Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 4164 del 06/10/2014


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 4164 Anno 2015
Presidente: LOMBARDI ALFREDO MARIA
Relatore: MICCOLI GRAZIA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
CARDILLI ROCCO N. IL 17/01/1969
avverso la sentenza n. 4493/2011 CORTE APPELLO di FIRENZE, del
03/05/2013
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 06/10/2014 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. GRAZIA MICCOLI
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott.
che ha concluso per

Udito, per la parte civile, l’Avv
Udit i difensor Avv.

Data Udienza: 06/10/2014

t
t

-.

Il Procuratore Generale della Corte di Cassazione, dott. SANTE SPINACI, ha
concluso chiedendo il rigetto del ricorso.
Per l’imputato, l’avv. Rosanna FRATARCANGELI si è riportata al ricorso,
chiedendone l’accoglimento.
RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza impugnata la Corte d’appello di Firenze, in data 3 maggio

giugno 2010, che aveva condannato Fulvio Giamporcaro e Rocco CARDILLI alla
pena di giustizia per i reati di bancarotta fraudolenta documentale e per
distrazione, assolvendo -per insussistenza del fatto- il solo Giamporcaro per la
distrazione della somma di € 30.509.
I fatti di bancarotta si riferiscono all’attività della S.r.l. ARCHIMEDIA 2000
Costruzioni Generali, dichiarata fallita dal Tribunale di Prato in data 24 luglio
2002. Il CARDILLI è stato tratto a giudizio quale amministratore di fatto.
2. Ha proposto ricorso l’imputato Rocco CARDILLI, deducendo i seguenti otto
motivi.
2.1 Violazione di legge e vizio di motivazione.
Deduce il ricorrente che la società fallita non ha mai concretamente operato,
perché, sebbene sia rimasta in vita per due anni rispetto alla data del fallimento,
non ha compiuto atti di gestione, limitandosi a valutare i presupposti per
procedere ad un intervento edilizio e ad ottenere un mutuo di scopo, mai
“usufruito”, per procedere poi all’attività edificatoria programmata. In ragione di
ciò sarebbero carenti i presupposti perché la società possa essere qualificata
come imprenditore per l’assenza di un’attività continuativa. Il fallimento della
società fu dichiarato -secondo il ricorrente- inaudita altera parte, sicché ciò che
non fu dedotto in sede civile può essere dedotto in questa sede, in via del tutto
incidentale onde evitare un’ingiusta applicazione della legge penale.
2.2. Violazione di legge sotto il profilo dell’insussistenza del dolo e
dell’insussistenza del nesso causale tra condotta e dichiarazione di fallimento.
Secondo il ricorrente i giudici del merito avrebbero commesso un errore di diritto
ritenendo irrilevante, ai fini del delitto contestato, la prova del nesso causale tra
condotta e dichiarazione di fallimento, così come la prova del dolo rispetto a tale
dichiarazione. Con specifico riferimento al primo profilo la Corte territoriale secondo il ricorrente- avrebbe errato sotto un duplice profilo: nel non compiere
alcun accertamento sul nesso causale tra le condotte ascritte e il dissesto che
condusse in concreto, più tardi, alla dichiarazione di fallimento della società;
2

2013, ha confermato la sentenza emessa dal Tribunale di Prato, in data 25

,

,

nell’omettere, quindi, ogni motivazione sul punto. Nello specifico sarebbe stato
indispensabile spiegare se l’apprensione delle modeste somme e il precario
utilizzo del veicolo indicato nel capo C fossero di valenza e portata tale da
cagionare il dissesto della società.
2.3. Vizio di motivazione in riferimento all’attribuzione della qualifica di
amministratore di fatto e violazione di legge in relazione all’articolo 216, comma

