Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 40796 del 23/06/2015


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Penale Ord. Sez. 7 Num. 40796 Anno 2015
Presidente: DIOTALLEVI GIOVANNI
Relatore: BELTRANI SERGIO

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:
NDIAYE CHEIKH N. IL 14/08/1963
avverso la sentenza n. 711/2009 CORTE APPELLO di CATANIA, del
08/10/2013
dato avviso alle parti;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. SERGIO BELTRANI;

Data Udienza: 23/06/2015

RITENUTO IN FATTO E CONSIDERATO IN DIRITTO

L’imputato NDIAYE CHEIKH, in atti generalizzato, ricorre contro la sentenza
indicata in epigrafe (che ne ha confermato la condanna per i reati ascrittigli alla
pena ritenuta di giustizia), lamentando plurimi vizi di motivazione.
All’odierna udienza camerale, celebrata ex art. 611 c.p.p., si è preso atto
della regolarità degli avvisi di rito; all’esito questa Corte Suprema ha deciso

Il ricorso è integralmente inammissibile perché assolutamente privo di
specificità in tutte le sue articolazioni (reiterando, più o meno
pedissequamente, censure già dedotte in appello e già non accolte: Sez. IV,
sentenza n. 15497 del 22 febbraio – 24 aprile 2002, CED Cass. n. 221693; Sez.
VI, sentenza n. 34521 del 27 giugno – 8 agosto 2013, CED Cass. n. 256133),
del tutto assertivo e, comunque, manifestamente infondato, a fronte dei rilievi
con i quali la Corte di appello – con argomentazioni giuridicamente corrette,
nonché esaurienti, logiche e non contraddittorie, e, pertanto, esenti da vizi
rilevabili in questa sede – ha motivato:

– l’affermazione di responsabilità in ordine ai reati ritenuti valorizzando
l’accertata disponibilità delle res contraffatte in contestazione. In tal modo, la
Corte di appello si è correttamente conformata – quanto alla qualificazione
giuridica dei fatti accertati – al consolidato orientamento di questa Corte di
legittimità (da ultimo, Sez. V, sentenza n. 5260 dell’Il dicembre 2013, dep. 3
febbraio 2014, CED Cass. n. 258722), per la quale integra il delitto di cui all’art.
474 cod. pen. la detenzione per la vendita di prodotti recanti marchio
contraffatto senza che abbia rilievo la configurabilità della contraffazione

grossolana, considerato che l’art. 474 cod. pen. tutela, in via principale e
diretta, non già la libera determinazione dell’acquirente, ma la fede pubblica,
intesa come affidamento dei cittadini nei marchi e segni distintivi, che
individuano le opere dell’ingegno e i prodotti industriali e ne garantiscono la
circolazione anche a tutela del titolare del marchio; si tratta, pertanto, di un
reato di pericolo, per la cui configurazione non occorre la realizzazione
dell’inganno non ricorrendo quindi l’ipotesi del reato impossibile qualora la
grossolanità della contraffazione e le condizioni di vendita siano tali da
escludere la possibilità che gli acquirenti siano tratti in inganno. Si è anche
chiarito (Sez. II, sentenza n. 12452 del 4 marzo 2008, CED Cass. n. 239745)
che il delitto di ricettazione (art. 648 cod. pen.) e quello di commercio di
prodotti con segni falsi (art. 474 cod. pen.) possono concorrere, atteso che le

come da dispositivo in atti.

fattispecie incriminatrici descrivono condotte diverse sotto il profilo strutturale e
cronologico, tra le quali non può configurarsi un rapporto di specialità, e che
non risulta dal sistema una diversa volontà espressa o implicita del legislatore;
– il diniego dell’attenuante di cui all’art. 62 n. 4 c.p. valorizzando (oltre al
rilevante numero della merce contraffatta) il già avvenuto riconoscimento
(anche in considerazione del valore del bene) dell’attenuante di cui all’art. 648,
comma 2, c.p., correttamente conformandosi all’orientamento di questa Corte

della speciale tenuità del danno di cui all’art. 62, n. 4 cod. pen., può essere
riconosciuta nella sola ipotesi in cui l’attenuante di cui all’art. 648, comma
secondo, cod. pen., sia stata esclusa sotto il profilo della componente
soggettiva del fatto.

Con tali argomentazioni il ricorrente in concreto non si confronta
adeguatamente, limitandosi a riproporre una diversa “lettura” delle risultanze
probatorie acquisite, fondata su mere ed indimostrate congetture, senza
documentare nei modi di rito eventuali travisamenti.

Le ulteriori doglianze (sostituzione della pena da detentiva in pecuniaria,
rateizzazione della pena, non menzione) sono enunciate senza alcuna
argomentazione a sostegno, con la sola precisazione che «in astratto, il
ricorrente potrebbe goderne», che le rende all’evidenza inammissibili per
genericità; peraltro, non risulta esse avessero costituito oggetto di rituale ed in
parte qua ammissibile appello (il riepilogo dei motivi di gravame operato dalla
sentenza impugnata è, sul punto, del tutto silente, ed il ricorrente non muove
contestazioni sulla sua esaustività, limitandosi a lamentare genericamente
l’omessa motivazione sui predetti punti, senza richiamare gli – in ipotesi non
valutati – motivi).

Alla data della sentenza di appello (8.10.2013) non era ancora maturata la
prescrizione a torto invocata con riferimento al reato di cui al capo B), per
effetto di mesi 5 e giorni 18 di sospensione dei quali il ricorrente non tiene
conto.

Non può porsi in questa sede la questione della declaratoria della
prescrizione eventualmente maturata dopo la sentenza d’appello, in
considerazione della totale inammissibilità del ricorso. La giurisprudenza di
questa Corte ha, infatti, più volte chiarito che l’inammissibilità del ricorso per

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(Sez. II, sentenza n. 50066 del 2013), per il quale la circostanza attenuante

cassazione «non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e

preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non
punibilità a norma dell’art. 129 c.p.p.» (Cass. pen., Sez. un., sentenza n. 32
del 22 novembre 2000, CED Cass. n. 217266: nella specie, l’inammissibilità del
ricorso era dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi, e la prescrizione del
reato era maturata successivamente alla data della sentenza impugnata con il
ricorso; conformi, Sez. un., sentenza n. 23428 del 2 marzo 2005, CED Cass. n.
231164, e Sez. un., sentenza n. 19601 del 28 febbraio 2008, CED Cass. n.

La declaratoria di inammissibilità totale del ricorso comporta, ai sensi
dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese
processuali, nonché – apparendo evidente che egli ha proposto il ricorso
determinando la causa di inammissibilità per colpa (Corte cost., 13 giugno 2000
n. 186) e tenuto conto della rilevante entità di detta colpa – della somma di
Euro mille in favore della Cassa delle Ammende a titolo di sanzione pecuniaria.

P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali ed al versamento della somma di mille euro alla Cassa delle
ammende.
Così deciso in Roma, udienza camerale 23 giugno 2015

Il Compo nte estensore

Il

ente

239400).

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