Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 41008 del 14/05/2015


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 41008 Anno 2015
Presidente: NAPPI ANIELLO
Relatore: MICCOLI GRAZIA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
BRUMANA GIOVANNI N. IL 22/08/1946
avverso la sentenza n. 1001/2011 CORTE APPELLO di MILANO, del
04/07/2014
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 14/05/2015 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. GRAZIA MICCOLI
Udito il Procuratore Generale in persona del D
che ha concluso per

Udito, per la parte civile, l’Avv
Udit i difensor Avv.

Data Udienza: 14/05/2015


,

,

Il Procuratore Generale della Corte di Cassazione, dott. Mario Maria Stefano PINELLI, ha
concluso chiedendo l’annullamento con rinvio.
Per il ricorrente, l’avv. Stefano BORRELLA ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 4 luglio 2014 la Corte di Appello di Milano, in parziale riforma della
pronunzia di primo grado emessa dal Tribunale della stessa città, dichiarava non doversi

all’art. 2638 cod. civ., perché estinto per prescrizione, e confermava la condanna dello stesso
imputato per il reato (ascrittogli al capo E) di cui agli artt. 110 – 216 – 223 comma 2 n. 2
legge fallimentare, perché, in qualità di direttore generale della Banca Popolare di Intra (in
seguito indicata come BPI) e in concorso con altri soggetti, per effetto di operazioni
dettagliatamente descritte nel capo di imputazione, cagionava il fallimento della società FIN.
PART S.p.A.

2. Con atto sottoscritto dai suoi difensori ha proposto ricorso per cassazione l’imputato,
deducendo i seguenti motivi, nei quali vengono denunziati violazioni di legge e vizi di
motivazione.

2.1 E’ stata eccepita la nullità della sentenza impugnata nella parte in cui ha confermato
la legittimità delle ordinanze emesse dal giudice di primo grado in data 27 marzo 2007 e 19
marzo 2008, in ragione dell’assoluta carenza di motivazione e per violazione degli articoli 130 e
130 bis delle disposizioni di attuazione al codice di procedura penale, nonché dell’art. 18 cod.
proc. pen., con conseguente nullità, ex art. 178, lett. b e c, cod. proc. pen. dell’avviso di
conclusione delle indagini preliminari e della richiesta di rinvio a giudizio.
In relazione a tali profili e nel caso non fossero accolte le richieste avanzate, il ricorrente ha
sollevato la questione di legittimità costituzionale perché rilevante e non manifestamente
infondata degli articoli 130, 130 – bis disp. att. cod. proc. pen., 18, 415 bis e 416 comma 2
cod. proc. pen., in contrasto con gli articoli 3, 24, 101, 102 e 111 Cost.

2.2. E’ stata avanzata richiesta di declaratoria di illegittimità dell’ordinanza emessa in
data 29 ottobre 2008, confermata nel giudizio di appello, in ragione dell’inosservanza degli
artt. 33 e ss. cod. proc. pen., 25, 111 Cost., con conseguente nullità ex art. 178 lettera a) cod.
proc. pen. della suddetta ordinanza e di tutti gli atti successivi.

2.3. E’ stata eccepita la nullità della sentenza impugnata nella parte in cui ha
confermato la legittimità delle ordinanze emesse dal giudice di primo grado in data 7 ottobre
2009 e 13 gennaio 2010, in ragione della violazione degli articoli 190, 495 e 603 cod. proc.
2

procedere nei confronti di Giovanni BRUMANA in ordine al reato (ascrittoli al capo F) di cui

,
,
,

pen., che hanno comportato la mancanza di assunzione di più prove rappresentate come
decisive ai fini dell’esclusione della responsabilità penale dell’imputato.

2.4. Con un altro motivo è stata eccepita la nullità della sentenza nella parte in cui ha
confermato la legittimità delle ordinanze emesse dal giudice di primo grado in data 7 ottobre
2009 e 13 gennaio 2010 in ragione della contraddittorietà del provvedimento impugnato
rispetto all’atto di appello, nella parte in cui censura quest’ultimo sul fatto che non fossero
specificate le ragioni che avrebbero giustificato la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale,

relativamente al punto dei motivi di appello in cui la difesa ha censurato la revoca dei testi
ammessi e ne ha chiesto l’audizione nel giudizio di secondo grado.