La Corte territoriale non avrebbe correttamente motivato in relazione ai criteri
previsti dall’articolo 2639 cod. civ., mancando l’indicazione delle ragioni per le
quali il ricorrente avrebbe rappresentato la società in tutte le sedi che lo
richiedevano.
2.4. Violazione di legge e vizio di motivazione sotto il profilo dell’insussistenza
del dolo.
Secondo il ricorrente occorre risolvere il nodo dell’elemento soggettivo, essendo
evidente che in capo agli imputati difettasse la consapevolezza dello svolgimento
di attività imprenditoriale in senso proprio, specie dovendosi considerare pacifico
-in ragione delle evidenze dibattimentali- che l’attività economica fosse limitata
ad un unico progetto. Sulla base di queste premesse si deduce ancora il difetto di
motivazione, posto che l’individuazione dell’elemento soggettivo non è sorretta
dal ricorso ai consueti parametri di scrutinio, risolvendosi il relativo impianto in
affermazioni del tutto apodittiche, quali quella conclusiva, secondo la quale il
vero protagonista della vicenda sarebbe stato il CARDILLI.
2.5. Violazione di legge sul rilievo dell’insussistenza del contestato reato di
bancarotta fraudolenta documentale.
La Corte territoriale avrebbe del tutto omesso di motivare in ordine agli elementi
costitutivi del reato di bancarotta documentale come contestata sub capo A,
limitandosi ad affermare che l’irregolare (e quindi non omessa) tenuta delle
scritture contabili “fosse frutto di una deliberata scelta da parte degli
amministratori”, ma senza spiegarne in alcun modo le ragioni, così da rendere
non individuabile il percorso logico/giuridico seguito per pervenire al
convincimento. Il ricorrente, inoltre, assume che la regolare tenuta delle scritture
contabili non ha di fatto impedito al curatore di ricostruire nel dettaglio i
movimenti finanziari, anche in considerazione del brevissimo periodo di attività e
del risibile numero di operazioni svolte.
2.6. Omessa o carente motivazione in ordine alla distrazione di bene detenuto in
leasing – Errata e o falsa applicazione dell’articolo 216 legge fallimentare.
3

uno, n. 1, e 223 legge fallimentare.

,

Il ricorrente contesta l’addebito di bancarotta per distrazione con riferimento al
fatto relativo al veicolo detenuto in leasing. Il curatore aveva spiegato che, una
volta recuperato il veicolo, si era limitato a restituirlo alla società concedente la
quale, forte della già intervenuta risoluzione contrattuale, aveva utilmente
esperito la domanda di rivendica. Sostiene il ricorrente che non è configurabile la
bancarotta per distrazione di beni oggetto di contratto di leasing quando

fallimento, poiché in questa ipotesi il curatore non ha più il potere di subentrare
nel contratto al fine di acquisire il bene alla massa, con la conseguenza che il
bene stesso, non potendo in nessun caso entrare nel patrimonio fallimentare,
nemmeno può essere oggetto di distrazione in danno dei creditori concorsuali.
2.7. Errata o falsa applicazione dell’articolo 216 legge fallimentare e difetto di
motivazione, nonché travisamento della prova in ordine all’episodio di distrazione
di cui alla contestazione suppletiva.
Si imputa al ricorrente la distrazione della somma di 220 milioni di lire, parte di
un mutuo di maggiore importo, che sarebbe stata destinata a coprire un debito
verso la stessa banca finanziatrice contratto da altra società, che, in ragione
della compagine, veniva ritenuta riconducibile al CARDILLI. Il ricorrente si duole
del difetto di motivazione, visto che egli non solo è indebitamente ritenuto
amministratore di fatto della società il cui fallimento ha dato origine a questo
processo, ma anche al contempo considerato, senza alcuna spiegazione
provvista di minima logica, amministratore di fatto della società che si assume
beneficiaria della distrazione. La prova poi sarebbe stata travisata perché è
emerso come le somme in questione rimasero presso la banca, tanto che
l’operazione fu effettuata mediante “giroconto” e non mediante bonifico.
2.8. Inosservanza di norme processuali stabilite a pena di inutilizzabilità Violazione dell’articolo 195 codice di procedura penale.
Il giudice del merito ha disatteso la norma di cui all’articolo 195 non avendo
chiamato a deporre le persone indicate dal curatore come fonte della propria
conoscenza. Di qui deriva la censura di inutilizzabilità delle dichiarazioni dell’atto
rese dal teste. Vi sarebbe violazione di legge laddove il giudice del merito non ha
proceduto all’individuazione delle fonti informative del curatore fallimentare.
3. Con memoria pervenuta in data 23 settembre 2014 il ricorrente ha proposto
due nuovi motivi.
3.1 Violazione dell’erronea applicazione della legge processuale per mancata
notifica del nuovo capo di imputazione contestato all’imputato – Nullità assoluta
4

