Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 4058 del 12/12/2013


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 4058 Anno 2014
Presidente: BRUSCO CARLO GIUSEPPE
Relatore: DELL’UTRI MARCO

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Alaimo Giovanni n. il 11.6.1965
Alaimo Rosolino n. il 13.1.1940
avverso la sentenza n. 2527/2012 pronunciata dalla Corte d’appello
di Palermo il 11.12.2012;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita nell’udienza pubblica del
dott. Marco Dell’Utri;

12.12.2013

la relazione fatta dal Cons.

udito il Procuratore Generale, in persona del dott. F. Salzano, che ha
concluso per il rigetto del ricorso;
udito, per gli imputati, l’avv.to G. Oddo, del foro di Palermo, che ha
concluso per l’accoglimento del ricorso.

Data Udienza: 12/12/2013

Ritenuto in fatto
i. – Con sentenza resa in data 11.12.2012, la corte d’appello di Palermo ha integralmente confermato la sentenza in data 26.10.2011 con
la quale il tribunale di Palermo ha condannato Giovanni Alaimo e Rosolino Alaimo alla pena di un anno di reclusione ciascuno in relazione al
reato di omicidio colposo commesso, in violazione delle norme sulla disciplina della professione medica, ai danni di Giovanna Manno, in Palermo il 20.6.2006.
Agli odierni imputati era stato contestato di aver provocato il decesso della paziente per aver proceduto, in violazione dei tradizionali
parametri della colpa generica, all’esecuzione di un’operazione chirurgica di miomectomia isteroscopica senza provvedere a un adeguato studio
prechirurgico della paziente, e cagionando alla stessa, nel corso dell’operazione, una perforazione dell’utero e del sigma, omettendo successivamente di condurre un opportuno esame delle strutture anatomiche
dell’utero e delle anse intestinali al fine di provvedere alla riparazione di
quanto provocato; e per avere inoltre omesso di gestire adeguatamente
la fase post-operatoria, trascurando l’analisi dei dati sintomatici obiettivamente rilevabili (marcata oliguria e dolenzie), nonché di allenare i
sanitari di guardia e gli infermieri in servizio, al fine di provvedere a un
costante controllo delle condizioni cliniche generali della paziente.
Per effetto di tali condotte degli imputati, la paziente era quindi
deceduta a seguito di arresto cardiocircolatorio da shock settico.
Avverso la sentenza d’appello, a mezzo del comune difensore,
hanno proposto ricorso per cassazione entrambi gli imputati sulla base
di tre motivi di ricorso.
Con il primo motivo, i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per violazione della legge processuale in relazione agli arti. 228,
178 e 191 c.p.p.
Sul punto, rilevano i ricorrenti come il giudice di primo grado
avesse rigettato l’eccezione di nullità della perizia originariamente eseguita nelle forme dell’incidente probatorio; eccezione illo tempore sollevata per avere i periti elaborato le proprie conclusioni sulla base di elementi di prova formati al di fuori del contraddittorio delle parti, nel corso delle indagini preliminari (sommarie informazioni rese alla polizia
giudiziaria da persone informate sui fatti, nonché atti di analogo tenore
provenienti da persone oggetto d’indagine sentite senza le garanzie di
2.1. –

