Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 40885 del 10/12/2014


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 40885 Anno 2015
Presidente: CHIEFFI SEVERO
Relatore: TARDIO ANGELA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
DI MARTINO FABIO, nato il 01/04/1987
avverso l ‘ordinanza n. 2188/2014 TRIBUNALE LIBERTÀ di NAPOLI
del 22/07/2014;

sentita la relazione fatta dal Consigliere dott. Angela Tardio;
sentite le conclusioni del Procuratore Generale dott. Paolo Canevelli,
che ha chiesto dichiararsi l ‘ inammissibilità del ricorso;
preso atto che nessuno è comparso per il ricorrente.

Data Udienza: 10/12/2014

RITENUTO IN FATTO

1. Con ordinanza del 22 luglio 2014 il Tribunale di Napoli, costituito ai sensi
dell’art. 310 cod. proc. pen., ha rigettato l’appello proposto nell’interesse di Di
Martino Fabio avverso l’ordinanza del 20 marzo 2014, con la quale la Corte di
appello di Napoli aveva respinto la richiesta di revoca ovvero di sostituzione della
misura della custodia cautelare in carcere, che era in atto nei suoi confronti.

– l’appellante era sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere
per il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen, in relazione alla sua partecipazione al
clan D’Alessandro, e per il reato di cui all’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990, in
relazione alla operata illecita coltivazione di una piantagione da cui era possibile
ricavare circa settantacinque chilogrammi di sostanza stupefacente del tipo
marijuana, oltre a cinque piantagioni da cui era possibile ricavare ottanta
chilogrammi della medesima sostanza;
– la condanna dell’appellante per detti reati era stata parzialmente riformata
in appello, essendosi ridotta la pena già fissata in anni nove di reclusione a
quella di anni sette e mesi quattro di reclusione, previa esclusione
dell’aggravante di cui all’art. 80 d.P.R. n. 309 del 1990;
– la persistenza delle già individuate esigenze cautelari trovava riscontro
nella gravità dei fatti contestati e nella notevole capacità criminale espressa
dall’appellante, nonostante la sua giovane età e la sua incensuratezza;
– né il periodo di tempo già sofferto in vinculis era sproporzionato rispetto
alla pena irroganda e vi era adeguatezza della misura in corso rispetto alla
gravità del reato;
– era anche operativa la presunzione assoluta di adeguatezza dell’unica
misura custodiale in carcere ai sensi dell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen.,
essendo l’appellante sottoposto a misura cautelare per entrambi i titoli di reato,
senza che fossero stati prodotti nel suo interesse elementi da cui dedurre la sua
definitiva rescissione dal clan di appartenenza o il venir meno della
organizzazione criminale;
– tali rilievi facevano ritenere assorbita ogni valutazione in ordine agli altri
motivi di appello relativi alla pronuncia di incostituzionalità della legge

“Fini-

Giovanardi” e alla eventuale rideterminazione della pena, ai sensi della legge
“Iervolino-Vassalli” per il reato in materia di droga, poiché, a prescindere dalla

entità della pena definitiva per detto reato, la presunzione di cui all’art. 275,
comma 3, cod. proc. pen. non consentiva valutazioni diverse sul pericolo di
recidiva e sulla misura da applicare, che per il reato associativo non poteva
essere meno afflittiva della già imposta custodia in carcere.
2

Il Tribunale rilevava, a ragione della decisione, che:

2. Avverso detta ordinanza ha proposto ricorso per cassazione, tramite il
difensore di fiducia avv. Giovanni Esposito Fariello, l’interessato Di Martino, che
ne chiede l’annullamento sulla base di unico motivo, con il quale denuncia
inosservanza ed erronea applicazione della legge processuale penale con
riferimento alla ritenuta sussistenza delle esigenze cautelari estreme, nonostante
la prospettazione analitica di plurimi indicatori tali da far ritenere vinta e
superata la presunzione di cui all’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., e con