quest’ultimo risulti già risolto in epoca antecedente alla dichiarazione di

,

ex art. 179 cod. proc. pen.
Deduce il ricorrente che il pubblico ministero in data 9 marzo 2009 ha contestato
un nuovo capo di imputazione agli imputati per fatti emersi nell’istruttoria
dibattimentale e non indicati nel decreto di citazione a giudizio, secondo le forme
previste dall’articolo 518 cod. proc. pen. Successivamente, nell’udienza del 22
marzo 2010, mutato il collegio giudicante il pubblico ministero ha riproposto il

proc. pen., come fatto connesso e continuato. Il tribunale ha accolto l’istanza del
rappresentante della pubblica accusa di fissazione di una nuova udienza,
ordinando la notifica all’imputato dell’estratto del verbale d’udienza con le forme
previste dall’articolo 520 cod. proc. pen. Deduce il ricorrente il difetto di notifica
e la nullità assoluta prevista dall’articolo 179 del codice di procedura penale, non
essendo stata peraltro effettuata la notifica presso il legale di fiducia secondo la
forma prevista dall’articolo 161, comma quattro, cod. proc. pen. Chiede, quindi,
il ricorrente dì annullare la sentenza con riferimento al capo di imputazione
suppletiva, con l’invio degli atti al giudice di primo grado.
3.2 Sempre in ordine alla contestazione suppletiva si denuncia la violazione di
legge processuale di diritto alla prova ex articolo 190 codice di procedura penale.
Deduce il ricorrente che il giudice di primo grado, dopo la contestazione
suppletiva, ha illegittimamente rigettato le nuove richieste di prova formulate
dalle difese.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è infondato e, di conseguenza, va rigettato.
1. Con il primo motivo il ricorrente ha dedotto che non sarebbe configurabile il
reato di bancarotta, perché la società fallita non ha mai concretamente operato
e, in ragione di ciò, sarebbero carenti i presupposti perché la stessa società
possa essere qualificata come imprenditore.
L’assunto è manifestamente infondato.
La giurisprudenza di questa Corte ha ormai condivisibilmente chiarito che “il
giudice penale investito del giudizio relativo a reati di bancarotta ex artt. 216 e
seguenti R.D. 16 marzo 1942, n. 267 non può sindacare la sentenza dichiarativa
dì fallimento, quanto al presupposto oggettivo dello stato di insolvenza
dell’impresa e ai presupposti soggettivi inerenti alle condizioni previste per la
fallibilità dell’imprenditore, sicché le modifiche apportate all’art. 1 R.D. n. 267 del
1942 dal D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 e dal D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169,
non esercitano influenza ai sensi dell’art. 2 cod. pen. sui procedimenti penali in
5

medesimo capo d’imputazione, ma nella forma prevista dall’articolo 517 cod.

corso. (Sez. U, n. 19601 del 28/02/2008 – dep. 15/05/2008, Niccoli, Rv.
239398; e, tra le tante, Sez. 5, n. 40404 del 08/05/2009 – dep. 16/10/2009,
Melucci, Rv. 245427; Sez. 5, n. 9279 del 08/01/2009 – dep. 02/03/2009,
Carottini, Rv. 243160).
L’anzidetto orientamento interpretativo va ribadito in questa sede, non
ravvisandosi ragione alcuna per discostarsene; né a tal fine può assumere alcun

dinanzi al giudice civile non sarebbero stati rappresentati i motivi relativi alla non
fallibilità della società.
2. Con il secondo motivo è stata denunziata la violazione di legge sotto il profilo
dell’insussistenza del dolo e dell’insussistenza del nesso causale tra condotta e
dichiarazione di fallimento.
Il motivo non è stato dedotto con i motivi di appello, sicché prive di fondamento
ed inammissibili sono le censure avanzate dal ricorrente in ordine al fatto che la
Corte territoriale avrebbe errato sotto un duplice profilo: nel non compiere alcun
accertamento sul nesso causale tra le condotte ascritte e il dissesto che
condusse in concreto, più tardi, alla dichiarazione di fallimento della società;
nell’omettere, quindi, ogni motivazione sul punto.
Peraltro, nel ricorso in esame e in relazione ai profili sopra evidenziati sono stati
dedotti solo elementi di fatto (relativi all’apprensione di modeste somme e al
precario utilizzo dell’autovettura di cui al capo C) non valutabili certamente in
sede di legittimità.
3. Con il terzo motivo il ricorrente ha lamentato il vizio di motivazione in
riferimento all’attribuzione della qualifica di amministratore di fatto e la
violazione di legge in relazione all’articolo 216, comma 1, numero 1, e 223 legge
fallimentare.
Il motivo è infondato.
Va premesso che nel caso in cui le sentenze di primo e secondo grado
concordino nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a
fondamento delle rispettive decisioni, la struttura motivazionale della sentenza di
appello si salda con quella precedente e forma con essa un unico complessivo
corpo argomentativo (tra le tante, Sez. 3, n. 13926 del 01/12/2011, Valerio, Rv.
252615; Sez. 4, n. 15227 dell’11/4/2008, Baratti, Rv. 239735; Sez. 6, n. 1307
del 14/1/2003, Delvai, Rv. 223061).
Tale integrazione tra le due motivazioni si verifica allorché i giudici di secondo
grado abbiano esaminato le censure proposte dall’appellante con criteri