2.5. Con ulteriori motivi è stato dedotto il vizio di motivazione in ordine alla sussistenza
dell’elemento oggettivo del reato.

2.6. E’ stato dedotto anche il vizio di motivazione in ordine alla sussistenza
dell’elemento soggettivo del reato.

CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso non può essere accolto.

1. Il primo e il secondo motivo possono essere trattati congiuntamente, dovendo rilevarsi per
entrambi la manifesta infondatezza.

1.1.Con l’atto di appello il ricorrente aveva eccepito la nullità della sentenza di primo
grado quale conseguenza della nullità dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, che
si è assunto essere stato emesso in violazione degli artt 130, 130 bis disp. att. cod.proc.pen. e
17, 18 e 19 cod.proc.pen., avendo il Pubblico Ministero disposto la separazione degli atti del
procedimento a carico del BRUMANA da quelli riguardanti la posizione dei soggetti indicati nel
capo di imputazione quali concorrenti nel reato in esame.
Si evince dalla sentenza impugnata che in tal modo erano state ribadite le doglianze già svolte
nel corso del primo giudizio, argomentando che il PM “avrebbe potuto disporre la separazione
solo in presenza di esigenze oggettive che ne dimostrassero l’opportunità” e confutando le
motivazioni in contrario addotte dal Tribunale, con il richiamo di una sentenza della Corte
Costituzionale (n. 145/95) in materia di separazione dei procedimenti nella fase delle indagini,
nella quale si “concedeva la possibilità al PM di accedere ad una separazione dei procedimenti,
ma solo di fronte ad «esigenze oggettive»”, non ravvisabili nel caso di specie.
Sotto altro profilo, sempre nell’atto di appello, la nullità della sentenza era stata eccepita
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con l’esame di testi, nonché mancanza della motivazione della sentenza impugnata

,

quale conseguenza della nullità dell’ordinanza del 29/10/08, con la quale nel corso del
dibattimento veniva disposta la separazione delle posizioni dei coimputati LORI e FERRARI,
ammessi alla definizione del processo con “patteggiamento”, a seguito della novella legislativa
introdotta con la L. 125/08: anche in questo caso, ribadendo gli argomenti già sottoposti al
primo giudice, la difesa aveva sostenuto che tale separazione non rientra tra i casi previsti
dall’art. 18 cod.proc.pen e dunque comporterebbe la violazione del principio del

giudice

naturale precostituito per legge, che “sino alla definizione del patteggiamento” si identifica nel
Tribunale; veniva quindi contestata la motivazione resa dallo stesso Tribunale per respingere la

previste nel citato art. 18 “perché la pronta decisione non era riferibile a tutti gli imputati”,
posto che l’incompatibilità sorge solo dopo la pronuncia della sentenza di applicazione della
pena concordata.

1.2. Le rappresentate doglianze sono state reiterate pedissequamente con il ricorso in
cassazione e l’esame della sentenza impugnata consente di ritenere che su di esse è stata
fornita adeguata, esauriente e logica risposta in motivazione.
Va ricordato a tal proposito che la funzione tipica dell’impugnazione è quella della critica
argomentata avverso il provvedimento cui si riferisce, che si realizza con la presentazione di
motivi che, a pena di inammissibilità (artt. 581 e 591 cod. proc. pen.), debbono indicare
specificamente le ragioni di diritto e gli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta.
Se il motivo di ricorso si limita – come nel caso in esame- a riprodurre il motivo d’appello,
viene meno in radice l’unica funzione per la quale è previsto e ammesso (la critica
argomentata al provvedimento), posto che con siffatta mera riproduzione il provvedimento
impugnato, invece di essere destinatario di specifica critica argomentata, è di fatto del tutto
ignorato (tra le tante, Sez. 3, n. 44882 del 18/07/2014, Cariolo e altri, Rv. 260608; Sez. 6, n.
34521 del 27/06/2013, Ninivaggi, Rv. 256133; Sez. 5 n. 25559 del 15 giugno 2012,
Pierantoni; Sez. 6 n. 22445 del 8 maggio 2009, p.m. in proc. Candita, rv 244181; Sez. 5 n.
11933 del 27 gennaio 2005, Giagnorio, rv. 231708).

