Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 40209 del 13/05/2014


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 40209 Anno 2014
Presidente: TERESI ALFREDO
Relatore: ANDRONIO ALESSANDRO MARIA

Data Udienza: 13/05/2014

SENTENZA
sui ricorsi proposti
da
1) Militello Vincenzo, nato il 24 giugno 1981
2) Mannino Antonino, nato il 20 luglio 1981
3) Tumminia Pietro, nato il 10 maggio 1987
4) Paganello Filippo, nato il 30 gennaio 1955
5) Palazzotto Antonino, nato il 29 maggio 1987
6) Discrede Agostino, nato il 31 ottobre 1974
7) Citarelli Placido, nato il 19 settembre 1989
8) Miceli Ignazio, nato il 4 marzo 1980
9) Baglione Gaetano, nato il 30 settembre 1979
10)

Di Fatta Salvatore, nato il 27 gennaio 1981

11)

Rizzuto Matteo, nato il 26 agosto 1988

12)

D’Angelo Pietro, nato il 7 luglio 1977

13)

Cacioppo Gianfranco, nato il 20 settembre 1971

14)

Sancilles Paolo, nato il 10 febbraio 1983

15)

Sancilles Gregorio, nato il 7 maggio 1981

visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;
udita la relazione svolta dal consigliere Alessandro M. Andronio;
udito il pubblico ministero, in persona del sostituto procuratore generale, Aldo
Policastro, che ha concluso per: l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata
i

limitatamente alla pena per Cacioppo Gianfranco, con rigetto nel resto del ricorso; il
rigetto dei ricorsi di Militello Vincenzo, Mannino Antonino, Tumminia Pietro, Palazzotto
Antonino, Discrede Agostino, Citarelli Placido, Baglione Gaetano, D’Angelo Pietro,
Sancilles Paolo, Sancilles Gregorio; l’inammissibilità dei ricorsi di Rizzuto Matteo, Di
Fatta Salvatore, Miceli Ignazio, Paganello Filippo;
uditi gli avv.ti: Giuseppe Scozzola, per Militello Vincenzo, Mannino Antonino,
Sancilles Paolo, Sancilles Gregorio; Antonio Turrisi, per Citarelli Placido; Giovanni

Rizzuti, per Cacioppo Gianfranco.

RITENUTO IN FATTO
1. – Con sentenza del 19 dicembre 2012 la Corte d’appello di Palermo ha
parzialmente riformato tre sentenze del GUP del Tribunale di Palermo, rese a seguito
di giudizio abbreviato, la prima il 9 maggio 2011, la seconda il 10 maggio 2011, la
terza il 7 luglio 2011, con le quali – per quanto qui rileva – gli imputati odierni
ricorrenti erano stati condannati, a diverso titolo, per reati ex artt. 73 e 74 del d.P.R.
n. 309 del 1990, diversamente circostanziati.