rilievo quanto, peraltro, solo dedotto dal ricorrente in ordine alla circostanza che

omogenei a quelli usati dal primo giudice e con riferimenti alle determinazioni ivi
prese ed ai passaggi logico-giuridici della decisione e, a maggior ragione, quando
i motivi di appello non abbiano riguardato elementi nuovi, ma si siano limitati a
prospettare circostanze già esaminate ed ampiamente chiarite nella decisione di
primo grado (Sez. 3, n. 10163 del 12/3/2002, Lombardozzi, Rv. 221116).
In tema di sentenza penale di appello, non sussiste mancanza o vizio della

completezza e della correttezza dell’indagine svolta in primo grado, nonché della
corrispondente motivazione, seguano le grandi linee del discorso del primo
giudice. Ed invero, le motivazioni della sentenza di primo grado e di appello,
fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico e
inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della
congruità della motivazione (sez. 2, n. 19947 del 15 maggio 2008).
I principi appena ricordati devono essere riaffermati anche nel caso in esame.
La Corte territoriale in ordine alla sussistenza della prova relativa alla qualità di
amministratore di fatto del CARDILLI ha in primo luogo specificamente
richiamato la motivazione della sentenza di primo grado, che aveva rilevato
come l’imputato, pur non risultando che avesse ricevuto alcun incarico
professionale dalla società fallita, si era interessato personalmente delle
trattative per l’acquisto dell’immobile da ristrutturare per la rivendita (scopo per
il quale la stessa società era stata costituita), nonché dell’erogazione del mutuo
bancario necessario per l’operazione immobiliare. Era stato rilevato, inoltre, che
la società fallita aveva preso in locazione un immobile per destinarlo ad
abitazione della mamma del CARDILLI, che questi aveva utilizzato l’auto LAND
ROVER di proprietà della società e che egli era anche l’amministratore di fatto
della GRUPPO IFS s.r.l. (amministrata formalmente dalla madre casalinga), sui
cui conti erano stati girati immediatamente i primi 220 milioni di lire versati alla
società fallita dalla banca erogatrice del mutuo chiesto per l’operazione
immobiliare oggetto dell’attività di impresa.
Dopo tali richiami alla sentenza di primo grado, la Corte territoriale, rispondendo
al motivo di appello proposto sul punto, ha indicato ulteriormente in maniera
precisa in base a quali elementi il CARDILLI potesse considerarsi amministratore
di fatto della società fallita e, quindi, concorrente nei reati contestati.
Giova a tal proposito ricordare che, in tema di bancarotta fraudolenta,
concorrono alla consumazione del delitto tutti coloro che abbiano, con la loro
attività, apportato un concreto contributo causale alla produzione del dissesto
7

motivazione allorquando i giudici di secondo grado, in conseguenza della

dell’azienda; pertanto, pur rappresentando la sentenza dichiarativa di fallimento
elemento costitutivo della fattispecie (in quanto accertativa dello stato di
insolvenza e della qualifica di imprenditore o di amministratore del soggetto
attivo), anche l’amministratore di fatto può essere chiamato a rispondere del
reato, in concorso con il soggetto dichiarato fallito (Sez. 5, n. 7583 del
06/05/1999, Grossi, Rv. 213646).
Con il quarto motivo sono stati dedotti violazione di legge e vizio di

