Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 403 del 10/12/2015

Penale Sent. Sez. 2 Num. 403 Anno 2016
Presidente: GENTILE MARIO
Relatore: PELLEGRINO ANDREA

Data Udienza: 10/12/2015

SENTENZA
Sui ricorsi proposti rispettivamente nell’interesse di
A.A.
S.S.
G.G.
tutti rappresentati e assistiti dall’avv. Salvatore Antonio Ciminelli, di
fiducia, avverso la sentenza della Corte d’appello di Catanzaro,
seconda sezione penale, n. 2188/2013, in data 10.04.2014;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed i ricorsi;
preso atto della ritualità delle notifiche e degli avvisi;
sentita la relazione della causa fatta dal consigliere dott. Andrea
Pellegrino;
udita la requisitoria del Sostituto procuratore generale dott. Stefano
Tocci che ha concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi.

RITENUTO IN FATTO

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1. Con sentenza in data 10.04.2014, la Corte d’appello di Catanzaro
confermava la pronuncia resa in primo grado dal giudice delle indagini
preliminari presso il Tribunale di Castrovillari che, in data 28.03.2013,
aveva condannato per il reato di concorso in rapina aggravata,
all’esito di giudizio abbreviato non condizionato, A.A.,
S.S. e G.G. alle seguenti rispettive pene:

-A.A., alla pena di anni due, mesi otto di reclusione ed
euro 900,00 di multa;
-S.S. e G.G., alla pena di anni due, mesi
quattro di reclusione ed euro 600,00 di multa, ciascuno.
Con condanna altresì dei predetti, in via solidale tra loro, al
risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile Ispas
Roxana Andreea, da liquidarsi in separato giudizio.
Secondo l’accusa, A.A., S.S. e G.G., in concorso tra loro, al fine di procurarsi un ingiusto profitto,
con violenza e minaccia consistite: a) nell’avere tutti avvicinato, a
bordo dell’auto Fiat Punto tg. EB 808 VZ, Ispas Roxana Andreea sotto
il cavalcavia della S.S. 106 Radd. in località Raganello; b) nell’avere
A.A., dopo essere scesa dall’auto rivolto alla persona
offesa la frase “dammi trenta euro bastarda non penso che non hai
fatto trenta euro”, abbassando la maglietta della vittima, ficcandole la
mano sotto il seno e poi spintonandola prima di scappare via in auto
unitamente a G.G. e S.S. che l’aspettavano
con il motore acceso, si impossessavano della somma di euro 500,00
sottraendola alla predetta Ispas Roxana Andreea, che la custodiva in
una bustina in cellophane di fazzoletti di carta piegati in quattro.
2. Avverso detta sentenza, nell’interesse di A.A., S.S.
e G.G., vengono proposti distinti, ma di
identico contenuto, ricorsi per cassazione per i seguenti motivi:
– inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, nella specie
l’art. 420 ter cod. proc. pen. (primo motivo);
-inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, nella specie
l’art. 110 cod. pen. (secondo motivo);
– inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, nella specie
gli artt. 624, 625, comma 1, n. 4 cod. pen. (terzo motivo);
-mancanza e/o manifesta illogicità della motivazione circa essenziali

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dati processuali/probatori trascurati o travisati, nella specie art. 192
cod. proc. pen. (quarto motivo).
2.1. In relazione al primo motivo, si eccepisce la violazione di legge in
cui è incorsa la Corte territoriale che, pur in presenza di un legittimo
impedimento del difensore a comparire all’udienza del 10.04.2014 a
causa di un sopraggiunto problema di salute insorto nella notte
precedente tale data, non ha disposto il rinvio del procedimento.