con la pena irroganda, e carenza, insufficienza e comunque contraddittorietà
della motivazione, risultante dal testo dell’ordinanza impugnata, dalla istanza
originaria e dall’appello, ai sensi degli artt. 606, comma 1, lett. b) ed e), e 311
cod. proc. pen., in relazione agli artt. 274, 275, commi 1, 2 e 3, 275-bis, 284,
285, 597 cod. proc. pen., e agli artt. 416-bis cod. pen. e 73 d.P.R. n. 309 del
1990.
Secondo il ricorrente, che richiama la sua vicenda cautelare, la dichiarazione
dì incostituzionalità della legge “Fini-Giovanardi”, che parificava le droghe c.d.
pesanti a quelle c.d. leggere soprattutto in punto di pena, e la speculare
riespansione della legge “Iervolino-Vassalli”, che, invece, prevede un discrimen
tra le stesse, ridondano sul rispetto del principio di proporzionalità della misura
cautelare alla pena in concreto irroganda e sulla valutazione delle esigenze
cautelari da soddisfare nel caso concreto, poiché la pena sarà diversamente
“dosimetrata”,

egli è giovanissimo e incensurato, è stato detenuto

interrottamente dall’ottobre 2010, la sua partecipazione al clan di riferimento è
stata assolutamente occasionale, episodica, marginale e temporizzata, e
potrà godere, in sede esecutiva, dei benefici penitenziari per effetto della
scissione del cumulo, avendo già espiato la pena per il delitto associativo
ostativo.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso, manifestamente infondato o generico nelle proposte censure, è
inammissibile.

2.

Deve premettersi che alle esigenze cautelari è esteso il limite del

sindacato dì legittimità, costantemente affermato in questa sede riguardo alla
gravità degli indizi (tra le altre, Sez. U, n. 11 del 22/03/2000, dep. 02/05/2000,
Audino, Rv. 215828, e, tra le ultime, Sez. 1, n. 1842 del 11/11/2010, dep.
21/01/2011; Sez.1, n. 2687 del 17/11/2010, dep. 26/01/2011, non nnassinnate),
poiché è compito primario ed esclusivo del Giudice che ha applicato la misura o

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riferimento alla osservanza del principio di proporzionalità della misura in atto

che deve valutare il suo mantenimento e del Tribunale del riesame valutare “in
concreto”

le condizioni soggettive dell’indagato in relazione alle esigenze

cautelari e rendere un’adeguata e logica motivazione al riguardo (Sez. 1, n. 1083
del 20/02/1998, dep. 14/03/1998, Martorana, Rv. 210019), mentre spetta a
questa Corte il compito di verificare, in relazione alla peculiare natura del
giudizio di legittimità e ai limiti che a esso ineriscono, se il giudice di merito
abbia dato adeguatamente e congruamente conto delle ragioni poste a
fondamento della decisione.
2.1. Si deve inoltre rilevare in diritto, avuto riguardo alle ragioni di doglianza

poste dal ricorrente a fondamento del ricorso, che questa Corte ha più volte
affermato che il principio di proporzionalità, enunciato dall’art. 275, comma 2,
cod. proc. pen., correttamente interpretato, stabilisce che il giudice valuti la
ragionevolezza del permanere della limitazione della libertà in relazione al tipo
della misura applicata, alla relativa durata in rapporto alla sanzione irrogata o
irroganda in caso di condanna e alla entità del fatto, senza limitarsi al solo
criterio aritmetico della corrispondenza della durata della misura a una
percentuale della condanna inflitta o irroganda nel giudizio di merito e senza
preternnettere, in una valutazione globale e complessiva della vicenda cautelare,
l’analisi delle circostanze di fatto e delle ragioni di diritto che legittimano il
mantenimento e la protrazione della custodia cautelare (tra le altre, Sez. 1, n.
35417 del 19/09/2007, dep. 04/10/2007, P.G. in proc. Alvarado Gallegos, Rv.
237896; Sez. 1, n. 44364 del 18/11/2008, dep. 27/11/2008, P.G. in proc.
Monfardini, Rv. 242038; Sez. 5, n. 21195 del 12/02/2009, dep. 20/05/2009,
Occhipinti, Rv. 243936).
Quando interviene una sentenza di condanna, benché impugnata, il limite
insuperabile di durata della custodia cautelare in carcere è determinato dalla
entità della sanzione irrogata dal giudice di merito, atteso che l’art. 300, comma
4, cod. proc. pen. dispone che “la custodia cautelare perde … efficacia quando è
pronunciata sentenza di condanna ancorché sottoposta a impugnazione, se la
durata della custodia già subita non è inferiore all’entità della pena irrogata”.