motivazione sotto il profilo dell’insussistenza del dolo, essendo evidente secondo il ricorrente- che in capo agli imputati difettasse la consapevolezza dello
svolgimento di attività imprenditoriale in senso proprio.
Il motivo è manifestamente infondato, essendo supportato solo da generici
elementi di doglianza in ordine alla valutazione da parte dei giudici di merito
delle risultanze processuali.
Peraltro esso non risulta essere stato dedotto specificamente nell’atto di appello
e non prospetta questioni rilevabili di ufficio.
In tema di ricorso per cassazione, la regola ricavabile dal combinato disposto
degli artt. 606, comma terzo, e 609, comma secondo, cod. proc. pen. – secondo
cui non possono essere dedotte in cassazione questioni non prospettate nei
motivi di appello, tranne che si tratti di questioni rilevabili di ufficio in ogni stato
e grado del giudizio o di quelle che non sarebbe stato possibile dedurre in grado
d’appello – trova la sua “rado” nella necessità di evitare che possa sempre essere
rilevato un difetto di motivazione della sentenza di secondo grado con riguardo
ad un punto del ricorso, non investito dal controllo della Corte di appello, perché
non segnalato con i motivi di gravame (Sez. 4, n. 10611 del 04/12/2012 – dep.
07/03/2013, Bonaffini, Rv. 256631)
5. Infondato è il quarto motivo con il quale è stata dedotta l’insussistenza del
contestato reato di bancarotta fraudolenta documentale.
La Corte territoriale ha adeguatamente motivato sul punto, rispondendo al
motivo di appello dell’imputato. Ha evidenziato quanto riferito dal curatore in
ordine alla circostanza che i libri contabili non avevano alcuna annotazione e che
era stata anche omessa la presentazione dei bilanci di esercizio della società
relativi agli anni 2000 e 2001, sicché non era stato possibile ricostruire il
patrimonio sociale e il movimento degli affari.
Peraltro nessun rilievo ha la circostanza che il CARDILLI fosse amministratore di
fatto, in quanto questi è da ritenere gravato dell’intera gamma dei doveri cui è
soggetto l’amministratore “di diritto” della società fallita, per cui, ove concorrano
8

4.

le altre condizioni di ordine oggettivo e soggettivo, egli assume la responsabilità
per tutti i comportamenti penalmente rilevanti a lui addebitabili (Sez. 5, n.
39593 del 20/05/2011 – dep. 03/11/2011, Assello, Rv. 250844)
6.

Con il sesto motivo il ricorrente ha censurato la sentenza impugnata nella

parte in cui ha ritenuto sussistente l’addebito di bancarotta per distrazione del
veicolo detenuto in leasing.

a restituirlo alla società concedente la quale aveva utilmente esperito la
domanda di rivendica. Sostiene, quindi, che non sarebbe configurabile la
bancarotta per distrazione di beni oggetto di contratto di leasing quando
quest’ultimo risulti già risolto in epoca antecedente alla dichiarazione di
fallimento, poiché in questa ipotesi il curatore non ha più il potere di subentrare
nel contratto al fine di acquisire il bene alla massa, con la conseguenza che il
bene stesso, non potendo in nessun caso entrare nel patrimonio fallimentare,
nemmeno può essere oggetto di distrazione in danno dei creditori concorsuali.
Va precisato che la doglianza in esame non è stata proposta nei motivi di appello
nei termini specifici sopra evidenziati, sicché legittimamente la Corte territoriale
si è limitata a ritenere sussistente il reato richiamando le risultanze processuali,
anche come evidenziate dal giudice di primo grado.
Peraltro il motivo è infondato in diritto. È noto, infatti, che il contratto di leasing,
o locazione finanziaria, è il negozio atipico con il quale una parte denominata
“concedente”, dietro corrispettivo di un canone periodico, consente ad un’altra
parte (chiamata “utilizzatore”) il godimento di un bene, con facoltà di restituirlo
al termine prefissato ovvero di “riscattarlo” dietro pagamento di una specifica
somma residua. Ne deriva che la proprietà del bene, in pendenza del termine di
durata, rimane in capo al concedente e il relativo trasferimento è solo eventuale,
in quanto dipende dalla scelta dell’utilizzatore, che sarà effettuata in base a una
valutazione della residua utilità economica della cosa, in rapporto all’ammontare
del prezzo di “riscatto”.
In ragione di ciò, in caso di successivo fallimento, qualunque manomissione da
parte dell’utilizzatore, tale da impedire l’acquisizione del bene alla massa,
comporta distrazione non già del bene medesimo, ma dei diritti esercitabili dal
fallimento al termine del contratto, determinando altresì per i creditori il
pregiudizio derivante dall’inadempimento delle obbligazioni verso il concedente
(Sez. 5, n. 9427 del 03/11/2011 – dep. 12/03/2012, P.M. in proc. Cannarozzo e
altro, Rv. 251995; Sez. 5, n. 33380 del 18/07/2008, Bottamedi, Rv. 241397;
9