1.3. Giova tuttavia evidenziare che corretta appare la decisione della Corte
territoriale, che ha rigettato tutte le suddette doglianze.
Invero, riguardo la separazione degli atti del procedimento disposta dal Pubblico Ministero
nella fase delle indagini preliminari, la Corte di Appello ha fatto riferimento ai principi
enunciati reiteratamente in sede di legittimità in materia di inosservanza o erronea
applicazione della disciplina di cui all’art. 18 cod.proc.pen.
Infatti, si è affermato che l’art. 18, comma primo lett.e), cod.proc.pen. prevede la possibilità
di separazione come soluzione normale, mentre la esclude solo in via eccezionale quando il
giudice ritenga la riunione assolutamente necessaria per l’accertamento dei fatti (Sez. 3, n.
1862 del 11/06/1998, Crotti E. ed altro, Rv. 211554).
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questione proposta, assumendo che nel caso di specie non ricorre alcuna delle circostanze

,

In effetti, non possono essere oggetto di censura i provvedimenti di separazione motivati con
esigenze di speditezza del processo per le posizioni relativamente alle quali l’istruttoria
risulta conclusa, giacché l’art. 18 cod. proc. pen. prevede la possibilità di separazione come
soluzione normale, mentre la esclude solo in via eccezionale quando il giudice ritenga la
riunione assolutamente necessaria per l’accertamento dei fatti.
Si è anche affermato in altra pronunzia di questa Corte che “la richiamata norma dell’art. 18
c.p.p. prevede la separazione dei rapporti processuali come soluzione normale, nella
prospettiva di garantire una definizione rapida di quelle posizioni processuali in grado di

con conseguente protrazione dei tempi per la loro definizione”; e si è poi ulteriormente
chiarito che l’ipotesi “prevista dalla lett. c), in coerenza con la «ratio» dell’istituto, deve
essere riferita non solo al caso di un unico processo a carico di più imputati, le cui posizioni…
possono essere separate, ma anche a quello di più processi riuniti a carico di uno stesso
imputato, che possono, in presenza dei relativi presupposti, essere separati” (Sez. 6, n.
15080 del 15/12/2010, D. T., Rv. 249869).
Peraltro, è pacifico che la violazione degli artt. 17, 18 e 19 cod. proc. pen. non determina
invalidità, salvo quando risulti applicabile l’art. 178 lett. c), cod. proc. pen., ove il giudice non
abbia sentito alcuno degli interessati. (Sez. 5, n. 225 del 18/01/1999, Franzin, Rv. 213345).
Nel caso in esame condivisibilmente, poi, la Corte territoriale ha rilevato che, “in ogni caso, il
fatto che l’imputato fosse all’epoca sottoposto a misura cautelare è ragione processuale
idonea a giustificare un differente trattamento rispetto le posizioni dei coimputati: né si
intravede un suo concreto interesse a dolersi di quella decisione, non essendo dato ravvisare
alcuna concreta lesione del suo diritto di difesa (omissis) per effetto della disposta
separazione della sua posizione da quella dei coimputati”.
In ragione di tali considerazioni la stessa Corte territoriale ha ritenuto che la questione di
costituzionalità risulta priva di concreta rilevanza.

1.4. Analoghe argomentazioni sono servite alla Corte di Appello per rigettare
l’eccezione di nullità della sentenza come derivante dal provvedimento di separazione delle
posizioni dei coimputati disposto nella fase dibattimentale.
L’eccezione proposta è inammissibile per carenza d’interesse: infatti, per effetto della
separazione solo la posizione dei coimputati è stata sottoposta al vaglio di un giudice diverso,
mentre il processo a carico del BRUMANA è proseguito avanti al medesimo collegio, onde
quel provvedimento non ha inciso in alcun modo sulla posizione processuale di quest’ultimo,
il quale -quindi- non è stato sottratto certamente al suo “giudice naturale”, secondo il
concetto prospettato dallo stesso ricorrente, per vero poco aderente ai principi di diritto in
materia.
In proposito, infatti, giova evidenziare che “la garanzia costituzionale del giudice naturale
riguarda l’ufficio giudiziario, non la persona fisica del giudice (fattispecie in cui la Corte ha
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essere decise senza ulteriori adempimenti, che potrebbero invece riguardare altre posizioni,

ritenuto legittimo il provvedimento con cui il gip, in un procedimento a carico di più soggetti,
aveva separato la posizione di un imputato per la definizione con il rito del patteggiamento,
trasmettendo il fascicolo stralciato ad altro magistrato dello stesso ufficio per evitare
incompatibilità) (Sez. 2, n. 5391 del 27/01/2015, Vavala’, Rv. 262292).
Sotto altro profilo, si deve osservare che l’eccezione in effetti finisce per tradursi in una
inammissibile impugnazione del provvedimento con il quale è stata disposta la separazione
dei procedimenti, mediante stralcio delle posizioni di alcuni degli imputati.
Tale provvedimento ha natura ordinatoria e, per il principio di tassatività dei motivi di

