Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 41004 del 05/05/2015


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 41004 Anno 2015
Presidente: MARASCA GENNARO
Relatore: POSITANO GABRIELE

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
MAMELI GIOVANNI N. IL 27/01/1954
avverso la sentenza n. 458/2014 CORTE APPELLO di CAGLIARI, del
25/11/2014
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 05/05/2015 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. GABRIELE POSITANO
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott.
che ha concluso per

Udito, per la parte civile, l’Avv
Udit i difensor Avv.

Data Udienza: 05/05/2015

Il Procuratore generale della Corte di Cassazione, dr Marilia Di Nardo, conclude chiedendo il
rigetto del ricorso
RITENUTO IN FATTO
1. Il difensore di Mameli Giovanni propone ricorso per cassazione contro la sentenza
pronunciata dalla Corte d’Appello di Cagliari, il 25 novembre 2014, che confermava la
sentenza del 21 gennaio 2013 con la quale il Tribunale di Oristano aveva accertato la
responsabilità penale dell’imputato per il delitto previsto dagli articoli 61 n. 11 e 479 del
codice penale per avere, nella qualità di responsabile del servizio amministrativo del
Comune di Zefaliu, nominato dal giudice tutelare protutore dell’interdetto, Uda Gabriele,
falsamente attestato, nel rendiconto presentato al magistrato, la regolarità contabile del
libretto dell’assistito e l’avvenuto pagamento delle rette di ricovero presso la casa di
cura dove era degente. Con la stessa decisione la Corte territoriale riteneva la
continuazione tra il reato per il quale si procede e quello giudicato con sentenza
irrevocabile della Corte d’Appello di Cagliari del 3 novembre 2011, determinando
l’aumento di pena di un mese e giorni 15 di reclusione.
2. Con il ricorso il difensore lamenta:

violazione dell’articolo 479 del codice penale contestando la sussistenza della qualità di
pubblico ufficiale in capo all’imputato, ricorrendo, al più l’ipotesi dell’articolo ‘46,
aggravata ai sensi dell’articolo 61 n. 9 del codice penale;

vizio di motivazione non avendo Corte territoriale valutato adeguatamente la
dipendenza dell’imputato dal gioco d’azzardo e la confessione resa alle autorità
competenti;

violazione dell’articolo 81 del codice penale, atteso il mancato assorbimento della
fattispecie prevista all’articolo 479 del codice penale nel più grave reato di peculato
oggetto della precedente decisione passata in giudicato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
La sentenza impugnata non merita censura.

1. Con il primo motivo il difensore lamenta la violazione dell’articolo 479 del codice penale
contestando la sussistenza della qualità di pubblico ufficiale in capo all’imputato,
ricorrendo, al più, l’ipotesi dell’articolo ‘46, aggravata ai sensi dell’articolo 61 numero 9
del codice penale.
2. Il motivo è infondato. La Corte territoriale ha correttamente richiamato le considerazioni
espresse dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 141 del 2014 che si è pronunziata
rigettando il ricorso proposto dallo stesso Mameli per il reato di peculato, rispetto al

quale il reato di falso, oggetto del presente procedimento, si pone in una posizione di
reato mezzo.
3. E’ pertanto sufficiente richiamare quanto osservato da questa Corte in quella sede
rilevando che il tutore dell’incapace esercita una funzione pubblica, la quale rileva anche
se espletata in assenza di una designazione formale (purché non usurpata). Nel caso di
specie le condotte sono state commesse quando il ricorrente aveva assunto la veste
formale di protutore e, in materia di esercizio di fatto della funzione pubblica, la

pubblica rappresentativa, o di uno status connesso al rapporto di impiego con lo Stato
od altro ente pubblico. Rileva piuttosto che, fuori dai casi di usurpazione, e dunque in
una situazione (almeno) di tolleranza da parte dell’amministrazione, il soggetto preso in
considerazione abbia di fatto esercitato funzioni che, alla stregua delle regole correnti di
qualificazione, possano essere definite pubbliche (Sez. 6, Sentenza n. 34086 del
26/06/2013, rv. 257035).
4. È già stato affermato, in particolare, che deve riconoscersi la qualifica pubblicistica in
capo al coadiutore del soggetto titolare dell’incarico cui formalmente si connette la
funzione, proprio in quanto, nel concorso delle pertinenti condizioni, egli risponde quale
funzionario di fatto (Sez. 6, Sentenza n. 28125 del 02/07/2010, rv. 247788).
5. Anche in quella sede il difensore aveva sostenuto la non assimilabilità della figura del
tutore a quella di un pubblico ufficiale facendo riferimento ad una risalente pronuncia di
questa Corte, concernente appunto l’appropriazione di beni appartenenti all’incapace,
per la quale si era negata la qualifica di malversazione (art. 315 cod. pen., abrogato nel
1990) in quanto il tutore non dispiegherebbe un servizio di utilità collettiva, ma sarebbe
preposto alla tutela di interessi privatistici riferibili alla persona interdetta (Sez. 2,
Sentenza n. 5878 del 08/03/1974, rv. 127872).
6. Si tratta di una soluzione non condivisibile, a maggior ragione dopo la L. n. 86 del 1990,
e comunque a fronte della netta evoluzione dell’ordinamento verso una concezione
“oggettiva” della funzione pubblica e del relativo esercente, il cui “indice rivelatore … va
ricercato nella disciplina normativa dell’attività da esso svolta, disciplina che deve
evidenziare finalità di interesse pubblico” (Sez. U., Sentenza n. 32009 del 27/06/2006,
Schera, rv. 234214). In tempi più recenti questa Corte, ribaltando l’orientamento
invocato dal ricorrente, ha già osservato che il tutore esercita nel proprio ruolo una
potestà di certificazione, significativamente svolta nell’ambito di un procedimento a
carattere giurisdizionale, che svela per la stessa sua struttura la natura pubblicistica
degli interessi coinvolti (Sez. 6, Sentenza n. 27570 del 16/04/2007, rv. 237604).