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rito); in tal modo incorrendo nella violazione di norme di legge relative
alla formazione della prova poste a garanzia delle ragioni della difesa.
Al riguardo, la decisione sul punto adottata dal tribunale – limitata all’estromissione dei soli atti inutilizzabili allegati alla perizia – doveva
ritenersi tale da non garantire la genuinità della formazione della fonte
di conoscenza tecnica del giudice, stante l’impossibilità di distinguere,
all’interno dell’elaborato peritale, il frutto degli apprezzamenti indipendenti dalle letture “inquinanti”, rispetto a ciò che, viceversa, doveva ritenersi irrimediabilmente condizionato dalla cognizione acquisita dai
periti delle fonti di prova non conoscibili.
Ciò posto, la corte d’appello, investita della questione in sede di
gravame, ha erroneamente ritenuto inammissibile la dedotta ragione
d’impugnazione, richiamando i precedenti della giurisprudenza di legittimità sul punto (Cass., Sez. 4, n. 5060/2010) e altresì rilevando la genericità della doglianza dell’appellante, avendo quest’ultimo omesso
l’indicazione di alcun atto inutilizzabile in base al quale i periti avrebbero assunto le proprie determinazioni.
In contrasto con le decisioni dei giudici del merito, gli odierni ricorrenti, sottolineando gli specifici limiti imposti dall’art. 228, co. 3,
c.p.p. all’acquisizione di notizie da parte del perito nello svolgimento del
proprio incarico (acquisizioni la cui operatività in nessun modo potrebbe porsi in contrasto con i fondamentali principi posti a tutela del contraddittorio nella formazione della prova), evidenziano come i periti
avessero largamente attinto, nell’elaborazione delle proprie conclusioni
tecniche, a fonti di cognizione inutilizzabili in chiave probatoria (segnatamente attraverso le interessate dichiarazioni degli allora coindagati),
con particolare riguardo ai temi riguardanti: i) le problematiche del decorso post-operatorio della persona offesa; 2) i presìdi terapeutici effettivamente somministrati alla paziente e i controlli cui la stessa fu sottoposta; 3) l’utilizzazione da parte dell’operatore, nel corso dell’atto chirurgico che diede luogo alla perforazione millimetrica ed esangue del
fondo dell’utero, di un’ansa disattivata e non di uno strumento termicamente attivo.
Sulla base di tali premesse, i ricorrenti invocano l’annullamento
della sentenza impugnata per avere i giudici del merito fondato il proprio convincimento sulla base di elementi probatori radicalmente inutilizzabili ai fini della decisione.

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Con il secondo motivo, i ricorrenti censurano la sentenza
impugnata per vizio di motivazione e violazione della legge sostanziale e
processuale in relazione alla ricostruzione del nesso di causalità tra l’atto medico compiuto dagli imputati e il decesso della paziente, nonché
dell’ascrivibilità di quest’ultimo alla colpa dei primi.
Con particolare riguardo al tema relativo alla causalità del decesso, i ricorrenti si dolgono che la sentenza impugnata abbia riconosciuto
un decisivo valore probatorio al dato costituito dalla sintomatologia dolorosa (registrata in cartella) accusata dalla paziente alcune ore dopo
l’intervento; sintomatologia senz’altro ricondotta dalla corte territoriale
alle conseguenze della cattiva esecuzione dell’atto operatorio, in contrasto con una pluralità di indici istruttori (costituiti dal corrispondente
tenore di alcune deposizioni testimoniali) dai quali era piuttosto emerso
come, nel periodo immediatamente successivo all’intervento, la paziente
non avesse avvertito alcun dolore particolarmente significativo, né si
erano evidenziati segni di una qualche complicanza suscettibile di indurre allarmi di sorta, sì da lasciar ritenere come la modesta sintomatologia dolorosa nella specie accusata dalla paziente dovesse nella specie
ricondursi alle ordinarie conseguenze legate al normale decorso postoperatorio.
Sotto altro profilo, i ricorrenti rilevano come, sulla base delle evidenze istruttorie acquisite (ingiustificatamente ignorate o travisate dalla
corte territoriale), era emerso come la perforazione provocata sulle pareti uterine della vittima fosse stata misurata in 3 mm., laddove lo strumento operatorio utilizzato per l’asportazione del polipo presentava un
diametro di io mm., con la conseguente evidente iniconducibilità della
ridetta perforazione all’introduzione del resettoscopio utilizzato dal chirurgo; circostanza, quest’ultima, esclusa sulla base dello stesso riscontro
oggettivo costituito dall’assenza di alcun orletto necrotico sulla regione
limitrofa alla sede dell’incisione millimetrica neppure sfrangiata (come
peraltro confermato dalla deposizione del teste Marchese Ragona), che
avrebbe viceversa necessariamente dovuto apprezzarsi ove la lesione
fosse stata prodotta dall’uso di un’ansa termica attiva, e non, come nella
specie, di un resettoscopio azionato meccanicamente (a freddo), di per
sé inidoneo a provocare alcuna forma di perforazione, ma solo di determinare eventuali divaricazioni delle fibre muscolari.
Quanto al versante della colpa, i ricorrenti si dolgono della ritenuta ascrizione del decesso della paziente alla colpevolezza degli impu-