256392; si veda anche Sez. 2, Ordinanza n. 1611 del 24/03/1994 Cc. Rv. 197313).

2. Anche i motivi riguardanti le doglianze in ordine alla mancanza di assunzione di alcune
prove possono essere trattati congiuntamente, dovendo peraltro rilevarsi la loro infondatezza.
2.1. Come si è già detto, è stata eccepita la nullità della sentenza impugnata nella parte
in cui ha confermato la legittimità delle ordinanze emesse dal giudice di primo grado in data 7
ottobre 2009 e 13 gennaio 2010, in ragione della violazione degli articoli 190, 495 e 603 cod.
proc. pen., che hanno comportato la mancanza di assunzione di più prove, rappresentate dal
ricorrente come decisive ai fini dell’esclusione della responsabilità penale dell’imputato.
E’ stata poi eccepita la nullità della sentenza nella parte in cui ha confermato la legittimità delle
ordinanze emesse dal giudice di primo grado in data 7 ottobre 2009 e 13 gennaio 2010 in
ragione della contraddittorietà del provvedimento impugnato rispetto all’atto di appello, nella
parte in cui censura quest’ultimo sul fatto che non fossero specificate le ragioni che avrebbero
giustificato la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, con l’esame di testi, nonché
mancanza della motivazione della sentenza impugnata relativamente al punto dei motivi di
appello in cui la difesa ha censurato la revoca dei testi ammessi e ne ha chiesto l’audizione nel
giudizio di secondo grado.
Le istanze erano finalizzate ad ottenere la rinnovazione del dibattimento al fine di esaminare i
testi BUCHERER, ZaBLIN, VELO, BERNASCONI, MARTINI STAHEL, MORAT, TODESCO, ZENI,
SILIGARDI, LAGRO, SANTAIOLA e ARGENTINI, la cui ammissione era stata revocata dal
Tribunale con ordinanza del 7/10/09, a seguito della loro mancata presentazione alla predetta
udienza (in ragione dell’esito negativo delle notifiche o avendo chiesto di essere assunti
mediante rogatoria internazionale), benché la difesa avesse precisato -a richiesta del Collegioche non intendeva rinunciare alla loro audizione, ed il teste ARGENTINI la cui ammissione è
stata revocata con ordinanza del 13/1/10 (anche in questo caso a seguito della sua mancata
comparizione per l’esito negativo della notifica.
Il ricorrente, a confutazione della legittimità e validità della motivazione dei provvedimenti di
revoca -oggetto di contestuale impugnazione-, ha sostenuto (quanto al primo elenco di
testimoni) che la decisione si è fondata su un principio di economia processuale che viola i
criteri dettati dalla giurisprudenza di legittimità in materia di revoca delle prove (incentrate
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impugnazione, è inoppugnabile (Sez. 4, n. 20157 del 03/04/2013, P.O. in proc. Angeloni, Rv.

sulla manifesta superfluità o irrilevanza della stessa); ha quindi argomentato per supportare la
rilevanza di quelle prove orali.
Riguardo al teste ARGENTINI (il cui esame era stato confermato dal Tribunale con la
precedente ordinanza) è stato evidenziato che questi aveva rappresentato la propria
impossibilità a comparire all’udienza indicata e la motivazione con cui il Tribunale ne aveva
revocato l’ammissione sarebbe in contraddizione con i provvedimenti precedenti.
2.2. Riguardo alla dedotta violazione dell’art. 495 cod. proc. pen., si rileva che, così
come evidenziato anche nella sentenza di appello, il Tribunale con le ordinanze sopra citate