6

giurisprudenza ha affermato l’irrilevanza dell’investitura formale e regolare di una carica

7. Va ribadito, a riguardo, che compete al tutore, sotto giuramento, il compito di compilare
un inventario dei beni dell’incapace (artt. 362 e 363 cod. civ.) e di tenere una
contabilità che va sottoposta annualmente al giudice tutelare (art. 380). Può
aggiungersi che lo stesso tutore deve dichiarare rapporti di debito e credito con
l’incapace (artt. 367 e 368 cod. civ.), e rendere un conto finale quando cessa dalle
proprie funzioni (art. 385 e segg. cod. civ.). Si tratta di norme inderogabili, con le
caratteristiche proprie degli istituti di diritto pubblico, a disciplina di una funzione che

capaci di gestire i propri affari.
8. Il tutore esercita, nei confronti dell’incapace, un potere autoritativo, del quale è investito
non in ragione del diritto dei minori e della famiglia, ma proprio in quanto esercente una
pubblica funzione nell’interesse della collettività. Il minore, in particolare, gli deve
“rispetto e obbedienza”, ed in ogni caso è soggetto alla sua autorizzazione per lasciare
la casa in cui è stabilito debba vivere, con possibilità per lo stesso tutore di
“richiamarvelo”, anche a mezzo dell’autorità pubblica (art. 358 cod. civ.). Il minore è
inoltre necessariamente rappresentato dal tutore (art. 357 cod. civ.) e le norme sulla
tutela dei minori si applicano anche per le tutele concernenti gli interdetti (art. 424 cod.
civ.).
9. I Giudici di merito, nel primo grado di giudizio e nel secondo, con motivazione
giudicamente corretta hanno richiamato la consuetudine amministrativa, conclamata in
quanto tale, in base alla quale Manneli aveva per molti anni in via di fatto gestito il
patrimonio degli amministrati espletando le tipiche funzioni cui il tutore è chiamato
riguardo a persone affidate ad istituti di cura.
10.Con il secondo motivo la difesa deduce vizio di motivazione per non avere, la Corte
territoriale, valutato adeguatamente la dipendenza dal gioco d’azzardo dell’imputato e
la confessione resa alle autorità competenti;
11.La censura è inammissibile, poiché pertinente al merito della decisione impugnata e,
comunque, del tutto generica.
12.11 ricorrente ha sostanzialmente ripetuto i motivi d’appello sul punto, senza specificare
se aveva fatto questione di imputabilità dell’interessato, oppure di integrazione del dolo
punibile, o ancora e soltanto di motivi a delinquere, per i possibili riflessi in punto di
determinazione della pena. Tutto ciò senza minimamente confrontarsi con la risposta
che la Corte territoriale ha espresso circa l’appello sul punto.
13.Già nella sentenza impugnata si rilevava come, pur allegando la patologia indicata, la
difesa non avesse compiuto alcuna richiesta specifica, e che, dunque, poteva /.
apprezzarsi la questione (puntualmente presa in considerazione) solo in sede di

l’ordinamento appresta nell’interesse pubblico alla tutela delle persone che non sono

quantificazione della pena. Nonostante la puntuale segnalazione dell’ininfluenza di una
prospettazione tanto generica, come si è visto, il vizio riguarda anche il ricorso di
legittimità. D’altra parte la motivazione riguardava condotte metodicamente reiterate
per anni ed anni e promesse di restituzione mai attuate.
14. Sotto tale profilo la Corte territoriale ha preso espressamente in considerazione quanto
segnalato oggi in ricorso facendo riferimento alla immediata ammissione dei fatti da

determinando l’aumento di pena in misura minima.
15.Con il terzo motivo la difesa lamenta violazione dell’articolo 81 del codice penale atteso
il mancato assorbimento della fattispecie prevista all’articolo 479 del codice penale nel
più grave reato di peculato oggetto della precedente decisione passata in giudicato.
16. Sussiste il concorso materiale e non l’assorbimento tra il reato di falso ideologico in atto
pubblico e quello di abuso d’ufficio, in quanto offendono beni giuridici distinti; il primo,
infatti, mira a garantire la genuinità degli atti pubblici, il secondo tutela l’imparzialità e il
buon andamento della pubblica amministrazione. Pertanto, mentre tra gli stessi ben può
sussistere nesso teleologico (in quanto il falso può essere consumato per commettere il
delitto di cui all’art. 323 cod. pen.), la condotta dell’abuso d’ufficio certamente non si
esaurisce in quella del delitto di falso in atto pubblico nè coincide con essa. (Sez. 2, n.
5546 del 11/12/2013 – dep. 04/02/2014, Cuppari, Rv. 258205). Su questione del tutto
analoga questa Corte ha precisato che tale concorso sussiste nel caso, ad esempio, di
false attestazioni in ordine alla regolarità di richieste di rimborso inoltrate da cliniche
convenzionate cui consegua l’erogazione di indebiti compensi, in quanto, in tal caso, il
falso è destinato ad occultare l’abuso (Sez. 5, n. 1491 del 15/11/2005 – dep.
16/01/2006, Cavallari ed altri, Rv. 233044).
17.Alla pronuncia di rigetto consegue ex art. 616 cod. proc. pen, la condanna del ricorrente
al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 5/05/2015

parte dell’imputato alle particolari condizioni che hanno giustificato il suo agire,

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