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tati, avendo questi ultimi – in assenza di indicazioni univoche e stringenti, sul piano della letteratura scientifica disponibile (circa il comportamento da assumere in sede post-operatoria in caso di lesioni come quella in esame) – ritenuto opportunamente di non sottoporre la paziente ad
ulteriori stress operatori, in considerazione delle relative condizioni generali e della storia clinica della stessa, provvedendo all’esecuzione di
tutti i controlli e i monitoraggi imposti dalle particolari occorrenze del
caso di specie, come confermato dalle stesse deposizioni rese dagli
esperti richiamati in ricorso e assunti come testimoni nel corso del processo.
Ciò posto, i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per aver
altresì omesso di dettare alcuna motivazione in relazione all’invocata
applicazione dell’art. 3 della legge n. 189/2012 in ordine alla limitazione
alla sola colpa lieve della responsabilità penale dell’esercente le professioni sanitarie allorché lo stesso, nello svolgimento della propria attività,
si sia attenuto al rispetto di linee guide o di buone pratiche accreditate
dalla comunità scientifica.
Da una diversa prospettiva, i ricorrenti si dolgono della mancata
risoluzione, da parte della corte territoriale, di una serie di questioni afferenti l’analisi della condotta degli imputati nella fase pre-operatoria
(nella quale sarebbe stata omessa l’esecuzione di un adeguato studio
prechirurgico); nella fase post-operatoria (in cui sarebbero stati omessi
adeguati controlli e poste in essere inidonee terapie, a prescindere dal
mancato intervento laparotomico o laparoscopico di riparazione) e nel
corso dell’evoluzione letale della peritonite manifestatasi dopo circa 18
ore dall’intervento a carico della paziente.
In particolare, tali questioni erano state malamente approfondite
dalla corte territoriale e (solo parzialmente) analizzate e risolte sulla base di una superficiale o travisata interpretazione dell’insieme degli elementi istruttori su tali specifici punti complessivamente acquisiti, dai
quali era piuttosto emerso il ragionevole dubbio sulla riconducibilità del
decesso della paziente al decorso di processi infettivi preesistenti e in
ogni caso indipendenti dalle occorrenze dell’intervento chirurgico oggetto d’esame.
Da ultimo, i ricorrenti censurano la sentenza impugnata nella
parte in cui conferma l’addebito di responsabilità a carico di Rosolino
Alaimo, per aver erroneamente applicato al caso di specie i principi in-

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2.3. – Con il terzo motivo, i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per vizio di motivazione e violazione di legge in relazione alla
determinazione della pena inflitta agli imputati, con particolare riguardo al rilievo sul punto riconosciuto alla circostanza, ascritta ai ricorrenti, di aver tentato di attribuire alla persona offesa la condotta determinante l’evento mortale, nonché nella parte in cui ha rilevato la pretesa
mancata prova dell’integrale risarcimento del danno nei confronti dei
familiari della vittima, in contrasto con le risultanze documentali di segno contrario debitamente acquisite al processo.
Considerato in diritto
3.1. – Il primo motivo di ricorso è infondato.
Di là dalla generale rilevanza del tema astrattamente impostato
dai ricorrenti – per cui vale confermare, in linea di principio, l’impossibilità che la perizia si presti a costituire il veicolo di un’inammissibile
introduzione, nei processi formativi della cognizione del giudice, di elementi probatori inutilizzabili ai fini della decisione (v., sul punto, Cass.,
Sez. 3, n. 809/2008, Rv. 242283, nel senso che gli atti di cui il perito
può prendere visione su autorizzazione del giudice sono, oltre quelli già
inseriti nel fascicolo per il dibattimento, solo quelli “dei quali la legge
prevede l’acquisizione” al fascicolo medesimo, ossia gli atti suscettibili
di farvi legittimamente ingresso nel corso del giudizio anche in un momento successivo al conferimento dell’incarico) -, rileva il collegio come,
anche in questa sede di legittimità (così come specularmente avvenuto
in sede d’appello), i ricorrenti, lungi dal provvedere alla specifica indicazione degli atti inutilizzabili in forza dei quali i periti avrebbero impropriamente fondato le proprie conclusioni, si siano limitati a una mera
elencazione di temi d’indagine e di questioni di fatto asseritamente
compromessi dal contatto con fonti di cognizione probatoriamente non
utilizzabili (le problematiche del decorso post-operatorio; i presìdi
somministrati alla paziente e i controlli cui la stessa fu sottoposta; la natura della strumentazione chirurgica in concreto utilizzata, etc.), senza
procedere a un’analitica e particolareggiata disamina delle fonti di cognizione cui i periti avrebbero eventualmente attinto le informazioni
successivamente utilizzate ai fini della redazione del proprio elaborato

dividuati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di responsabilità da
équipes medica.