Entro tale limite il principio di proporzionalità deve orientare la valutazione della
persistenza delle esigenze cautelari per soddisfare le quali era stata applicata la
custodia cautelare (Sez. 4, n. 35713 del 10/07/2007, dep. 28/09/2007 P.G. in
proc. Mohamed e altro, Rv. 237460).
2.2. Tali principi sono stati ripresi e ribaditi dalle Sezioni unite di questa
Corte (Sez. U, n. 16085 del 31/03/2011, dep. 22/4/2011, P.M. in proc. Khalil,
Rv. 249323), che hanno rimarcato in parte motiva, con diffuso richiamo al
percorso argomentativo tracciato dalla Corte costituzionale (sent. n. 265 del
2010) e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (sent. 02/07/2009, in proc.
Vafladis contro Grecia, e 08/11/2007, in proc. Lelièvre contro Belgio), che il
4

g-

principio di proporzionalità, al pari di quello di adeguatezza di cui all’art. 275,
comma 2, cod. proc. pen., opera come parametro di commisurazione delle
misure cautelari alle specifiche esigenze ravvisabili nel caso concreto, tanto al
momento della scelta e della adozione del provvedimento coercitivo, che per
tutta la durata dello stesso, imponendo una costante verifica della perdurante
idoneità di quella specifica misura a fronteggiare le esigenze che concretamente
permangano o residuino, secondo il principio della minore compressione possibile
della libertà personale.

interventi della Corte costituzionale, che hanno dichiarato la illegittimità
costituzionale dell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., in rapporto alla
presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia in carcere con riguardo a
taluni delitti a sfondo sessuale (sent. n. 265 del 2010), al delitto di omicidio
volontario (sent. n. 164 del 2011), al delitto di associazione finalizzata al traffico
illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope (sent. n. 231 del 2011), ad alcune
figure di favoreggiamento delle immigrazioni illegali (sent. n. 331 del 2011), al
delitto di associazione finalizzata allo scopo di commettere i delitti previsti dagli
artt. 473 e 474 cod. pen. (sent. n. 110 del 2012), e ai delitti commessi
avvalendosi del

“metodo mafioso”

o al fine di agevolare l’attività delle

associazioni di tipo mafioso (sent. n. 57 del 2013), il regime cautelare speciale e
la presunzione assoluta che lo sostiene permangono con riguardo al delitto di
partecipazione di cui all’art. 416-bis cod. pen., che implica necessariamente un
vincolo di appartenenza permanente a un’associazione di tipo mafioso.

3. Il Tribunale, che ha ripercorso le vicende poste a fondamento della misura
coercitiva inframuraria, disposta -per il reato associativo di cui all’art. 416-bis
cod. pen. e per il reato di illecita coltivazione di piantagioni produttive di
sostanza stupefacente del tipo marijuana- a carico del ricorrente, poi condannato
all’esito del giudizio di secondo grado, in parziale riforma -in punto pena- della
sentenza di primo grado, alla pena di anni sette e mesi quattro di reclusione e di
euro diciottomila di multa, ha rigettato l’appello cautelare, condividendo il
diniego opposto dalla Corte di appello, quale giudice procedente, alla richiesta di
revoca ovvero di sostituzione della misura in corso, dando conto delle ragioni
della propria decisione con adeguate argomentazioni, logicamente congruenti
alle evidenze disponibili e coerenti in diritto con i richiamati condivisi principi di
diritto e con l’oggetto e i limiti del suo sindacato.
3.1. Il Tribunale, che ha preliminarmente ricordato la duplicità dei titoli di
reato cui atteneva la misura cautelare in atto, ha ritenuto, in particolare, che un
sicuro fondamento della prognosi cautelare del pericolo di reiterazione criminosa
del ricorrente, nonostante la sua giovane età e la sua incensuratezza, andasse

