Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 40768 del 05/05/2015


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 40768 Anno 2015
Presidente: TERESI ALFREDO
Relatore: ORILIA LORENZO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
LANCINI ANGELO N. IL 16/05/1955
avverso la sentenza n. 474/2014 CORTE APPELLO di MILANO, del
03/06/2014
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 05/05/2015 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. LORENZO ORILIA
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott.
che ha concluso per
frt

Udito, per la parte civile, l’Avv
Uditi difensor Avv. f)okio

Data Udienza: 05/05/2015

RITENUTO IN FATTO
La Corte di Appello di Milano con sentenza 3.6.2014 ha confermato la
colpevolezza di Lancini Angelo per avere omesso, quale legale rappresentante della
Pradimpex International srl, il versamento di ritenute certificate in relazione all’anno
di imposta 2008 (art. 10 bis D. Lgs n. 74/2000) per un importo di €. 101.468,21.
Per quanto ancora interessa in questa sede, la Corte d’Appello ha reputato
irrilevante, ai fini della sussistenza del dolo del reato, lo stato di insolvenza in cui
versava la società perché i fatti risalivano a due anni prima che intervenisse la

dichiarazione di fallimento. Ha altresì considerato che il precedente specifico relativo
all’anno di imposta 2005 (riportato per fatti avvenuti nel triennio precedente e nei
cinque anni anteriori al fallimento) era idoneo a dimostrare che il mancato
adempimento dei debiti verso l’Erario costituiva una pratica imprenditoriale abituale
(una forma alternativa di ricorso abusivo al credito da parte dell’imputato). Inoltre,
ha osservato che non risultavano interventi finanziari dell’imputato finalizzati a far
fronte alle evocate difficoltà.
Il merito al trattamento sanzionatorio, ha ritenuto congrua la pena di quattro
mesi di reclusione inflitta dal primo giudice negando la conversione della pena
detentiva in quella pecuniaria.
Ricorre per cassazione l’imputato personalmente denunziando due motivi.
CONSIDERATO IN DIRITTO
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1 Col primo motivo denunzia ai sensi dell’art. 606 comma 1 lett. e) cpp, la
manifesta illogicità della motivazione con riferimento alla sussistenza dell’elemento
soggettivo del dolo, ribadendo che l’omesso versamento è stato determinato dalle
condizioni critiche dell’azienda, sfociate nel fallimento intervenuto il 13.5.2010,
quindi circa nove mesi dopo la consumazione del reato avvenuta il 31.7.2009 (e non
dopo due anni, come erroneamente affermato dai giudici di appello). Ciò dimostra, a
dire del ricorrente, che già nel 2009 la società versava in condizioni pessime, tali da
non consentire di far fronte neppure ai debiti verso l’Erario: mancava dunque la
volontà di non adempiere.
Il motivo è infondato.
Con la L. 30 dicembre 2004, n. 311, art. 1, comma 414, è stato inserito nel
D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, l’art. 10 bis, che ora sanziona “chiunque non versa
entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto
di imposta ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti per un
ammontare superiore a cinquantamila euro per ciascun periodo di imposta”. La legge
richiede dunque, ai fini della sussistenza dell’illecito penale, il superamento della
soglia minima dell’omissione (fissata in a cinquantamila euro per ciascun periodo di
imposta).

2

v

Le Sezioni Unite hanno recentemente ribadito, all’esito di una approfondita
analisi della normativa tributaria e delle obbligazioni gravanti sul sostituto d’imposta,
che il reato di omesso versamento di ritenute certificate (D.Lgs. n. 74 del 2000, art.
10 bis) si consuma con il mancato versamento per un ammontare superiore ad Euro
cinquantamila delle ritenute complessivamente risultanti dalla certificazione rilasciata
ai sostituiti entro la scadenza del termine finale per la presentazione della
dichiarazione annuale (Sez. U, Sentenza n. 37425 del 28/03/2013, Favellato, Rv.
255759).