tecnico e dell’offerta conoscitiva posta a disposizione degli organi giudicanti.
Ciò posto, la mancata specifica individuazione, ad opera dei ricorrenti (tanto in sede d’appello, quanto dinanzi a questa corte di legittimità), dei richiamati elementi di valutazione probatoria asseritamente
inutilizzabili impedisce di procedere ad alcun vaglio critico in ordine
all’effettiva ‘contaminazione’ dei processi formativi della conoscenza peritale (e, di conseguenza, dello stesso giudice di primo grado), stante
l’irriducibile aspecificità delle considerazioni critiche su tale punto ancora in questa sede avanzate dai ricorrenti.
3.2.1. – Il secondo motivo di ricorso, nelle sue diverse articolazioni, deve ritenersi infondato.
Preliminarmente, rileva il collegio come la corte territoriale abbia
ricapitolato le scansioni del decorso causale che condusse al decesso
della paziente in termini di adeguata coerenza logica e linearità argomentativa, avendo proceduto a un’analitica ricostruzione esplicativa dei
processi patologici esaminati sulla base di rilievi scientificamente fondati e adeguatamente corroborati attraverso un’esauriente caratterizzazione probatoria della fattispecie concreta.
In particolare, la corte d’appello, muovendo dall’accertata causa
naturale del decesso della paziente (individuata nell’arresto cardiocircolatorio da shock settico), è pervenuta alla conclusione che tale shock
fosse stato provocato dalla perforazione della parete intestinale nel corso dell’operazione chirurgica eseguita dagli odierni imputati; perforazione ch’ebbe a determinare la contaminazione tra liquido peritoneale e
secrezione intestinale, con successiva peritonite, acidosi metabolica e
conseguente arresto cardiocircolatorio della vittima.
A fondamento di tale ricostruzione, la corte ha indicato: i) i contenuti della relazione redatta successivamente all’intervento chirurgico
de quo, nella quale i medesimi imputati risultano aver dato conto della
rilevata “lieve perforazione del fondo uterino non sanguinante” a seguito dell’asportazione del polipo ivi rinvenuto; 2) la circostanza che a poche ore dall’intervento la paziente fosse particolarmente agitata e dolorante e avesse richiesto l’assistenza di personale paramedico, lamentando “algie pelviche” (ossia “fortissimi dolori ai quadranti addominali e al
basso ventre che, come precisato dei periti, non vi sarebbero stati se si
fosse trattato di una semplice perforazione del fondo uterino – in cui

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non sono presenti tessuti innervati – non accompagnata dalla lesione di
altro limitrofo organo”: v. pag. 30 della sentenza d’appello); 3) l’accertamento delle condizioni in cui, nell’occorso, si presentava l’addome della paziente (ossia “lievemente dolente alla palpazione superficiale e profondo su tutti quadranti”, con segnalazione di “alvo chiuso. Diuresi
spontanee assente” e conseguente cateterizzazione); 4) il dato scientifico
costituito dall’elevato rischio di estensione della perforazione della parete uterina a quella intestinale attraverso l’uso dell’ansa termica riconosciuta dai periti come lo strumento in concreto utilizzato dagli operatori
nel corso dell’intervento de quo (cfr. pag. 28 della sentenza d’appello);
5) la circostanza, riferita dall’anestesista Caruso Antonio nel corso
dell’esame dibattimentale, secondo cui gli stessi imputati avrebbero
concretamente esaminato l’opportunità di procedere a un immediato
controllo laparoscopico in conseguenza della rilevata perforazione (ipotesi inspiegabile se non con l’avvertita consapevolezza, da parte dei due
imputati, che la perforazione non avesse comportato una semplice lacerazione del fondo uterino ma qualcosa di ben più grave: cfr. pag. 31 della
sentenza d’appello).
Dal complesso di tali significativi indici probatori, la corte ha
dunque tratto, oltre ogni ragionevole dubbio, la conclusione dell’elevata
probabilità logica (equiparabile al più alto livello di credibilità razionale)
dell’avvenuta perforazione della parete intestinale nel corso dell’operazione chirurgica oggetto d’esame, con il conseguente innesco del decorso patologico conclusosi con l’arresto cardiocircolatorio e il decesso della vittima: decorso probatoriamente corroborato attraverso il complesso
degli indici più sopra richiamati, in assenza di alcun elemento di prova
contraria idoneo a fondare il ragionevole dubbio circa la possibile incidenza di un plausibile decorso causale alternativo.
A tale ultimo riguardo – così pervenendo alla confutazione dei
singoli motivi di ricorso in questa sede argomentati dai ricorrenti -, la
corte territoriale ha espressamente sottolineato come la presunta modestia della sintomatologia dolorosa avvertita dalla paziente e la progressiva regressione di tali dati sintomatici fossero state artificialmente provocate dalla somministrazione dell’analgesico (Voltaren) incautamente
prescritto da Alaimo Giovanni alla paziente, con il conseguente mascheramento dei sintomi indispensabili ai fini del possibile rilevamento del
grave quadro clinico e dei concreti rischi letali corsi dalla vittima.

