Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 40577 del 24/09/2014


Clicca qui per richiedere la rimozione dei dati personali dalla sentenza

Penale Sent. Sez. 2 Num. 40577 Anno 2014
Presidente: PETTI CIRO
Relatore: PELLEGRINO ANDREA

Data Udienza: 24/09/2014

SENTENZA
Sui ricorsi proposti rispettivamente nell’interesse di
ANSELMO Giuseppe, n. a Foggia il 16.03.1925, rappresentato e
assistito dall’avv. Pasquale Provenzano
e da
BARBAROSSA Maria, n. a Manoppello (PE) il 06.09.1957,
rappresentata e assistita dall’avv. Paolo Marino,
avverso la sentenza della Corte d’Appello di L’Aquila, n. 2704/2011 in
data 13.02.2013;
rilevata la regolarità degli avvisi di rito;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed i ricorsi;
udita la relazione svolta dal consigliere dott. Andrea Pellegrino;
sentite le conclusioni del Sostituto procuratore generale dott. Alfredo
Pompeo Viola che ha chiesto di dichiararsi l’inammissibilità dei ricorsi.

RITENUTO IN FATTO

1

1. Con sentenza del Tribunale di Pescara in data 05.04.2011, Anselmo
Giuseppe e Barbarossa Maria venivano dichiarati colpevoli del reato
di estorsione commesso in Bolognano-Scafa in epoca compresa tra
1’1.6.2003 ed il 16.2.2004 in danno di Di Bernardo Gianna costituita
parte civile e, previo riconoscimento delle circostanze attenuanti
generiche, condannati alla pena di anni tre e mesi quattro di

reclusione ed euro 1.000,00 di multa ciascuno oltre al pagamento
delle spese processuali. Gli imputati venivano altresì condannati al
risarcimento dei danni cagionati alla parte civile, liquidati in euro
10.000,00 nonché alla rifusione delle spese di costituzione e difesa
dalla medesima sostenute.
Secondo l’accusa i due, mediante violenza e minacce consistite nel
recarsi più volte presso l’abitazione di Di Bernardo Gianna, nel
rivolgerle in tali occasioni frasi intimidatorie, prospettandole seri guai
familiari e, in particolare, che avrebbero informato il di lei marito all’oscuro degli acquisti di biancheria per corredo effettuati dalla
donna – della sua grave esposizione debitoria asseritamente
conseguente a tali acquisti ma, in realtà, almeno in gran parte, da
loro artificiosamente creata mediante illecite condotte, facendole
sottoscrivere ulteriori ordini d’acquisto, facendosi consegnare somme
a titolo di pagamento di rate mensili, si procuravano il
corrispondente ingiusto profitto con pari danno patrimoniale per la
persona offesa.
2.

Avverso detta sentenza, nell’interesse di Anselmo Giuseppe e di
Barbarossa Maria, veniva proposto appello con richiesta di pronuncia
assolutoria con ampia formula liberatoria; la difesa dell’Anselmo in
subordine, chiedeva anche la derubricazione del reato di estorsione
in quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con declaratoria
di improcedibilità dell’azione penale per tardività della querela.

3.

Con sentenza in data 13.02.2013, la Corte d’Appello di L’Aquila
rigettava i gravami e confermava la sentenza impugnata.

4.

Avverso la sentenza di secondo grado, gli imputati, tramite difensori,
proponevano distinti ricorsi per cassazione.
La difesa di Anselmo, con motivo unico, denunciava, ai sensi dell’art.
606, comma 1 lett. b) cod. proc. pen., l’erronea applicazione della
legge penale in relazione agli artt. 629 e 393 cod. pen..

2

Deduce il ricorrente, replicando integralmente il motivo d’appello,
che, con riferimento al contestato reato di estorsione, non poteva
ravvisarsi alcun difetto di giustizia nella richiesta di pagamento
presentata alla persona offesa dall’imputato assieme alla Barbarossa,
poiché il pagamento era pienamente giustificato dall’acquisto di
biancheria da corredo che la persona offesa aveva liberamente
effettuato nell’anno 1997 dalla ditta dell’Anselmo per un valore