Ne consegue che il delitto di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 bis, è
strutturato come reato omissivo proprio istantaneo, posto che si consuma in
conseguenza del mancato compimento dell’azione dovuta, costituita dall’omesso
versamento, entro il termine fissato, delle ritenute risultanti dalla certificazione
rilasciata ai sostituiti dallo stesso contribuente.
L’elemento soggettivo è, poi, integrato dal dolo generico, richiedendosi la mera
consapevolezza della condotta omissiva (Sez. 3, Sentenza n. 25875 del 26/05/2010,
Olivieri, Rv. 248151) ed essendo dunque irrilevante il fine perseguito dall’agente non
richiedendosi, a differenza di altre fattispecie, che il comportamento illecito sia
dettato dalla scopo specifico di evadere le imposte. Il legislatore ha ritenuto dunque
di tutelare, reintroducendo la norma incriminatrice in questione, non qualsiasi tributo
non versato ma solo quelli dovuti all’erario e trattenuti dal contribuente e che, fin
dall’origine, avevano un preciso vincolo di destinazione.
Rispetto a tale quadro giuridico e normativo, sommariamente delineato, la
situazione di colui che non versa l’imposta si risolve, di regola, in una condotta,
cosciente e volontaria, la quale, in modo progressivo, si articola, in un primo
momento, con il mancato accantonamento delle somme trattenute; successivamente
con l’omesso versamento mensile secondo le cadenze previste dalla normativa
tributaria; ed infine con la prosecuzione della condotta omissiva fino al termine
ultimo fissato dalla norma penale.
Non può ovviamente escludersi, in astratto, che siano possibili casi – il cui
apprezzamento è devoluto al giudice del merito ed è, come tale, insindacabile in sede
di legittimità se congruamente motivato – nei quali possa invocarsi l’assenza del dolo
o l’assoluta impossibilità di adempiere all’obbligazione tributaria. È tuttavia
necessario che siano assolti gli oneri di allegazione che, per quanto attiene alla crisi
di liquidità, dovranno investire non solo l’aspetto della non imputabilità al sostituto di
imposta della crisi economica che improvvisamente avrebbe investito l’azienda, ma
anche la circostanza che detta crisi non possa essere adeguatamente fronteggiata
tramite il ricorso, da parte dell’imprenditore, ad idonee misure da valutarsi in
concreto. Occorre cioè la prova che non sia stato altrimenti possibile per il
contribuente reperire le risorse necessarie a consentirgli il corretto e puntuale

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adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le
possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, dirette a
consentirgli di recuperare, in presenza di un’improvvisa crisi di liquidità, quelle
somme necessarie ad assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause
indipendenti dalla sua volontà e a lui non imputabili (cfr. Sez. 3, Sentenza n. 5467
del 05/12/2013 Ud. dep. 04/02/2014 Rv. 258055; sez. 3 sentenza 8.1-4.4.2014 n.
15416; sez. 3, 9 ottobre 2013, n. 5905/2014).
Nel caso di specie, il giudice di merito ha rilevato che non risultavano interventi

finanziari dell’imputato finalizzati a far fronte alle evocate difficoltà e pertanto sulla
scorta dell’indicato principio, la decisione non è censurabile sotto il profilo della
motivazione sull’elemento psicologico, restando irrilevante ogni disquisizione sulla
distanza temporale tra la dichiarazione di fallimento e la data di consumazione del
reato.