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Allo stesso modo, la corte ha evidenziato come la tesi difensiva
incline a prospettare l’avvenuta utilizzazione, da parte del chirurgo, di
un resettoscopio ‘a freddo’, piuttosto che di un’ansa termica, fosse stata
esclusa sulla base delle evidenze probatorie acquisite, tale dato risultando unicamente dalle sole affermazioni processuali degli imputati, i quali, nella relazione riferita all’intervento, avevano significativamente
omesso l’accurata descrizione circa le soluzioni utilizzate per la distensione della cavità uterina e l’indicazione della tipologia delle anse resettoscopiche utilizzate nelle varie fasi dell’intervento, oltre che della tecnica utilizzata; lacune e omissioni verosimilmente dettate dalla volontà di
non lasciare tracce documentali della scelta di usare un’ansa termica
non consona al tipo d’intervento da praticare (non adeguatamente preparato) e al tipo di paziente (già in passato sottoposta a intervento di
miomectomia).
Sotto altro profilo, la corte ha rilevato come i periti avessero fornito un’adeguata spiegazione dell’assenza di un °fletto necrotico sulla
regione limitrofa alla sede della lesione millimetrica della parete uterina
(assenza invocata dai ricorrenti come pretesa prova del mancato uso di
un’ansa termica), evidenziando come detta assenza trovasse la propria
spiegazione esclusivamente nella circostanza che, al momento dell’esame autoptico, avvenuto a distanza di oltre sei mesi dal decesso quando il
cadavere era in avanzato stato di putrefazione e con processi autolitici in
corso, non era stato possibile rinvenire, oltre alla lesione uterina, anche
sicure tracce di necrosi dei tessuti; là dove, a prescindere da tale circostanza, il complesso delle risultanze valutate sul piano tecnico dai periti,
aveva evidenziato la certezza dell’uso di un’ansa termica: certezza in
nessun modo smentita dalle affermazioni (ritenute insignificanti dalla
corte territoriale) del testimone Marchese Ragona, il quale ebbe unicamente a limitarsi, sul punto, ad esprimere una propria personale e soggettiva “impressione” circa la natura della “perforazione da strumento a
freddo”.
Da ultimo, la corte territoriale ha correttamente negato alcuna
plausibilità alle prospettate ipotesi causali alternative avanzate dalla difesa, rilevando come nessuna evidenza probatoria avesse riscontrato l’eventuale riconducibilità della perforazione del tessuto intestinale al preteso sforzo imposto al sigma dalla Manno, recatasi in bagno la mattina
successiva all’intervento; così come nessun riscontro aveva trovato l’ipotesi (rimasta allo stato di una mera congettura) della prospettata ricon-