complessivo di merce ammontante a lire 5.800.000; che, non
avendo la persona offesa mai saldato integralmente il debito, i due
imputati si erano risolti a chiederle con decisione l’integrale
adempimento dei suoi obblighi pecuniari; che il fatto di rivolgersi al
coniuge della persona offesa, qualora quest’ultima non si fosse
decisa a pagare il proprio debito, non poteva essere considerato
come una minaccia, difettando il valore intimidatorio; che, in
subordine, in caso di ritenuta insussistenza della minaccia, avrebbe
dovuto configurarsi il diverso reato di esercizio arbitrario delle
proprie ragioni, in quanto, mentre nel delitto di estorsione l’elemento
soggettivo si concreta nel fine di ottenere un profitto, sapendo di non
averne diritto, nel delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni si
ha la ragionevole opinione, anche se errata, della sussistenza di un
diritto e che, nell’ipotesi di riconoscimento del reato di cui all’art. 393
cod. pen., si sarebbe dovuta pronunciare sentenza di improcedibilità
per tardività della querela, essendo stata la stessa proposta in data
08.12.2003, mentre le vicende descritte nella denuncia-querela si
erano verificate nei mesi di marzo-aprile 2003.
La difesa di Barbarossa lamentava:
– inosservanza o erronea applicazione della legge penale ex art. 606
lett. b) cod. proc. pen. in riferimento all’art. 629 cod. pen. (primo
motivo);
– inosservanza o erronea applicazione della legge penale ex art. 606
lett. b) cod. proc. pen. in riferimento all’art. 393 cod. pen. (secondo
motivo);
– mancanza o manifesta illogicità della motivazione ai sensi dell’art.
606, comma 1 lett. e) cod. proc. pen. (terzo motivo);
-travisamento del fatto ex art. 606, comma 1 lett. e) cod. proc. pen.
(quarto motivo).
In relazione al primo e al secondo motivo di doglianza, la difesa della

3

Barbarossa deduceva che la contestata espressione profferita
dall’imputata all’indirizzo della persona offesa (“lo dirò a tuo
marito”), era priva di valenza minatoria, non solo per la genericità e
la indeterminatezza del male minacciato, quanto perché la stessa era
priva del connotato dell’ingiustizia; che le dichiarazioni della persona
offesa, in quanto confuse, portavano ad una totale incertezza sulla
quantità della merce acquistata; che la somma di lire 5.800.000,

corrisposta dalla persona offesa in sei anni per l’acquisto della
biancheria, non poteva rappresentare per l’appellante il
conseguimento di qualcosa che non gli fosse dovuto; che le
dichiarazioni rese dalla persona offesa non erano state sottoposte dal
giudice di prime cure ad un attento controllo di credibilità oggettiva e
soggettiva e che, comunque, la fattispecie contestata avrebbe
dovuto essere derubricata nel delitto di esercizio arbitrario delle
proprie ragioni, con declaratoria di improcedibilità dell’azione penale
per tardività della querela.
In relazione al terzo motivo, ci si lamentava del modus procedendi
del giudice di secondo grado i cui argomenti impiegati nel proprio
percorso giustificativo risultavano tratti dallo stesso provvedimento
di primo grado, essendosi la Corte d’Appello limitata a riprodurne del
tutto fedelmente i passaggi motivazionali.
In relazione al quarto motivo, si censura come la sentenza
impugnata operi, travisando il fatto, una ricostruzione degli eventi
errata basandosi esclusivamente sulle dichiarazioni contraddittorie
della persona offesa, omettendo di considerare elementi difensivi
importanti, dotati del carattere di decisività, in considerazione dei
quali andava escluso tanto l’elemento materiale che quello
soggettivo della fattispecie incriminatrice.

CONSIDERATO IN DIRITTO

5.

Entrambi i ricorsi sono manifestamente infondati in tutti i profili di
doglianza sollevati e, come tali, vanno dichiarati inammissibili.

6.

Peraltro, prima di passare alla trattazione dei singoli motivi di
doglianza, si rende doveroso premettere come lo sviluppo
argomentativo della motivazione della sentenza impugnata, da
integrarsi con quella di primo grado, risulti fondato su una coerente

4

analisi critica degli elementi di prova e sulla loro coordinazione in un
organico quadro interpretativo, alla luce del quale appare dotata di
adeguata plausibilità logica e giuridica l’attribuzione a detti elementi
del requisito della sufficienza, rispetto al tema di indagine
concernente la responsabilità dei ricorrenti in ordine al reato loro
ascritto. La motivazione della sentenza impugnata supera quindi il
vaglio di legittimità demandato a questa Corte, alla quale non è

tuttora consentito di procedere ad una rinnovata valutazione dei fatti
magari finalizzata, nella prospettiva “finale” del ricorrente, ad una
ricostruzione dei medesimi in termini diversi da quelli fatti propri dal
giudice del merito. Di contro, le censure di merito proposte dai
ricorrenti si profilano inammissibili posto che, con le stesse, si
muovono non già precise contestazioni di illogicità argomentativa,
ma solo sostanziali doglianze in fatto, non condividendosi dai
ricorrenti – in ultima analisi – le conclusioni attinte ed anzi
proponendosi versioni più persuasive di quelle dispiegate nella
sentenza impugnata.