confronti degli imputati sugli atti inseriti nel fascicolo del pubblico ministero, ritenuti
utilizzabili in relazione al rito prescelto, e consistenti negli esiti di un’articolata attività
posta in essere dai carabinieri con intercettazioni ambientali e telefoniche,
appostamenti sul territorio, perquisizioni sequestri di sostanza stupefacente. Il
procedimento trae origine dalle indagini compiute a seguito dell’arresto, in data 10
maggio 2007, di Sancilles Vittorio, trovato in possesso di circa 400 g di cocaina. Le
successive indagini avevano consentito di ricostruire – secondo quanto riportato dalla
Corte d’appello – un ramificato contesto criminale nel quale si svolgeva lo spaccio di
sostanze stupefacenti, per lo più cocaina, e di chiarire il ruolo assunto da ogni
soggetto indagato nell’ambito di due distinti sodalizi criminosi, di accertare i numerosi
reati-fine.
Il primo dei due sodalizi (capo A dell’imputazione) era formato – secondo
l’ipotesi accusatoria – da Militello, Mannino e dai Sancilles, oltre che da altri soggetti
giudicati separatamente. In particolare, per quanto qui rileva: Militello riforniva i
Sancilles costantemente di cocaina, e manteneva la loro famiglia durante il periodo di
detenzione di due di loro, pagando le spese legali; Mannino si occupava della vendita
ai singoli acquirenti di Sancilles Paolo dopo l’arresto di questo, detenendone il telefono
cellulare e proseguendone l’attività. Il secondo dei sodalizi criminosi (capo B
dell’imputazione) era formato – per quanto qui rileva – da Militello, Mannino,
Tumminia, Cucina, Palazzotto, Citarelli, Miceli, Di Fatta. Nell’ambito di tale gruppo,
Militello e Mannino distribuivano la cocaina agli altri associati – che svolgevano la
funzione di spacciatori insieme ad altri soggetti non identificati – ed esigevano i
pagamenti delle forniture dai vari spacciatori.
Il quadro accusatorio era confermato dalle dichiarazioni rese da collaboratori di
giustizia, inseriti nel mondo dello spaccio come fornitori di alto livello, principalmente
in contatto con Inzerra Vincenzo, soggetto giudicato separatamente. Il quadro era
ulteriormente confermato dalle dichiarazioni rese a sommarie informazioni testimoniali

I giudici di primo e secondo grado hanno fondato il giudizio di responsabilità nei

dagli acquirenti-tossicodipendenti, dall’osservazione sul territorio, dalle dichiarazioni
confessorie rese da alcuni degli indagati.
2. – Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione, tramite il
difensore, l’imputato Militello Vincenzo, condannato per reati di cui agli artt. 81,
secondo comma, cod. pen., 73 e 74, commi 1, 2, 3, del d.P.R. n. 309 del 1990 (capi
A, Al, B, Bl, B18 dell’imputazione), con recidiva reiterata, specifica e
infraquinquennale, al quale la Corte d’appello ha ridotto la pena inflitta in primo grado

2.1. – Con un primo motivo di doglianza, si rilevano la carenza e la manifesta
illogicità della motivazione nonché la violazione degli artt. 268-271 cod. proc. pen.
quanto alle intercettazioni telefoniche. Si evidenzia, in particolare, che la polizia
giudiziaria ha attestato che le operazioni di ascolto e di registrazione sono state
eseguite presso i locali della caserma dei carabinieri mediante l’utilizzo di
apparecchiature di proprietà di una società terza. La stessa polizia giudiziaria dà atto
del fatto che le attività di intercettazione si svolgono presso la caserma dei carabinieri,
anche nelle richieste di proroga. Tali attestazioni non distinguevano fra operazioni di
registrazione e operazioni di riascolto. Successivamente erano stati poi inviati dalla
polizia giudiziaria note nelle quali si affermava che solo per errore materiale era stato
indicato come luogo di registrazione quello della caserma dei carabinieri. Proprio
tenendo conto di tali aspetti, il Tribunale del riesame, decidendo sul rinvio della Corte
di cassazione, aveva annullato l’ordinanza di custodia cautelare emessa nei confronti
di uno dei coimputati, giudicato in altro procedimento, non essendo possibile stabilire
se le intercettazioni fossero avvenute con le modalità di cui ai verbali di fine operazioni
o di cui, appunto, a tali note. L’affermazione contenuta nella sentenza secondo cui le
intercettazioni telefoniche dal settembre 2005 sarebbero state registrate presso il
server della Procura della Repubblica contrasterebbe con la documentazione in atti,
dalla quale risulterebbe che le intercettazioni erano state effettuate utilizzando centri
esterni all’ufficio della Procura della Repubblica. Né varrebbe a superare tale
inconveniente interpretativo la certificazione rilasciata dalla Procura, trattandosi di
atto non fidefacente. Quanto, in particolare, al decreto di intercettazione telefonica n.
2659 del 2007, le relative intercettazioni sarebbero inutilizzabili, perché lo stesso
sarebbe stato convalidato fuori termini, in quanto emesso dal pubblico ministero il 5
ottobre 2007, comunicato al Gip e convalidato 1’8 ottobre e, dunque, in violazione del
termine di 48 ore previsto dall’art. 267, comma 2, cod. proc. pen.

ad anni 12, mesi 5, giorni 10 di reclusione.