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ducibilità dello shock settico subito dalla vittima alla pretesa incidenza
di un’infezione da candida albicans riscontrata nel liquido pleurico della deceduta verosimilmente preesistente all’operazione.
A tale ultimo riguardo, la corte territoriale ha correttamente evidenziato come il primo giudice, senza alcuna valida obiezione da parte
della difesa, avesse richiamato le osservazioni del perito Pugnetti, secondo cui la presenza di frammenti di candida albicans era stata documentata a seguito di esame culturale su campione di liquido pleurico al
momento dell’ingresso della Manno presso l’unità di rianimazione
dell’ospedale Cervello, ossia quando già il soggetto versava in condizione di shock settico da peritonite di tipo stercoraceo. Da ciò conseguendo
che le ife di candida, lungi dal preesistere alla sepsi, si sono ragionevolmente sviluppate proprio in conseguenza del versamento nell’organismo di materiali e batteri fecali e tossine di ogni genere che nel giro di
poche ore sono andati a determinare le alterazioni cellulari ed organiche, conducendo rapidamente a morte la Manno.
Il complesso delle argomentazioni dettate nella motivazione della
sentenza d’appello in relazione alla ricostruzione del nesso causale tra il
decesso della paziente e la condotta degli imputati deve dunque ritenersi completo ed esauriente, immune da vizi d’indole logica o giuridica,
come tale pienamente idoneo a sottrarsi a tutte le censure sul punto
avanzate dagli odierni ricorrenti.
3.2.2. – Devono ritenersi altresì infondate le doglianze illustrate
dai ricorrenti in relazione ai profili di colpevolezza riscontrati dai giudici
di merito a carico degli odierni imputati.
Al riguardo, la corte territoriale, con motivazione dotata di piena
coerenza logica e linearità argomentativa, a sua volta corroborata da
consistenti riscontri di natura probatoria, ha evidenziato come agli
odierni imputati fossero ascrivibili molteplici profili di colpa grave in
relazione all’intero ciclo operatorio cui ebbero a sottoporre la paziente.
In primo luogo, la corte territoriale ha sottolineato come gli imputati avessero superficialmente provveduto alla preparazione dell’intervento ritenendosi sicuri di dover provvedere unicamente alla resezione di alcuni polipi, rendendosi conto della presenza del voluminoso
mioma solo ad operazione chirurgica in corso. In particolare, i giudici
del merito hanno evidenziato come durante il primitivo esame ecografico del 13.6.2006, non essendo stato possibile visualizzare l’intera cavità

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uterina a causa di plurime neoformazioni, sarebbe stato opportuno, al
fine di orientare consapevolmente il giudizio di operabilità, la strategia e
la procedura chirurgica, riempire di liquido la cavità uterina ovvero approfondire le indagini durante l’ecografia attraverso l’esecuzione, quanto meno, di un’ecografia vaginale con riempimento della cavità con liquido. La mancata accurata preparazione dell’intervento secondo tale
sequenza costrinse dunque gli operatori a rimuovere il grosso mioma
riscontrato senza averlo mai in precedenza individuato, così precludendosi un’eventuale tempestiva diagnosi che avrebbe diversamente orientato il giudizio di operabilità resettoscopica del mioma sottomucoso (tale giudizio variando in ragione delle dimensioni, della localizzazione, dei
rapporti del mioma con gli osti tubarici e con la cavità uterina), con la
conseguenza che l’incompletezza dell’approccio diagnostico preparatorio ebbe ad accentuare enormemente il rischio di una perforazione uterina, come in effetti concretamente verificatosi.
Ciò posto, in termini di piena coerenza argomentativa, la corte
territoriale ha evidenziato come gli imputati avessero colpevolmente
omesso di procedere, una volta rilevata la perforazione uterina, alla
conduzione di un intervento chirurgico laparotomico o laparoscopico al
fine di individuare e localizzare l’eventuale prevedibile lesione alle pareti intestinali e di procedere alla relativa sutura, preferendo viceversa assumere il gravissimo rischio di complicanze con la scelta (asseritamente
dettata da considerazioni legate alle condizioni cliniche della paziente)
di provvedere al costante monitoraggio del decorso post-operatorio.
Proprio in relazione a tale fase, tuttavia, la corte ha rilevato come
del tutto imprudentemente l’imputato Alaimo Giovanni (oltre alla mancata somministrazione di un’adeguata terapia antibiotica in grado di
contrastare efficacemente i batteri anaerobi) avesse provveduto alla
somministrazione alla paziente di un potente analgesico (Voltaren) in
tal modo mascherando la sintomatologia dolorosa necessaria al fine di
segnalare l’eventuale presenza di possibili complicanze in atto. Proprio
in ragione di tale imprudente somministrazione farmacologica, gli imputati ebbero a intervenire solo tardivamente sul piano chirurgico (in
laparotomia), il giorno dopo l’operazione, allorché le condizioni cliniche
della paziente dovevano ritenersi ormai irreversibili, tenendo conto di
quanto sottolineato in sede dibattimentale dal perito Pugnetti, secondo
cui la condizione di shock settico da perforazione intestinale è una condizione gravissima che si manifesta nel giro di poche ore, anche in un