decisione della Corte territoriale nella semplice ricostruzione dei fatti
di causa, essendosi la stessa abbandonata ad una libera
interpretazione delle dichiarazioni rese dalla presunta persona offesa
ed avendo basato la valutazione del concorso del S.S. e del
G.G. sulla sola presunta reiterazione, in un breve lasso di
tempo, di condotte analoghe da parte dei tre imputati: il tutto, in
assenza di denuncia da parte della persona offesa.
2.3. In relazione al terzo motivo, si eccepisce la mancata ricorrenza
degli elementi costitutivi del reato di rapina essendo semmai
configurabile la figura meno grave del furto aggravato essendo stata
la condotta violenta indirizzata sulla cosa e non sulla persona.
2.4. In relazione al quarto motivo, si contesta la sentenza impugnata
che basa la condanna sulla base delle sole dichiarazioni non
riscontrate della persona offesa e che sia il denaro trovato nel
possesso del S.S. che quello nella disponibilità del G.G. non
proveniva dalla precedente asserita sottrazione alla meretrice.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I ricorsi, sotto diversi profili, appaiono tutti inammissibili.
2. Del tutto generico è il primo motivo di ricorso.
Lamenta il ricorrente la violazione della legge penale nell’avere i
giudici di appello disatteso la richiesta di rinvio dell’udienza del
10.04.2014 avanzata dal difensore in ragione di un sopravvenuto
impedimento dello stesso per motivi di salute.
Nel corpo della censura, il ricorrente non specifica il profilo di
violazione oggetto di contestazione (onere di specificazione tanto più
doveroso in ragione di un non comprensibile riferimento alla legge
sostanziale e non a quella processuale), limitandosi ad evidenziare

2.2. In relazione al secondo motivo, si rileva l’erroneità della

come “la rilevanza dei reati contestati agli appellanti avrebbe dovuto
consigliare alla Ecc.ma Corte di Appello di Catanzaro una maggiore
prudenza nello assumere la decisione in esame, ma forse a tanto non
era disponibile, se si considera che, molto probabilmente, la decisione
era ormai presa”.
La censura sembra, pertanto, denunciare non tanto una violazione di
legge (come detto, non indicata) bensì la ritenuta inopportunità del

influenzante la decisione in parola.
Sotto questo profilo, esclusa – in relazione all’espressione versata in
ricorso – ogni altra valutazione non rimessa a codesta Corte, va
rilevato come l’omessa specificazione della doglianza (si contesta la
valutazione in ordine all’omessa nomina di un sostituto, alla
completezza della certificazione medica prodotta, all’assolutezza
dell’impedimento, all’intempestività della segnalazione, all’assenza di
reale motivazione del provvedimento o che altro ?) impedisca di fatto
il sindacato di legittimità non consentendo di verificare che la
decisione assunta sia effettivamente immune da vizi logico-giuridici.
3. Evocativo di non consentite censure in fatto e, comunque,
manifestamente infondato è il secondo motivo di ricorso.
3.1. Con motivazione logica e congrua – e quindi immune dai
denunciati vizi di legittimità – la Corte territoriale dà conto degli
elementi che l’hanno portata ad affermare la penale responsabilità
degli imputati in relazione al reato loro ascritto.
3.1.1. Va ricordato, in proposito, che il controllo del giudice di
legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale
della decisione di cui si saggia la oggettiva tenuta sotto il profilo
logico argomentativo, restando preclusa la rilettura degli elementi di
fatto posti a fondamento della decisione e l’autonoma adozione di
nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (tra le
varie, cfr. Sez. 3, sentt. n. 12110 del 19/03/2009 e n. 23528 del
06/06/2006). Ancora, la giurisprudenza ha affermato che l’illogicità
della motivazione per essere apprezzabile come vizio denunciabile,
deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile
ictu ocu/i, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere
limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le
minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni

provvedimento adombrandosi l’esistenza di un “preconcetto”

difensive che, anche se non espressamente confutate, siano
logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano
spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento (Sez.
3, sent. n. 35397 del 20/06/2007; Sez. U, sent. n. 24 del
24/11/1999, Spina, Rv. 214794).
Successivamente, è stato ribadito come ai sensi di quanto disposto
dall’art. 606 cod. proc. pen., comma 1, lett. e), il controllo di