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2.3. Deve anche rilevarsi, sotto concorrente profilo, che, a seguito degli

ravvisato nella gravità dei fatti ascritti, emergente dai contenuti delle
concordanti sentenze di condanna, e nella capacità criminale attestata dalla
condotta tenuta nella coltivazione di piante che producevano quantitativi di
marijuana superiori, nel complesso, a centocinquanta chilogrammi, e nella
partecipazione al clan D’Alessandro.
Anche le affermazioni spese dal Tribunale nel ritenere non inadeguata la
misura e non sproporzionato il periodo sofferto dal ricorrente in stato carcerario
rispetto alla pena irroganda, esprimono, con criteri di plausibile persuasività, le

carcere, avendo il Tribunale correttamente anche rilevato la vigenza nei confronti
del ricorrente, sottoposto a misura cautelare per duplice titolo di reati, della
presunzione assoluta di adeguatezza dell’unica misura custodiale carceraria
secondo il regime di cui all’art. 275, comma 3, cod. proc. pen.
Con esaustivo percorso logico, che si corrobora di ulteriori coerenti
notazioni, correlate alla omessa produzione da parte della difesa di elementi
dimostrativi dell’essere venuta meno l’organizzazione di appartenenza o
dell’essersi rescissi i rapporti con essa del ricorrente, il Tribunale ha
ulteriormente rappresentato che l’operatività della indicata presunzione, in
presenza del reato di cui all’art. 416-bis cod. pen., assorbe -poiché non
consente, a prescindere dalla pena definitiva da irrogarsi, un diverso
apprezzamento del pericolo di recidiva e della misura da applicare- ogni diversa
considerazione in ordine alla incidenza, ai fini cautelari, della pronuncia di
incostituzionalità (con sent. n. 32 del 2015) degli artt. 4-bis e 4-vicies ter d.l. n.
272 del 205, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 49 del 2006, e della
intervenuta reviviscenza dell’antecedente testo, con conseguente
ridimensionamento del regime sanzionatorio detentivo.
3.2. Tali valutazioni resistono alle censure del ricorrente che, omettendo la
doverosa correlazione con le ragioni della decisione, funzionale alla loro specifica
e puntuale critica, si limitano al rilievo della refluenza della pronuncia di
incostituzionalità sulla diversa, e più favorevole, dosimetria finale della pena e
sulla proporzionalità rispetto a essa della misura cautelare, e si risolvono, quanto
all’altro titolo di reato, il cui regime è stato giudicato assorbente, in generiche
censure di merito, volte a ottenere, contestando l’intraneità del ricorrente al
sodalizio e ridimensionandone l’apporto, una rilettura aspecifica di circostanze
fattuali, non devoluta al Tribunale del riesame ed estranea ai motivi
legittimamente consentiti con il ricorso per cassazione.

4. Alla declaratoria d’inammissibilità del ricorso segue, ex art. 616 cod. proc.
pen., non potendosi escludere che essa sia ascrivibile a colpa del ricorrente
(sent. n. 186 del 2000 Corte cost.), la condanna del medesimo al pagamento
6

ragioni giustificative della scelta della conferma della custodia cautelare in

Trasmessa copia ex art. 23
ni i ter L. 8 • 8-9Q n. 332
. 2 OTT 205

ama,

delle spese del procedimento nonché al versamento di una somma in favore
della Cassa delle ammende, che si fissa equitativamente, in ragione dei motivi
dedotti, nella misura di euro mille.
La Cancelleria dovrà provvedere all’adempimento prescritto dall’art. 94,
comma 1-ter, disp. att. cod. proc. pen.

P.Q.M.

spese processuali e al versamento della somma di euro mille in favore della
Cassa delle ammende.
Dispone trasmettersi, a cura della Cancelleria, copia del provvedimento al
Direttore dell’Istituto penitenziario, ai sensi dell’art. 94, comma

1-ter, disp. att.

cod. proc. pen.
Così deciso in Roma, il 10 dicembre 2014

Il Consigliere estensore

Il Presidente

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle

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