Ricorso di Anselmo Giuseppe.
7. Il motivo unico dedotto nell’interesse di Anselmo Giuseppe è
manifestamente infondato.
E’ noto come la Suprema Corte abbia ripetutamente riconosciuto
l’inammissibilità del ricorso per cassazione quando nello stesso
venga omessa la precisa indicazione della correlazione tra le ragioni
argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento
dell’atto d’impugnazione, che non può ignorare le affermazioni del
provvedimento censurato (cfr., Cass., Sez. 2, n. 19951 del
15/05/2008, Lo Piccolo, Rv. 240109; Cass., Sez. 1 n. 39598 del
30/09/2004, Burzotta, Rv. 230634).
Parimenti inammissibili sono i motivi che si limitano a riprodurre le
censure dedotte in appello, anche se con l’aggiunta di frasi
incidentali di censura alla sentenza impugnata meramente assertive
ed apodittiche, laddove difettino di una critica argomentata avverso
il provvedimento censurato e l’indicazione delle ragioni della loro
decisività rispetto al percorso logico seguito dal giudice di merito.
(Cass., Sez. 6, n. 8700 del 21/01/2013-dep. 21/02/2013, Leonardo
e altri, rv. 254584).

5

8. Fermo quanto precede, con riferimento al motivo proposto, si
osserva come il giudice di secondo grado, con ragionamento congruo
e giustificato oltre che immune da vizi, abbia ampiamente
giustificato il proprio decisum affermando: “… infondate devono …
ritenersi le doglianze … circa la ritenuta inidoneità della minaccia
profferita … ad incutere timore alla persona offesa, giacchè, come è
stato … più volte ribadito in giurisprudenza (v. Cass. n. 35346/10,

Cass. n. 21537/08), il delitto di estorsione è integrato quando viene
prospettato un male futuro per la vittima in termini di evento certo e
realizzabile ad opera dell’agente, venendo in tal caso la vittima posta
nell’alternativa di far conseguire all’agente il preteso profitto o di
subire il male minacciato. Ebbene, nella fattispecie, il male futuro
prospettato alla persona offesa dagli imputati, in termini di evento
certo e realizzabile dai medesimi, ossia il rivolgersi al marito per
avere il pagamento e, quindi, rendere noto al marito della predetta
l’acquisto di biancheria da parte della medesima all’insaputa e contro
la volontà del marito stesso, è idoneo ad integrare la minaccia,
intesa quale elemento costitutivo del delitto di estorsione, anche
perché, come correttamente evidenziato pure dal primo giudice, la
minaccia è tale se è così percepita dalla persona cui è diretta ed è
idonea a limitare la sua libertà psichica. D’altro canto, sempre
sull’idoneità del male prospettato ad incutere timore alla persona
offesa, è, altresì sufficiente rilevare che, se la medesima non si fosse
sentita coartata e minacciata, non si sarebbe di certo recata presso il
distaccamento di Polizia di Piano d’Oda per sporgere denuncia per
quanto accadutole. In buona sostanza la persona offesa, a causa
della minaccia ricevuta dai due imputati, di rivelare al proprio marito
un debito contratto contro la volontà di quest’ultimo, è stata
costretta, pur non volendo, a sottoscrivere commissioni e titoli di
credito ed a provvedere al pagamento di una somma ingente, di
molto superiore al debito inizialmente contratto con gli imputati,
senza ricevere alcun corrispettivo …”.
Sulla base di queste oggettività di fatto correttamente interpretate
sotto il profilo causale, la Corte territoriale ha respinto la richiesta
difensiva di derubricazione del reato di estorsione in quello di
esercizio arbitrario delle proprie ragioni riconoscendo, con
motivazione congrua, come gli imputati non si fossero “… limitati a

6

minacciare la persona offesa per ottenere il pagamento di un credito
dai medesimi vantato nei confronti della predetta”, ma avessero “…
minacciato la stessa anche per ottenere un ingiusto profitto
patrimoniale costituito dalle somme delle cambiali e delle
commissioni fatte sottoscrivere alla predetta contro la sua volontà,
per un importo complessivo superiore al credito originariamente
vantato, potendosi desumere dalle emergenze probatorie che, a

fronte di un credito di circa cinque milioni di lire, gli imputati hanno
costretto la persona offesa a corrispondere loro quasi venti milioni di
lire …”.

Ricorso di Barbarossa Maria.
9.