2 Col secondo motivo il ricorrente denunzia il vizio di motivazione sulla mancata
conversione della pena detentiva in quella pecuniaria. Dopo avere premesso che non
sussistevano ostacoli di natura oggettiva e soggettiva, il ricorrente osserva che la
rateizzazione della pena da lui ottenuta con la precedente condanna lascia presumere
la volontà e capacità di adempiere alle multe complessivamente inflitte. Rileva inoltre
che applicando i parametri vigenti precedentemente alla data (8.8.2009) di entrata
in vigore della modifica dell’art. 135 cp, la pena detentiva di quattro mesi di
reclusione verrebbe ad essere convertita in un pena pecuniaria di €. 4.560,00
rateizzabile a sua volta nella misura massima (30 rate mensili da €. 152,00 ciascuna,
cifra del tutto sopportabile e comunque non tale da far presumere l’inadempimento).
Ritiene inoltre che per un soggetto nelle sue condizioni (con problemi economici e di
reinserimento lavorativo vista anche l’età) la pena abbia comunque un’efficacia
afflittiva e rieducativa, precisando comunque, che una pena sottoposta a sospensione
condizionale (come quella a lui applicata) non abbia una funzione rieducativa
maggiore di una pena pecuniaria effettiva, considerata l’estinzione del reato dopo
cinque anni dalla condanna (senza sofferenza effettiva). Infine, rileva che, non
esercitando più alcuna attività imprenditoriale, il rischio di reiterazione del reato è
assolutamente impossibile
Questa censura è invece meritevole di accoglimento.
L’art. 53 comma 1 della L. n. 689 del 1981 stabilisce che il giudice, quando
ritiene di dover determinare la durata della pena detentiva entro il limite di sei mesi,
“può sostituirla altresì con la pena pecuniaria della specie corrispondente”; la stessa
L. n. 689 del 1981, art. 58 regola tale potere discrezionale del giudice nella
sostituzione della pena detentiva imponendogli allo scopo i criteri indicati nell’art.
133 c.p.: criteri che sono sia di natura oggettiva sia di natura soggettiva (cfr. tra le
varie, Sez. 3, Sentenza n. 37814 del 06/06/2013 Ud. dep. 16/09/2013 Rv. 256979;

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Sez. 2, Sentenza n. 5989 del 22/11/2007 Ud. dep. 06/02/2008 Rv. 239494; Sez. 3,
Sentenza n. 19326 del 27/01/2015 Ud. dep. 11/05/2015 Rv. 263558).
La norma citata, in particolare, al secondo comma precisa che “i/ giudice non
può sostituire la pena detentiva quando presume che le prescrizioni non saranno
adempiute dal condannato”.
Nel caso di specie, la Corte territoriale, investita della relativa richiesta, l’ha
rigettata ritenendo sussistenti, sulla base di un precedente specifico, valide ragioni
per ritenere priva di seria efficacia la sanzione pecuniaria, sia dal punto di vista

Una siffatta motivazione si rivela però illogica per tre ordini di ragioni:
innanzitutto, perché il primo giudice aveva concesso all’imputato il beneficio della
sospensione condizionale della pena, tralasciando così l’aspetto afflittivo- che oggi
invece la Corte d’Appello richiama – e valorizzando una prognosi evidentemente
favorevole di non commissione di ulteriori reati, prognosi che oggi la Corte d’Appello
finisce di fatto per ribaltare; in secondo luogo, perché la Corte d’Appello ha fondato
una prognosi negativa sull’adempimento delle prescrizioni da parte dell’imputato
esclusivamente su un precedente specifico in relazione al quale risulta però concessa
la rateizzazione del pagamento della pena pecuniaria; in terzo luogo, perché non ha
spiegato come si possa presumere l’inadempimento delle prescrizioni da parte del
condannato a fronte di un pagamento che, in ipotesi – secondo il criterio di
conversione cui all’art. 135 cp (tenendo conto,

ratione temporis, del vecchio

parametro di €.38,00 per ogni giorno di pena detentiva determinata in mesi quattro
di reclusione) e con la possibilità di rateizzazione ex 133 ter cp – poteva essere
fissato anche in trenta rate da €. 152,00 mensili.
Pertanto la sentenza deve essere annullata con rinvio ad altra sezione della
Corte d’Appello di Milano limitatamente alla conversione della pena detentiva che
dovrà essere riesaminata con una motivazione adeguata che dia conto dei rilievi
esposti.

P.Q.M.

annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di
Milano limitatamente alla conversione della pena detentiva. Rigetta, nel resto, il
ricorso.
Così deciso in Roma il 5.5.2015.

afflittivo che rieducativo.

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