Deduce il ricorrente che il curatore, una volta recuperato il veicolo, si era limitato

Sez. 5, n. 6882 del 08/04/1999, Trifiletti, Rv. 213604).
Quindi, tornando al caso di specie, non può che essere rilevante la circostanza
che il CARDILLI abbia causato la risoluzione del contratto di leasing, non
pagando più il relativo corrispettivo e consentendo alla società concedente di
esercitare l’azione di revindica, determinando altresì per la massa fallimentare il
pregiudizio derivante dall’inadempimento e dal fatto di non poter acquisire il

7. Con il settimo motivo il ricorrente ha censurato la sentenza per violazione di
legge e travisamento della prova in ordine all’episodio di distrazione di cui alla
contestazione suppletiva, nella quale è stato addebitato il fatto di distrazione
della somma di 220 milioni di lire, facente parte di una somma di maggiore
importo oggetto di mutuo.
Tale somma è stata destinata a coprire un debito verso la stessa banca
finanziatrice contratto da altra società riconducibile al CARDILLI.
Il ricorrente si duole del difetto di motivazione, contestando ancora una volta la
circostanza di essere stato amministratore di fatto della società fallita, nonché di
essere considerato amministratore di fatto della società che si assume
beneficiaria della distrazione.
La prova poi sarebbe stata travisata, perché è emerso come le somme in
questione rimasero presso la banca, tanto che l’operazione fu effettuata
mediante “giroconto” e non mediante bonifico.
Le doglianze sopra rappresentate sono manifestamente infondate.
Si è già detto come la Corte territoriale abbia congruamente analizzato le
risultanze processuali in virtù delle quali il CARDILLI è stato correttamente
considerato amministratore di fatto della società fallita.
Altrettanto congruamente la sentenza impugnata ha evidenziato gli elementi in
base ai quali è risultata provata la distrazione della somma di 220.000.000 di lire
finiti sul conto della GRUPPO IFS s.r.I., di cui era amministratrice solo
formalmente la madre casalinga del CARDILLI.
E le censure del ricorrente sul punto sono del tutto generiche.
E’ il caso di precisare, a tal proposito e in via generale, che in tema di ricorso per
cassazione, la prospettazione del vizio di motivazione con riferimento a specifici
atti del processo, secondo la novella dell’art. 606 cod. proc. pen., comma 1, lett.
e) ad opera della L. n. 46 del 2006, comporta per il ricorrente l’onere sia di
individuazione precisa della collocazione degli atti nel fascicolo processuale, ove
non siano riprodotti nel ricorso e non siano allegati in copia conforme, sia di
10

bene riscattandolo.

dimostrazione che tali atti si trovassero nel fascicolo processuale al momento
della decisione del giudice del merito, che, infine, di indicazione puntuale della
circostanza di fatto asseritamente travisata o non valutata (Sez. 3, n. 12014 del
6 febbraio 2007).
In relazione al travisamento della prova, non è sufficiente l’esistenza di elementi
di dubbio o di contrasto con le altre prove, circostanza che non rende di per se