In relazione al primo e al secondo motivo di doglianza, ribadite le
considerazioni esposte al precedente punto 8., rileva il Collegio
come, con riferimento alla pretesa genericità delle dichiarazioni della
persona offesa, peraltro non sottoposte ad alcun vaglio di
attendibilità oggettiva e soggettiva, la Corte territoriale offre
adeguata motivazione riconoscendo come da un lato la responsabilità
dell’imputata fosse stata accertata non solo sulla base delle
dichiarazioni della persona offesa, ma anche su quelle rese dalla
teste Porrini Francesca, sul contenuto della documentazione
sequestrata rinvenuta in possesso dei due imputati e sull’esito della
disposta perizia grafica e, dall’altro, di come, secondo il costante
insegnamento di legittimità, “… le dichiarazioni della persona offesa
possono essere assunte, anche da sole, come prova della
responsabilità dell’imputato, purchè siano sottoposte al vaglio
positivo circa la loro attendibilità e senza la necessità di applicare le
regole probatorie previste dall’art. 192 cod. proc. pen., che
richiedono la presenza di riscontri esterni”.

10. Del tutto generico è il terzo motivo di doglianza che pecca di
indeterminatezza essendosi ivi formulate censure generiche che
richiamano, senza specifica indicazione, l’insufficienza degli elementi
probatori, così da non consentire a questa Corte di legittimità alcuna
reale valutazione della denunciata carenza di motivazione della
sentenza impugnata. Come è noto, la mancanza di specificità del
motivo deve essere apprezzata non solo per la sua genericità, intesa
come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione

7

tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a
fondamento dell’impugnazione, dal momento che quest’ultima non
può ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel
vizio di aspecificità che conduce, a norma dell’art. 591, comma 1
lett. c) cod. proc. pen., all’inammissibilità della impugnazione (cfr.,
ex multis, Cass., Sez. 2, n. 39044 del 01/10/2009, n. 39044; Cass.,
Sez. 4, n. 256 del 18/09/1997, dep. 13/01/1998, Ahmetovic, Rv.

210157).
11. Pari conclusione di manifesta infondatezza involge il quarto motivo di
doglianza con il quale si denuncia l’avvenuto travisamento del fatto e
l’omessa considerazione di elementi difensivi importanti, dotati del
carattere di decisività, in considerazione dei quali – secondo la
ricorrente – andava escluso tanto l’elemento materiale che quello
soggettivo della fattispecie incriminatrice.
In relazione al primo profilo, va preliminarmente evidenziato (cfr.,
Cass., sez. 6, n. 25255 del 14/02/2012, dep. 26/06/2012, Minervini,
Rv. 253099) che, anche a seguito della modifica apportata all’art.
606, lett. e), cod. proc. pen. dalla I. n. 46 del 2006, resta non
deducibile nel giudizio di legittimità il travisamento del fatto, stante
la preclusione per la Corte di cassazione di sovrapporre la propria
valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei
precedenti gradi di merito; in particolare, il giudice di legittimità,
investito di un ricorso che proponga una diversa valutazione degli
elementi di prova (cosiddetto travisamento del fatto), non può
optare per la soluzione che ritiene più adeguata alla ricostruzione dei
fatti, valutando l’attendibilità dei testi e le conclusioni dei periti e
consulenti tecnici, potendo solo verificare, negli stretti limiti della
censura dedotta, se un mezzo di prova esista e se il risultato della
prova sia quello indicato dal giudice di merito, sempre che questa
verifica non si risolva in una valutazione della prova (Cass., Sez. 4,
n. 36769 del 09/06/2004, dep. 17/09/2004, Cricchi ed altri, Rv.
229690).
La nuova disciplina consente invece di dedurre il vizio di
“travisamento della prova”, che ricorre nel caso in cui il giudice di
merito abbia fondato il proprio convincimento su una prova che non
esiste o su un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello
reale, sempreché la difformità risulti decisiva.

8

Orbene, i rilievi difensivi in ordine al travisamento della prova (così
qualificata la deduzione della ricorrente) risultano totalmente
infondati avendo la Corte territoriale rilevato come le dichiarazioni
rese dalla persona offesa fossero state ritenute implicitamente
attendibili dal giudice di primo grado, il quale, aveva evidenziato
come da un lato che le stesse avessero trovato riscontro nelle
dichiarazioni rese dalla teste Porrini e negli esiti della perizia grafica

imputati e, dall’altro, come la confusione mostrata talvolta dalla
persona offesa nel riferire quanto accadutole, dimostrasse – al
contrario – la genuinità delle dichiarazioni rese.
12. Alla pronuncia di inammissibilità consegue, ex art. 616 cod. proc.
pen., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali
nonché al versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una
somma che, considerati i profili di colpa emergenti dai ricorsi, si
determina equitativamente in euro 1.000,00 per ciascuno

PQM

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento
delle spese processuali e ciascuno al versamento della somma di euro
1.000,00 alla Cassa delle ammende.
Così deliberato in Roma, udienza pubblica del 24.9.2014

disposta d’ufficio oltre che nella documentazione sequestrata agli

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA