Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 40535 del 06/05/2015


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 40535 Anno 2015
Presidente: TERESI ALFREDO
Relatore: ANDRONIO ALESSANDRO MARIA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE
DI L’AQUILA
nei confronti di:
COLANZI FILIPPO N. IL 20/02/1965
PINTI CARMEN N. IL 11/09/1968
DI CINTIO MASSIMILIANO N. IL 05/04/1973
avverso l’ordinanza n. 22/2015 TRIB. LIBERTA’ di L’AQUILA, del
02/02/2015
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. ALESSANDRO MARIA
ANDRONIO ;
/2-1.<2 Q eell-L let-te/sentite le conclusioni del PG Dott. Uditi difensor Avv.; Data Udienza: 06/05/2015 RITENUTO IN FATTO 1. — Con ordinanza del 2 febbraio 2015, il Tribunale dell'Aquila ha annullato l'ordinanza del Gip dello stesso Tribunale del 17 dicembre 2014, con la quale — per la parte che qui rileva — era stata applicata agli indagati Colanzi Filippo, Pinti Carmen, Di Cintio Massimiliano la misura cautelare degli arresti domiciliari, in relazione a reati di cui all'art. 260 del decreto legislativo n. 152 del 2006, a loro contestati per avere effettuato in diversi siti e in diversi momenti lo scarico di complessivi metri cubi in mancanza del piano di utilizzo. In particolare, il Tribunale dopo avere ribadito la sussistenza della gravità indiziaria, ha ritenuto invece insussistenti le esigenze cautelari del pericolo di reiterazione e del pericolo di inquinamento probatorio. 2. — Avverso l'ordinanza ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale dell'Aquila, lamentando la violazione dell'art. 274, comma 1, lettera c), cod. proc. pen. e la carenza di motivazione quanto al pericolo di reiterazione del reato. Secondo la ricostruzione del ricorrente, il Tribunale ha ritenuto insussistente tale esigenza cautelare per mancanza di attualità, sul rilievo che i reati contestati sono stati consumati fino all'aprile del 2013. Il Tribunale non avrebbe, però, spiegato perché le condotte, oggettivamente piuttosto gravi, non evidenzierebbe la persistenza dell'esigenza cautelari. Non si sarebbe considerato, in particolare, che gli indagati avevano per anni utilizzato in modo delinquenziale la loro attività imprenditoriale connessa alla movimentazione di terra, attraverso tre organismi societari, con l'acquisizione di numerosi contratti di prestazione d'opera, che avevano portato lo smaltimento di un quantitativo rilevantissimo di terra da scavo, con un guadagno illecito di quasi tre milioni di euro, e con danni ambientali notevoli. CONSIDERATO IN DIRITTO 3. — Il ricorso è inammissibile, perché basato su una doglianza formulata in modo non specifico. Va premesso che, in tema di inammissibilità del ricorso per cassazione, i motivi devono ritenersi generici non solo quando risultino intrinsecamente indeterminati, ma altresì quando difettino della necessaria correlazione con le ragioni poste a fondamento del provvedimento impugnato (ex plurimis, sez. 5, 15 febbraio 2013, n. 28011, rv. 255568; sez. 2, 29 gennaio 2014, n. 11951, rv. 259425). In altri termini, non è sufficiente che il ricorso contenga doglianze che appaiano di per sé sufficientemente specifiche, ma è anche necessario che tali doglianze pongano in 406.867 di rifiuti, costituiti da terre e rocce da scavo, in mancanza di autorizzazione e discussione in modo completo e non semplicemente parziale il complesso delle argomentazioni su cui si basa la decisione. Ciò non è avvenuto nel caso di specie. Il ricorrente richiama sostanzialmente la gravità del reato, con particolare riferimento alla protrazione nel tempo e al numero delle condotte, all'entità del danno ambientale causato e alla capacità organizzativa mostrata dagli imputati, allo scopo di sostenere che la lontananza nei fatti nel tempo non sarebbe da sola sufficiente a far venire meno il pericolo di reiterazione. Così secondo il Tribunale l'insussistenza delle esigenze cautelari non si giustifica solo sulla base del dato temporale, ma anche sulla base dell'ulteriore dato rappresentato dalle misure reali applicate sui beni delle società interessate, le quali precludono allo stato la possibilità che attività della stessa specie possono essere reiterate, incidendo così sulla concretezza del rischio di nuova consumazione di condotte analoghe. Né il pubblico ministero contesta l'affermazione dello stesso Tribunale secondo cui non sussiste neanche un concreto rischio di inquinamento probatorio, perché gli esiti ormai raggiunti dall'attività inquisitoria sono ricchi, cospicui e ormai consolidati. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso. Così deciso in Roma, il 6 maggio 2015. argomentando, trascura però di considerare — anche solamente a fini di critica — che,

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