motivi della prevalenza riconosciuta ad alcuni rispetto ad altri. Il travisamento
della prova, comunque, richiede che un dato di essa sia stato letto da parte del
giudice di merito in modo tale da condurre all’affermazione dell’esistenza di una
specifica circostanza oggettivamente esclusa dal risultato probatorio o alla
negazione della sussistenza di una circostanza sicuramente risultante dalla
prova. Deve trattarsi, quindi, di un errore che inquini la trama motivazionale
dell’intero provvedimento stravolgendola al punto di disarticolarla, con la
conseguenza di rendere ictu ()cui/ errato il risultato decisorio raggiunto su un
punto rilevante e perciò decisivo ai fini della decisione. Solo in tal caso, e sempre
che dell’errore il ricorrente abbia fatto una precisa e specifica individuazione tra
gli atti del processo, indicando alla Corte, con assoluto rigore, la sua precisa
collocazione “topografica”, è possibile al giudice di legittimità esaminare
quell’atto e procedere all’annullamento della sentenza, ove sia rilevata
l’esattezza della deduzione del ricorrente (Sez. 6, n. 26149 del 13 marzo 2009).
Va, infine, rilevato che il vizio di “travisamento della prova”, che si realizza
allorché si introduce nella motivazione un’informazione rilevante che non esiste
nel processo oppure quando si omette la valutazione di una prova decisiva ai fini
della pronuncia, può essere dedotto solo nell’ipotesi di decisione di appello
difforme da quella di primo grado, in quanto nell’ipotesi di doppia pronuncia
conforme il limite del devolutum non può essere superato ipotizzando recuperi
in sede di legittimità, salva l’ipotesi in cui il giudice
rispondere alle critiche contenute nei motivi

di appello, al fine di

di gravame, richiami atti a

contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice (Sez. 2, n. 25883 del 28
maggio 2008).
Né va trascurato ancora una volta nel caso in esame che la sentenza impugnata
ha confermato quella di primo grado in ordine alla penale responsabilità del
CARDILLI. In tema di ricorso per cassazione, quando ci si trova dinanzi a una
“doppia pronuncia conforme” e cioè a una doppia pronuncia (in primo e in
secondo grado) di eguale segno (vuoi di condanna, vuoi di assoluzione),
11

stessa contraddittoria o illogica la motivazione, tanto più se la stessa indica i

l’eventuale vizio di travisamento può essere rilevato in sede di legittimità, ex
art. 606 cod.proc.pen., comma 1, lett. c), solo nel caso in cui il ricorrente
rappresenti (con specifica deduzione) che l’argomento probatorio asseritannente
travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella
motivazione del provvedimento di secondo grado (sez. 4, n. 20395 del 10
febbraio 2009; Sez. 4, n. 4060 del 12/12/2013 – dep. 29/01/2014, Capuzzi e

Nel caso di specie, come si è detto, tale specifica deduzione non è stata fatta.
8. Con l’ultimo motivo il ricorrente ha denunziato la violazione dell’articolo 195
codice di procedura penale. Il giudice del merito avrebbe disatteso tale norma
non avendo chiamato a deporre persone indicate dal curatore come fonte della
propria conoscenza. Di qui deriva la censura di inutilizzabilità delle dichiarazioni
rese dal teste.
Anche in ordine a tale doglianza la Corte territoriale ha fornito coerente e logica
motivazione di rigetto, evidenziando, peraltro, che non risulta essere stata
formulata istanza da parte della difesa di esame dei soggetti indicati dal curatore
quali fonti di conoscenza dei fatti e, in particolare, del coimputato Giamporcaro,
che aveva fornito elementi specifici al curatore in ordine al ruolo di
amministratore di fatto svolto dal CARDILLI.
Non si può nutrire alcun dubbio sul fatto che le dichiarazioni rese al curatore dal
coimputato siano utilizzabili, giacché da tempo la giurisprudenza di questa Corte
ha avuto modo di chiarire che “le dichiarazioni rese dal fallito al curatore non
sono soggette alla disciplina di cui all’art. 63, comma secondo, cod. proc. pen.,
in quanto il curatore non appartiene alle categorie indicate da detta norma e la
sua attività non può considerarsi ispettiva o di vigilanza ai sensi e per gli effetti
di cui all’art. 220 disp. coord. cod. proc. pen. (Sez. 5, n. 46422 del 25/09/2013 dep. 21/11/2013, Besana e altro, Rv. 257584; Sez. 5, n. 13285 del 18/01/2013
– dep. 21/03/2013, Pastorello, Rv. 255062).
Più specificamente, “è utilizzabile, quale prova a carico dell’imputato, la
testimonianza indiretta del curatore fallimentare sulle dichiarazioni accusatorie a
lui rese da un coimputato, non comparso al dibattimento, e trasfuse dallo stesso
curatore nella relazione redatta ai sensi dell’art. 33 della legge fallimentare”
(Sez. 5, n. 15218 del 18/01/2011 – dep. 14/04/2011, Consonni, Rv. 249959).
9. Come si è detto, con memoria pervenuta in data 23 settembre 2014 il
ricorrente ha proposto due “nuovi motivi” che tuttavia devono ritenersi tardivi,
perché si tratta di in effetti di nuove censure.
12

altro, Rv. 258438).