legittimità sulla motivazione non attiene ne’ alla ricostruzione dei fatti
ne’ all’apprezzamento del giudice di merito, ma è circoscritto alla
verifica che il testo dell’atto impugnato risponda a due requisiti che lo
rendono insindacabile: a) l’esposizione delle ragioni giuridicamente
significative che lo hanno determinato; b) l’assenza di difetto o
contraddittorietà della motivazione o di illogicità evidenti, ossia la
congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del
provvedimento (Sez. 2, sent. n. 21644 del 13/02/2013, Badagliacca e
altri, Rv. 255542).
Il sindacato demandato a questa Corte sulle ragioni giustificative della
decisione ha dunque, per esplicita scelta legislativa, un orizzonte
circoscritto. Non c’è, in altri termini, come richiesto nel presente
ricorso, la possibilità di andare a verificare se la motivazione
corrisponda alle acquisizioni processuali. E ciò, anche alla luce del
vigente testo dell’art. 606 cod. proc. pen., comma 1, lett. e) come
modificato dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46.
3.1.2. Il giudice di legittimità non può procedere ad una rinnovata
valutazione dei fatti ovvero ad una rivalutazione del contenuto delle
prove acquisite, trattandosi di apprezzamenti riservati in via esclusiva
al giudice del merito. Il ricorrente non può, come nel caso che ci
occupa, limitarsi a fornire una versione alternativa del fatto, senza
indicare specificamente quale sia il punto della motivazione che
appare viziato dalla supposta manifesta illogicità e, in concreto, da
cosa tale illogicità vada desunta.
Il vizio della manifesta illogicità della motivazione deve essere
evincibile dal testo del provvedimento impugnato. Com’è stato
rilevato nella citata sentenza 21644/13 di questa Corte, la sentenza
deve essere logica “rispetto a sè stessa”, cioè rispetto agli atti
processuali citati. In tal senso, la novellata previsione secondo cui il
vizio della motivazione può risultare, oltre che dal testo del

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provvedimento impugnato, anche da “altri atti del processo”, purché
specificamente indicati nei motivi di gravame, non ha infatti
trasformato il ruolo e i compiti di questa Corte, che rimane giudice
della motivazione, senza essersi trasformato in un ennesimo giudice
del fatto. Avere introdotto la possibilità di valutare i vizi della
motivazione anche attraverso gli “atti del processo” costituisce invero
il riconoscimento normativo della possibilità di dedurre in sede di

forza del quale il giudice di legittimità, lungi dal procedere ad una
(inammissibile) rivalutazione del fatto (e del contenuto delle prove),
prende in esame gli elementi di prova risultanti dagli atti per
verificare se il relativo contenuto è stato o meno trasfuso e valutato,
senza travisamenti, all’interno della decisione.
In altri termini, vi sarà stato “travisamento della prova”, qualora il
giudice di merito abbia fondato il proprio convincimento su una prova
che non esiste (ad esempio, un documento o un testimone che in
realtà non esiste) o su un risultato di prova incontestabilmente
diverso da quello reale (alla disposta perizia è risultato che lo
stupefacente non fosse tale ovvero che la firma apocrifa fosse
dell’imputato). Oppure dovrà essere valutato se c’erano altri elementi
di prova inopinatamente o ingiustamente trascurati o fraintesi. Ma occorrerà ancora ribadirlo – non spetta comunque a questa Corte
Suprema “rivalutare” il modo con cui quello specifico mezzo di prova
è stato apprezzato dal giudice di merito. Per esserci stato
“travisamento della prova” occorre, tuttavia, che sia stata inserita nel
processo un’informazione rilevante che invece non esiste nel processo
oppure si sia omesso di valutare una prova decisiva ai fini della
pronunzia. In tal caso, però, al fine di consentire di verificare la
correttezza della motivazione, va indicato specificamente nel ricorso
per cassazione quale sia l’atto che contiene la prova travisata od
omessa. Il mezzo di prova che si assume travisato od omesso deve
inoltre avere carattere di decisività. Diversamente, infatti, si
chiederebbe al giudice di legittimità una rivalutazione complessiva
delle prove che, come più volte detto, sconfinerebbe nel merito. Se
questa, dunque, è la prospettiva ermeneutica cui è tenuta questa
Suprema Corte, le censure che i ricorrenti rivolgono al provvedimento
impugnato si palesano manifestamente infondate, non apprezzandosi

legittimità il cosiddetto “travisamento della prova” che è quel vizio in

nella motivazione della sentenza della Corte d’Appello di Catanzaro
alcuna illogicità che ne vulneri la tenuta complessiva.
3.1.3. Rispetto a tale motivata, logica e coerente pronuncia, i
ricorrenti chiedono sostanzialmente una rilettura degli elementi di
fatto posti a fondamento della decisione e l’adozione di nuovi e diversi
parametri di ricostruzione e valutazione. Ma, per quanto sin qui detto,
un siffatto modo di procedere è inammissibile perché trasformerebbe

Invero, lo sviluppo argomentativo della motivazione della sentenza
impugnata, da integrarsi con quella di primo grado, è fondato su una
coerente analisi critica degli elementi di prova e sulla loro
coordinazione in un organico quadro interpretativo, alla luce del quale
appare dotata di adeguata plausibilità logica e giuridica l’attribuzione
a detti elementi del requisito della sufficienza, rispetto al tema di
indagine concernente la responsabilità dei ricorrenti in ordine al
delitto loro contestato.
3.2. Nel merito, va solo detto come la (richiamata) pronuncia di
primo grado evidenzi innanzitutto la credibilità della persona offesa,
la cui attendibilità intrinseca ed estrinseca risulta positivamente
verificata e precisa come le indagini presero piede dalla circostanziata
denuncia resa dalla stessa nell’immediatezza della rapina subìta. In
quella sede, infatti, la donna riusciva ad indicare “la tipologia, il colore
e la targa dell’autovettura a bordo della quale i rapinatori
viaggiavano, le fattezze fisiche e l’abbigliamento dei tre indagati, che
è risultato corrispondente a quanto constatato dai militari dopo che
gli stessi furono condotti in caserma. La persona offesa ha poi
riconosciuto con assoluta certezza gli indagati dopo averli veduti
mentre si trovavano in caserma …; … la validità del riconoscimento
effettuato dalla Ispas è corroborata dalla circostanza che la predetta
era già stata in precedenza rapinata dai tre imputati e che, sempre ad
opera degli stessi, aveva subìto un tentativo di rapina solo una
settimana prima dei fatti per cui si procede, sicchè ne aveva ben
impressi in mente i tratti somatici …”.
4. Manifestamente infondato è il terzo motivo di ricorso.
Trattasi di censura che reitera pedissequamente un motivo di appello
in relazione al quale la Corte territoriale ha reso ampia e giustificata
motivazione.

questa Corte di legittimità nell’ennesimo giudice del fatto.

4.1. Invero, per consolidata giurisprudenza di questa Suprema Corte,
è da ritenersi inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi
che si risolvono nella pedissequa reiterazione di quelli già dedotti in
appello e motivatamente disattesi dal giudice di merito, dovendosi gli
stessi considerare non specifici ma soltanto apparenti, in quanto non
assolvono la funzione tipica di critica puntuale avverso la sentenza
oggetto di ricorso (v., tra le tante, Sez. 5, sent. n. 25559 del

15/06/2012, Pierantoni; Sez. 6, sent. n. 22445 del 08/05/2009, p.m.
in proc. Candita, Rv. 244181; Sez. 5, sent. n. 11933 del 27/01/2005,
Giagnorio, Rv. 231708). In altri termini, è del tutto evidente che, a
fronte di una sentenza di appello che ha fornito una risposta ai motivi
di gravame, la pedissequa riproduzione di essi come motivi di ricorso
per cassazione non può essere considerata come critica argomentata
rispetto a quanto affermato dalla Corte d’appello: in questa ipotesi,
pertanto, i motivi sono necessariamente privi dei requisiti di cui
all’art. 581 cod. proc. pen., comma 1, lett. c), che impone la
esposizione delle ragioni di fatto e di diritto a sostegno di ogni
richiesta (Sez. 6, sent. n. 20377 del 11/03/2009, Arnone, Rv.
243838).
4.2. Nel merito, già in primo grado si evidenziava come si fosse in
presenza di una condotta minacciosa e violenta, consistita nel
pretendere la dazione del denaro in termini intimidatori e nel
sottrarre la refurtiva di dosso alla vittima che veniva spintonata ed
alla quale venivano procurate anche lievi lesioni.
4.3. Ritiene l’odierno Collegio di concordare con la valutazioni in
punto di diritto effettuata dai giudici territoriali circa il fatto che
nell’azione emergente dagli atti sia configurabile il reato di rapina e
non quello di furto con strappo ex art. 624 bis, comma 2, cod. pen..
4.3.1. Infatti, secondo consolidato orientamento di questa Corte
Suprema, condiviso anche dall’odierno Collegio, “integra il reato di
furto con strappo la condotta di violenza immediatamente rivolta
verso la cosa e solo in via del tutto indiretta verso la persona che la
detiene, mentre ricorre il delitto di rapina quando la

“res” sia

particolarmente aderente al corpo del possessore e la violenza si
estenda necessariamente alla persona, dovendo il soggetto attivo
vincerne la resistenza e non solo superare la forza di coesione
inerente alla normale relazione fisica tra il possessore e la cosa

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sottratta” (ex ceteris, Sez. 2, sent. n. 41464 del 11/11/2010, dep.
23/11/2010, Rv. 248751; Sez. 2, sent. n. 34206 del 03/10/2006,
dep. 12/10/2006, Rv. 234776). Nella seconda delle citate sentenze, si
è, infatti, condivisibilrnente posto in rilievo che la figura del furto con
strappo è, come è noto, divenuta figura autonoma di reato, in luogo
della precedente ipotesi di aggravante delineata dall’art. 625 cod.
pen., n. 4, – e la cui ratio veniva tradizionalmente individuata nella

– a sèguito della introduzione della fattispecie descritta dall’art. 624
bis cod. pen., ad opera della L. 26 marzo 2001, n. 128 (il cd.
“pacchetto sicurezza”).
4.3.2. Le ragioni dell’intervento del legislatore traspaiono con
chiarezza dagli stessi lavori parlamentari, ove si sottolineò come “il
moltiplicarsi di questo reato … dipende dall’aumentata disponibilità e
dall’aumentata circolazione dei beni. Ciò significa che un numero
crescente di persone, soprattutto quelle che hanno minori capacità di
difesa, restano vittime di questo reato, mentre la pena attuale non
appare più adeguata alla gravità, alla diffusione e all’allarme sociale
che esso suscita”. Già secondo i primi commentatori, dunque,
l’intervento normativo non avrebbe affatto integrato una operazione
“di pura cosmesi”, ma avrebbe realizzato, secondo i chiari auspici del
legislatore, un mutamento di regime volto a sottrarre al giudizio di
bilanciamento delle circostanze, fattispecie che – come il furto in
abitazione e quello con strappo – vengono avvertite, nella prospettiva
della sicurezza e della tranquillità dei cittadini, come dotate di un
particolare maggior disvalore. è, dunque, chiaramente avvertibile,
sullo sfondo, un mutamento di “logica” tra le precedenti figure
aggravate del furto in abitazione e del furto con strappo rispetto alle
omologhe fattispecie autonome, nel senso che, nella platea dei valori
preservati, assume un evidente ed univoco risalto la tutela anche (e,
forse, soprattutto) della persona vittima, in senso “fisico”, del reato.
Il pericolo per l’incolumità personale del soggetto che materialmente
detiene la cosa ha dunque giustificato – secondo alcuni – quella che,
sostanzialmente, costituisce una anticipazione della tutela del bene
stesso della vita. Non è un caso, d’altra parte, che nel codice penale
previgente l’ipotesi del furto con strappo costituisse una figura
attenuata di rapina e che l’innovazione successiva – neppure accolta

maggiore pericolosità dell’agente, per la particolare audacia mostrata

con favore unanime – abbia imposto una rigida distinzione tra i due
delitti, strutturalmente diversi, ma con aree “pratiche” di contiguità
assai marcate.
4.3.3. Gli approdi cui è pervenuta la prevalente dottrina e la
giurisprudenza di questa Corte sono noti.
La linea di displuvio che vale a distinguere la rapina dal furto con
strappo risiede, infatti, nella direzione della violenza esplicata