irrilevanza delle deposizioni testimoniali sia di BUCHERER, ZUBLIN, VELO, BERNASCONI,
MARTINI STAHEL, MORAT, TODESCO, ZENI, SILIGARDI, LAGRO e SANTAIOLA (ordinanza del
7 ottobre 2009, il cui testo è anche riportato in una delle note della sentenza di appello), sia
di ARGENTINI (ordinanza del 13 gennaio 2010, anch’essa trascritta integralmente in una
nota della sentenza d’appello).
La Corte territoriale ha ritenuto adeguate le motivazioni del giudice di primo grado,
ulteriormente dando conto della manifesta superfluità dei testi non esaminati: “Per quanto
concerne in particolare la richiesta di esame del teste BUCHERER, a quanto osservato dal
Tribunale vale la pena aggiungere che il predetto non ha -di fatto- partecipato direttamente
alle vicende in esame, avendo lasciato ogni iniziativa e responsabilità al socio MAHLER (il
quale è stato ampiamente esaminato nel corso del primo giudizio, e ciò rende superfluo
l’esame del teste BERNASCONI); quanto al teste VELO, poi, la stessa difesa, in sede di
conclusioni, ha ammesso che tra tutti i testi indicati è quello cui potrebbe rinunciare;
d’altronde, nel corso dell’istruttoria dibattimentale ampio spazio è stato dato alle prove
introdotte dalla difesa, che ha altresì rinunciato a molti dei testi inizialmente indicati…
Omissis… Infine, vi è da rilevare che i testi esclusi non risultano avere svolto un ruolo
centrale nell’ambito della complessiva vicenda, onde non è pensabile che dal loro esame
possano emergere elementi decisivi in relazione agli specifici addebiti oggetto
dell’imputazione” (pagg. 16 e 17 della sentenza di appello).
Si è dunque fatta corretta applicazione dei principi affermati da questa Corte, secondo i quali
il diritto alla prova contraria garantito all’imputato con adeguata motivazione può essere
denegato dal giudice solo quando le prove richieste siano manifestamente superflue o
irrilevanti; con la conseguenza che il giudice di appello, dinanzi al quale sia dedotta la
violazione dell’art. 495, comma secondo, cod. proc. pen., deve decidere sull’ammissibilità
della prova secondo i parametri rigorosi previsti dall’art. 190 stesso codice (per il quale le
prove sono ammesse a richiesta di parte), mentre non può avvalersi dei poteri meramente
discrezionali riconosciutigli dal successivo art. 603 in ordine alla valutazione di ammissibilità
delle prove non sopravvenute al giudizio di primo grado (si vedano in tal senso Sez. 6, n.
48645 del 06/11/2014, G e altro, rv. 261256; Sez. 6, n. 761 del 10/10/2006 Ud., rv.
235598; Sez. 5, n. 26885 del 09/06/2004 Ud. rv. 229883).
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aveva esaustivamente motivato le ragioni della ritenuta manifesta superfluità e della

2.3. Sotto altro profilo e con specifico riferimento anche alla dedotta violazione dell’art.
603 cod. proc. pen., si rileva che la Corte territoriale, con esaustiva e logica motivazione, ha
rigettato le richieste di rinnovazione istruttoria, non ravvisando elementi di indispensabilità in
alcuna delle richieste formulate e richiamando la condivisibile giurisprudenza di legittimità,
secondo la quale i fenomeni di integrazione probatoria in appello rispondono ad una logica di
eccezionalità, in coerenza con la presunzione di completezza dell’accertamento probatorio che

carattere eccezionale, al quale può farsi ricorso esclusivamente quando il giudice ritenga, nella
sua discrezionalità, di non poter decidere allo stato degli atti (Sez. U, n. 2780 del 24/01/1996,
Panigoni ed altri, rv. 203974).
Né può trascurarsi quella giurisprudenza che afferma che il giudice d’appello ha l’obbligo di
motivare espressamente sulla richiesta di rinnovazione del dibattimento solo nel caso di suo
accoglimento, mentre laddove ritenga di respingerla può anche motivarne implicitamente il
rigetto, evidenziando la sussistenza di elementi sufficienti ad affermare o negare la
responsabilità del reo. (Sez. 6, n. 11907 del 13/12/2013, Coppola, rv. 259893).
Ma, come si è detto, la Corte di Appello nel caso in esame ha motivato anche in ordine alla
non decisività della prova.
Si legge, infatti, nella sentenza in primo luogo che “la difesa non adduce concreti elementi a
dimostrazione dell’indispensabilità dell’esame di quei testimoni in questa fase del giudizio,
ed ai fini della presente decisione, ma si limita ad affermarne la necessità -sostanzialmenteper il solo fatto il Tribunale ha revocato la precedente ordinanza con cui le aveva ammessi,
assumendo che tale decisione sarebbe ingiustificata; peraltro, le generiche indicazioni al
riguardo fornite dalla difesa non bastano a far ritenere che -in linea generale- quelle
testimonianze possano fornire un apporto di conoscenze ulteriore rispetto a quanto già
risultante dagli atti, e decisivo in ordine ai punti oggetto delle doglianze difensive: nel caso
di specie, le ragioni della ritenuta superfluità di quegli incombenti istruttori risultano
efficacemente sintetizzate nelle ordinanze con cui il primo Collegio ha escluso -con
motivazioni pertinenti e “individualizzate” per ciascuno dei testimoni- la necessità di
procedere all’esame, sia per quanto concerne i testi BUCHERER, ZOBLIN, VELO,
BERNASCONI, MARTINI STAHEL, MORAT, TODESCO, ZENI, SILIGARDI, LAGRO e
SANTAIOLA, sia riguardo ad ARGENTINI.
Per quanto concerne in particolare la richiesta di esame del teste BUCHERER, a quanto
osservato dal Tribunale vale la pena aggiungere che il predetto non ha -di fatto- partecipato
direttamente alle vicende in esame, avendo lasciato ogni iniziativa e responsabilità al socio
MAHLER (il quale è stato ampiamente esaminato nel corso del primo giudizio, e ciò rende
superfluo l’esame del teste BERNASCONI); quanto al teste VELO, poi, la stessa difesa, in
sede di conclusioni, ha ammesso che tra tutti i testi indicati è quello cui potrebbe rinunciare;
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caratterizza il giudizio di primo grado, onde la rinnovazione del giudizio in appello è istituto di

d’altronde, nel corso dell’istruttoria dibattimentale ampio spazio è stato dato alle prove
introdotte dalla difesa, che ha altresì rinunciato a molti dei testi inizialmente indicati
OMISSIS. Infine, vi è da rilevare che i testi esclusi non risultano avere svolto un ruolo
centrale nell’ambito della complessiva vicenda, onde non è pensabile che dal loro esame
possano emergere elementi decisivi in relazione agli specifici addebiti oggetto
dell’i mputazione”.
E’ del tutto evidente che si tratta di valutazioni in ordine alla decisività della prova sottratte
al sindacato di legittimità; infatti, “il rigetto dell’istanza di rinnovazione dell’istruttoria

argomentativa della motivazione della decisione di secondo grado si fonda su elementi
sufficienti per una compiuta valutazione in ordine alla responsabilità” (Sez. 6, n. 30774 del
16/07/2013, Trecca, rv. 257741; in senso conforme: n. 5782 del 2007, rv. 236064; n.
40496 del 2009, rv. 245009, n. 24294 del 2010, rv. 247872).
2.4. Un’ultima annotazione merita una censura riportata nel corpo del ricorso in
merito alla circostanza che è stata rigettata, sia dal giudice di primo grado che da quello di
appello, l’istanza di una perizia finalizzata ad accertare il nesso di causalità tra l’operazione di
aumento di capitale e il dissesto della società (pag. 51 del ricorso).
In proposito si rileva che una perizia può essere disposta soltanto se il giudice ritenga di non
essere in grado di decidere allo stato degli atti e la relativa valutazione, in quanto
costituente giudizio di fatto, è incensurabile in cassazione se -come nel caso di specie- è
logicamente e congruamente motivata (Sez. 2, n. 36630 del 15/05/2013, Bommarito, rv.
257062; Sez. 5, n. 7569 del 21/04/1999, Jovino R, rv. 213637).

3. Infondati devono pure ritenersi i motivi con i quali è stato dedotto il vizio di motivazione
in ordine alla sussistenza dell’elemento oggettivo del reato, con la precisazione che tale
profilo è trattato anche con riferimento alla asserita mancanza di motivazione in ordine alla
infondatezza dei motivi di appello sul punto (si vedano pagg. 50 e ss. del ricorso).

3.1. Per comprendere meglio la portata delle censure oggetto di esame, è opportuno
riportare il capo di imputazione sub E) nel quale sono sintetizzati i fatti contestati:
“”…E) reato p. e p. dagli artt. 110 c.p., 216 – 223, c.2 n. 2, L.F., perché, in concorso con
FACCHINI Gianluigi, in atti generalizzato, Consigliere d’Amministrazione della FIN.PART
S.p.A. e con DEL CURTO Paola, STORER Silvano, CARPANEDA Michele, LAZZARONI
Giuseppe, LIVOLSI Ubaldo, COLOMBO Felice, DE STEFANIS Marco, questi ultimi quali
Consiglieri di Amministrazione pro tempore della FIN .PART S.p.A., fallita in Milano il
25/10/05, BRUMANA quale Direttore Generale della BANCA POPOLARE DI INTRA,
cagionavano con dolo e per effetto di operazioni dolose il fallimento della Società ed in
particolare, allorché la fallita presentava un importante livello di debito ed aveva chiuso
in utile i bilanci 2000 e 2001 esclusivamente in virtù delle manovre sui titoli FRETTE
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dibattimentale in appello si sottrae al sindacato di legittimità quando la struttura

descritte al capo B) della richiesta di rinvio a giudizio formulata nell’ambito del
procedimento penale a margine, dal P.M. dr. Orsi datata 20/10/06, (manovre consistite
nella vendita da parte della FIN.PART, dapprima di blocchi di azioni FRETTE comportanti
il conseguimento di una plusvalenza di E. 20.142.510.000 e successivamente ancora
blocchi di azioni FRETTE comportanti il conseguimento di una plusvalenza di C. 21,9 mm,
vendite non rispondenti a logica di impresa, effettuate in prossimità della chiusura degli
esercizi 2000/2001, costituenti meri “portage” finalizzati ad enfatizzare artificiosamente
il bilancio di FIN.PART) ed allorché il suo socio di maggioranza (la famiglia FACCHINI)

nella fallita, ideavano ed eseguivano un aumento di capitale per l’importo di 100 milioni
di C. sottoscritto da:
– LAFICO per 30 milioni di C, sottoscrizione che non portava risorse alla FIN.PART ma
veniva spesa: per 10 milioni nella sottoscrizione del capitale OLCESE S.p.A.; per 13,9
milioni nell’impiego di cui al capo che precede;
– Gianluigi FACCHINI per 30 milioni, sottoscrizione effettuata senza disporre di risorse
patrimoniali ma assumendo ulteriore debito verso la detta Banca;
– VELA FINANCIAL HOLDING per 40 milioni di C, sottoscrizione finanziata dalla Banca
suddetta, senza garanzie da parte dell’apparente sottoscrittrice che assumeva, non
diversamente da FACCHINI, la qualità di socio debole e privo di risorse da impiegare in
FIN. PART,
così operando:
• aumentavano fittiziamente il capitale sociale, quanto meno per 30 milioni su 100;
• indebolivano la posizione del socio di maggioranza FACCHINI, che risultava ancora più
indebitato di prima dell’aumento di capitale;
• facevano acquisire una importante quota societaria ad un soggetto -VFH- privo dei
mezzi per fronteggiare le esigenze di FIN.PART;
• costituivano in capo alla BANCA POPOLARE DI INTRA la posizione di socio occulto di
controllo oltre che di maggior creditore;
• finalmente, conseguivano l’effetto di paralizzare l’operatività di FIN.PART,
cagionandone l’inevitabile fallimento.”

3.2. Il deducente sostiene, in particolare, che vi sarebbe omessa motivazione in
ordine all’elemento oggettivo del reato da parte della Corte territoriale, che non avrebbe
“effettuato la distinzione cui pure si era giunti in primo grado a proposito del fatto accertato
che la condotta non era da individuarsi tra quelle che avevano cagionato il fallimento, bensì
tra quelle che, a dire del P.M. …., ne avevano aggravato lo stato passivo, con ciò
definitivamente mutando l’originaria accusa contenuta nel capo di imputazione per come
precisamente riconosciuto nella prima sentenza.”
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era indebitato verso la predetta Banca al punto da non avere più risorse da immettere