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soggetto sano, proprio per la quantità di tossine che possono essere assorbite dal peritoneo e che vanno a determinare le alterazioni prima cellulari e poi organiche nel paziente, tali da portare in tempi rapidi al decesso (cfr. pagg. 20-21 della sentenza d’appello).
Da ultimo, del tutto privo di rilevanza deve ritenersi il richiamo
degli odierni ricorrenti all’operatività dell’art. 3 della legge n. 189/2012,
avendo la corte territoriale eloquentemente evidenziato la gravità dei
profili di colpa ascrivibili agli imputati in ragione del sensibile scostamento degli stessi dagli standard operativi riferiti a un intervento in
nessun modo riconducibile a un caso di particolare difficoltà.
Ciò posto, la motivazione dettata dalla corte territoriale in relazione ai profili di colpevolezza degli imputati deve ritenersi anch’essa
pienamente completa ed esauriente, scevra da vizi di natura logica o
giuridica, pienamente idonea a sottrarsi alle censure sul punto argomentate dai ricorrenti, nella specie per lo più inclini a prospettare un’inammissibile rilettura in fatto delle risultanze probatorie acquisite, come tali non sottoponibili al vaglio di questa corte di legittimità.
Parimenti destituite di fondamento devono ritenersi le censure illustrate dai ricorrenti in relazione alla posizione di Rosolino Alaimo,
avendo la corte territoriale correttamente sottolineato come la posizione
di “aiuto” dallo stesso rivestita non lo esentasse dall’obbligo di osservare
scrupolosamente le leges artis né d’impedire che attraverso la condotta
omissiva del capo équipes potesse prodursi l’evento lesivo poi verificatosi, sottolineando come la figura dell’aiuto, nel corso dell’intervento chirurgico, non sia affatto quella di un mero esecutore di ordini, condividendo lo stesso le scelte terapeutico del capo équipes ed assumendone
integralmente le responsabilità laddove non se ne discosti attraverso la
manifesta espressione del proprio dissenso o il compimento di tutto
quanto in suo potere per impedire l’evento.
Sul punto, la corte territoriale risulta essersi correttamente allineata al consolidato insegnamento della giurisprudenza di questa corte
di legittimità, ai sensi del quale, in tema di colpa medica nelle attività
d’équipes, del decesso del paziente risponde ogni componente dell’équipes, che non osservi le regole di diligenza e perizia connesse alle specifiche ed effettive mansioni svolte, e che venga peraltro meno al dovere di
conoscere e valutare le attività degli altri medici in modo da porre rimedio ad eventuali errori, che pur posti in essere da altri siano evidenti per
un professionista medio (Cass., Sez. 4, n. 33619/2006, Rv. 234971;

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Cass., Sez. 4, n. 41317/2007, Rv. 237891; Cass., Sez. 4, n. 18548/2005,
Rv. 231535).
3.3. – Dev’essere infine disatteso il terzo motivo di ricorso proposto dagli imputati, avendo la corte territoriale confermato la congruità
del trattamento sanzionatorio disposto dal primo giudice, sottolineando, di là dal rilievo riferito al comportamento processuale degli imputati, l’obiettiva circostanza costituita dalla gravità del relativo comportamento colposo e l’omessa allegazione della documentazione indispensabile ai fini del riconoscimento dei presupposti (relativi alla tempestività
e all’integralità del risarcimento) per l’applicazione della circostanza attenuante di cui all’art. 62, n. 6, c.p.: omissione non adeguatamente superata dalle generiche doglianze ancora in questa sede di legittimità sollevate dai ricorrenti.
4. — Al riscontro dell’infondatezza di tutti i motivi di doglianza
avanzati dagli imputati segue il rigetto del ricorso e la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Per questi motivi
la Corte Suprema di Cassazione, rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 12.12.2013.

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