati è stata correttamente qualificata come
tentativo di estorsione.
I ricorsi devono pertanto essere respinti e i ricorrenti condannati al pagamento delle
spese processuali.

3

della situazione giuridica e ne eserciti le tipiche facoltà, agisca cioè quale mero

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deliberato in Roma il 2.7.2015

Giovanna VERGA

Il Presidente
Franco FIANDANESE

Il Consigliere estensore

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