,

Il ricorrente ha dedotto l’erronea applicazione della legge processuale per
mancata notifica del nuovo capo di imputazione contestato all’imputato e,
sempre in ordine alla contestazione suppletiva, ha denunciato la violazione di
legge processuale di diritto alla prova ex articolo 190 codice di procedura penale.
Orbene, tali censure sono inammissibili, perché nuove ed autonome rispetto a
quelle relative alla contestazione suppletiva proposte con il ricorso. Infatti, come

legge e travisamento della prova in relazione alla imputazione della distrazione
della somma di 220 milioni di lire.
E’ ormai principio giurisprudenziale consolidato quello per cui i “motivi nuovi” a
sostegno dell’impugnazione, previsti nella disposizione di ordine generale
contenuta nell’art. 585 cod.proc.pen. (e, in quella particolare, di cui all’art. 611,
per il procedimento in camera di consiglio), devono avere ad oggetto i capi o i
punti della decisione impugnata che sono stati enunciati nell’originario atto di
gravame (ex plurimis, Sez. U. del 25 febbraio 1998, Bono, RV. 210259; Sez. 3
del 22 gennaio 2004, Sbragi, RV. 228525; Sez. 2 del 4 novembre 2003,
Marzullo, RV. 226976) e devono semplicemente specificare le doglianze
tempestivamente presentate, non potendosi risolvere nella prospettazione di
nuovi vizi (Sez. 5, n. 14991 del 12/01/2012 – dep. 18/04/2012, P.G. in proc.
Strisciuglio e altri, Rv. 252320;Sez. 1 del 30 settembre 2004, Burzotta, RV.
230634; Sez. 1, n. 40174 del 2009; Sez. 6, n. 27325 del 20/05/2008, Rv.
240367, D’Antino).
La normativa consente la presentazione di motivi nuovi e i motivi non sono altro
che le ragioni che sostengono una certa domanda; nel ricorso per cassazione le
domande si identificano con le specifiche censure che vengono mosse al
provvedimento impugnato e che identificano i vizi da cui il provvedimento
sarebbe affetto. Consentendo la proposizione di nuovi motivi, ma non di nuove
censure, la normativa ammette che possano essere portati nuovi argomenti a
sostegno di una specifica censura, ma non consente, invece, che possano essere
indicate censure del tutto nuove, mai indicate in precedenza.
E’ consentito, dunque, al ricorrente, indicare ulteriori elementi da cui si desume
l’esistenza di uno specifico vizio di motivazione del provvedimento impugnato, se
tale era la censura originaria, ma non è consentito dedurre una violazione di
legge – pur se afferente allo stesso capo della sentenza – se si era
originariamente dedotto solo il vizio di motivazione o diversa violazione di legge.

13

si è visto, nel ricorso era stato solo dedotto il motivo di censura per violazione di

Tornando al caso in esame, è fin troppo evidente la assoluta diversità tra la
deduzione contenuta nell’originario atto di gravame (essenzialmente il vizio di
motivazione anche per travisamento della prova con riferimento alla
contestazione suppletiva) e quelle contenute nella nuova memoria (nullità di un
atto per violazione di una norma processuale e violazione di norma in materia di
prova).

possono considerarsi “nuovi motivi” – cioè mere ragioni giustificatrici – ai sensi
dell’art. 585 cod. proc. pen., ma devono essere qualificate come censure del
tutto nuove, cioè come diversi ed ulteriori vizi da cui si assume che la sentenza
sia affetta.
Peraltro, anche se superfluo per quanto sopra rappresentato, va rilevato che
dagli atti risulta che la contestazione suppletiva è stata formulata una prima
volta in una udienza (9 marzo 2009) nella quale il CARDILLI era comparso, tanto
che ne era stata revocata la contumacia; successivamente il nuovo collegio, su
richiesta del Pubblico Ministero, ha disposto la notifica dell’estratto del verbale di
udienza (22 marzo 2010) contenente l’imputazione, notifica che risulta effettuata
regolarmente ai sensi dell’art. 161, comma 4, cod. proc. pen.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali
Così deciso in Roma, il 6 otto ure 2014
Il Presidente

Ne consegue che le censure contenute nella memoria del 23 settembre 2014 non

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