dall’agente: sussiste il furto con strappo quando la violenza è
immediatamente rivolta verso la cosa e solo in via del tutto indiretta
verso la persona che la detiene; integra, invece, la rapina, la violenza
diretta o che si sviluppa sulla persona. Si è infatti sottolineato, in
giurisprudenza, che nella fattispecie di furto con strappo la violenza si
esercita esclusivamente sulla cosa, anche se, a causa della relazione
fisica che intercorre tra la cosa sottratta e la persona che la detiene,
può derivare una ripercussione indiretta ed involontaria sulla
persona; ricorre invece la rapina allorché la cosa è particolarmente
aderente al corpo del possessore e costui, istintivamente o
deliberatamente, contrasta la sottrazione, cosicché la violenza
necessariamente si estende alla persona, in quanto l’agente non deve
superare soltanto la forza di coesione inerente al normale contatto
della cosa con la parte lesa, ma deve vincere la resistenza di questa.
Simili principi – che escono evidentemente rafforzati, alla luce della
segnalata ratio ispiratrice della introduzione della figura delineata
dall’art. 624 bis cod. pen., e del connesso risalto da assegnare alla
incolumità della vittima – valgono dunque ad escludere la possibilità
di ravvisare la figura del furto con strappo in tutte le ipotesi in cui la
violenza, comunque “indirizzata”, sia stata esercitata – come nel caso
in esame – per vincere la resistenza della parte offesa, giacché in tal
caso sarebbe la violenza stessa – e non lo “strappo” – a costituire il
mezzo attraverso il quale si realizza la sottrazione, determinando
automaticamente il refluire del fatto nello schema tipico del delitto di
rapina (Sez. 2, sent. n. 2553 del 19/12/2014, dep. 21/01/2015, Rv.
262281).
4.4. Nella fattispecie, deve ritenersi come la rapina fosse già
integrata dalla sola minaccia insita nella richiesta; alla stessa, è poi
seguita la condotta violenta della sottrazione e, infine, l’ulteriore
violenza posta in essere dopo la sottrazione per allontanare la

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vittima.
5. Manifestamente infondato è il quarto motivo di ricorso.
Al riguardo, appare opportuno ricordare come, secondo il consolidato
orientamento di questa Corte, condiviso dal Collegio, “in tema di
valutazione della prova testimoniale, a base del libero convincimento
del giudice possono essere poste le dichiarazioni della parte offesa.
Ne consegue che la deposizione della persona offesa dal reato, pur se

non può essere equiparata a quella del testimone estraneo, può
tuttavia essere assunta anche da sola come fonte di prova, ove sia
sottoposta a un attento controllo di credibilità oggettiva e soggettiva,
non richiedendo necessariamente neppure riscontri esterni, quando
non sussistano situazioni che inducano a dubitare della sua
attendibilità” (Sez. 3, sent. n. 22848 del 27/03/2003, dep.
23/05/2003, Rv. 225232).
La medesima giurisprudenza, inoltre, riconosce come non sia
sindacabile in sede di legittimità, salvo il controllo sulla congruità e
logicità della motivazione, la valutazione del giudice di merito, cui
spetta il giudizio sulla rilevanza e attendibilità delle fonti di prova,
circa contrasti testimoniali o la scelta tra divergenti versioni e
interpretazioni dei fatti (Sez. 2, sent. n. 20806 del 05/05/2011, dep.
25/05/2011, Rv. 250362).
Fermo quanto precede, rileva il Collegio come già il giudice di primo
grado avesse, condivisibilmente, ritenuto che elemento oggettivo di
riscontro delle dichiarazioni della persona offesa (sulla cui attendibilità
generale già si è detto) fosse costituito

“dalla coincidenza

dell’ammontare della somma denunciata come sottratta (euro
500,00) e delle particolari modalità di ripiegatura delle banconote (in
quattro), con la somma trovata in possesso degli imputati A.A. e
G.G., rispettivamente pari ad euro 110,00 e ad euro 390,00 le
cui banconote erano ripiegate nello stesso modo. Sul punto deve
anche segnalarsi che i due predetti indagati, ancor prima che la
polizia giudiziaria procedesse ad eseguire la perquisizione personale,
consegnavano spontaneamente le dette somme a dimostrazione della
piena consapevolezza della loro origine illecita; in particolare, il
G.G. veniva trovato in possesso anche della somma di euro
210,00 che, in quanto custodita all’interno del suo portafogli e non
ripiegata in quattro, non veniva sottoposta a sequestro …”.

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6. Alla pronuncia consegue, per il disposto dell’art. 616 cod, proc.
pen., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali
nonché al versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una
somma che, considerati i profili di colpa emergenti dai ricorsi, si
determina equitativamente in euro 1.000,00 per ciascuno

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento
delle spese processuali e ciascuno della somma di Euro 1.000,00 alla
Cassa delle ammende.
Così deliberato in Roma, udienza pubblica del 10.12.2015

Il Consigliere estensore

Il Presidente

Dott. Andre Pellegrino

Dott. Mario Gentile

PQM

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