Il ricorrente ha quindi puntato l’attenzione su quanto reiteratamente sostenuto in
dibattimento ovvero che “l’aumento del capitale è stato reale (i soldi sono effettivamente
entrati nelle casse della società) e che Io stesso non può, in alcun modo, aver cagionato il
fallimento di FIN.PART”.
In effetti con le doglianze articolate nel ricorso il BRUMANA ha reiterato ancora una volta
quelle proposte in appello, finalizzate -come si dirà anche più avanti- ad una inammissibile
rilettura delle risultanze processuali.
Già con l’impugnazione della sentenza di primo grado il ricorrente, dopo avere fatto

CERRUTI, alle considerazioni in proposito svolte dal curatore circa le condizioni della società
all’epoca e all’intervento di LIVOLSI), aveva sostenuto che l’intervento della BANCA DI
INTRA si era collocato in un momento successivo all’operazione di aumento del capitale,
riguardando esclusivamente l’assunzione del consorzio di garanzia creato in parallelo, sicché
errate sarebbero le conclusioni dei giudici di merito circa l’efficacia (con)causale di
quell’operazione rispetto al dissesto e la “parziale fittizietà” dell’aumento di capitale, sul
rilievo che nel caso di specie non ricorre alcuna delle ipotesi previste dall’art. 2632 cod.civ. e
che tutto l’importo dell’aumento fu versato nelle casse della fallita.
Inoltre, per quanto concerne l’aumento di capitale attuato mediante gli assegni di POLETTI, il
ricorrente aveva assunto che in concreto non v’era stata alcuna distrazione, ma piuttosto un
arricchimento del patrimonio societario con immissione di liquidità impiegate poi per far
fronte alla scadenza del prestito obbligazionario.

3.3. A fronte di doglianze svolte nei termini sopra precisati, si rileva che nella
sentenza di appello è stata resa esaustiva motivazione, esente da vizi logici e di metodo.
La Corte territoriale ha dato ampio conto delle risultanze processuali utili per ricostruire la
vicenda (pagg. 18 – 56) , riportando testualmente anche i verbali delle testimonianze e
delle altre prove ritenute utili, con una tecnica (censurata genericamente dal ricorrente
come semplice “copia – incolla”) di riproduzione alla lettera di ampi stralci della parte motiva
anche della sentenza di primo grado, che però manifesta una autonoma rielaborazione del
giudice di appello proprio al fine di dare adeguata risposta alle doglianze proposte
dall’appellante (arg. a contrario da Sez. 4, n. 7031 del 05/02/2013, Conti, Rv. 254937; Sez.
5, n. 8343 del 24/10/2012, E. e altri, Rv. 254651).
Peraltro, il pur corposo ricorso proposto nell’interesse del BRUMANO non muove specifiche
censure ai passaggi motivazionali della sentenza di appello, limitandosi a doglianze che
finiscono per essere di carattere generale sulla insussistenza di prove a suo carico.
Nella sentenza in esame, invece, è stata operata una puntuale ricostruzione dei fatti,
proprio attraverso l’analisi delle risultanze processuali, con un ragionamento logico ed
esente da vizi di travisamento della prova.

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riferimento alle vicende della società fallita (e, in particolare, all’acquisizione del gruppo

Dopo aver dato atto dei passaggi essenziali delle vicende della società fallita FIN.PART, con
particolare attenzione agli ultimi anni di vita, la sentenza d’appello ha analizzato
specificamente le operazioni dolose cui partecipò il BRUMANA, dando conto in maniera
ragionata delle risultanze analizzate e concludendo con le seguenti considerazioni (pag. 46
della sentenza)
«In definitiva, alla stregua del materiale probatorio raccolto risulta provato che:
V BPI, con il proprio “anomalo intervento”, finanziò VFH “senza alcuna garanzia e
costituendo di fatto un pegno sulle azioni FIN.PART”….;

integralmente versato è palesemente infondata;
v anche per questa parte dell’aumento di capitale le modalità di attuazione non produssero
alcun arricchimento per FIN.PART, che, per contro, ne risultò danneggiata».
Si tratta di valutazioni scaturenti da una ricostruzione delle vicende non sindacabile in sede
di legittimità e che evidenziano la sussistenza dell’elemento oggettivo del reato come
contestato.
Peraltro, la Corte territoriale ha analizzato in maniera puntuale e precisa lo specifico ruolo
svolto dal BRUMANA, rilevando che <

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