2.2. – Con un secondo motivo di doglianza, si rileva, quanto ai reati associativi,
che la sentenza impugnata si sarebbe limitata a recepire i risultati degli accertamenti
di polizia giudiziaria. Quanto all’associazione di cui al capo A, non si sarebbe
considerato, in particolare, che in nessun momento della sua ipotizzata esistenza vi
era stato il numero minimo di tre soggetti, perché Sancilles Vittorio era stato sostituito
da Sancilles Paolo e questo, a sua volta, era stato sostituito da Sancilles Gregorio,
senza che nessuno di tali soggetti fosse presente in contemporanea con gli altri. Né

individuato nelle intercettazioni in quanto soprannominato “il porco”, in mancanza di
certezza sull’attribuzione di tale soprannome, perché quest’ultimo era risultato
attribuibile a un Vincenzo – nome molto comune – non necessariamente identificabile
con Vincenzo Militello.
2.3. – Si deducono, in terzo luogo, la mancanza, la contraddittorietà e la
manifesta illogicità della motivazione quanto al mancato riconoscimento della
sussistenza delle ipotesi di minore gravità di cui al comma 5 dell’art. 73 e al comma 6
dell’art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990. Non si sarebbe considerato, in particolare, che i
fatti contestati sono stati commessi in un lasso di tempo di meno di un anno e che le
condotte sono state volontariamente interrotte prima dell’arresto e avevano ad
oggetto stupefacente di cattiva qualità, spacciato in piccole quantità e saltuariamente,
tanto che vi erano continue lamentele da parte della clientela.
3. – La sentenza è stata impugnata, tramite il difensore, anche dall’imputato
Mannino – condannato per reati di cui agli artt. 81, secondo comma, cod. pen., 73 e
74, commi 1, 2, 3, del d.P.R. n. 309 del 1990 (capi A, Al, B, Bl, B18
dell’imputazione), con recidiva reiterata, specifica e infraquinquennale, al quale la
Corte d’appello ha ridotto la pena inflitta in primo grado ad anni 10 e mesi 7 di
reclusione – sulla base di motivi in larga parte analoghi a quelli proposti dal
coimputato Militello.
3.1. – Quanto alle intercettazioni telefoniche, la difesa aggiunge un ulteriore
rilievo relativo alla mancanza di motivazione circa il decreto n. 1621 del 2007, emesso
il 16 giugno 2007 dal pubblico ministero e convalidato dal gip il 18 giugno 2007, con
scadenza al 3 luglio 2007. Non si sarebbe considerato che la prima data che si evince
nel decreto di proroga concessa dal Gip è quella del 5 luglio 2007, ed è dunque secondo la difesa – fuori termini; con la conseguenza che – sempre secondo la difesa
– resterebbero inutilizzabili le intercettazioni svolte fra il 3 luglio 2007 e il 5 luglio
2007. Anche le successive intercettazioni sarebbero inutilizzabili, ad avviso della

Militello e Mannino sarebbero stati visti insieme in quel periodo. Il primo sarebbe stato

difesa, perché il decreto di proroga non conterrebbe gli elementi di cui agli artt. 267 e
268, comma 3, cod. proc. pen., la cui presenza è condizione essenziale per
l’equiparazione di tale decreto ad un nuovo decreto di intercettazione. Questo
sarebbe, infatti, privo della motivazione circa le eccezionali ragioni di urgenza che
giustificano l’uso di impianti esterni e circa l’indispensabilità del ricorso alle
intercettazioni.
3.2. – Quanto ai reati associativi, la difesa precisa, con particolare riferimento

con il coimputato Militello e vi è, anzi, incertezza sulla riferibilità delle intercettazioni
allo stesso Mannino e ai suoi rapporti con i coimputati Sancilles.
3.3. – Quanto alla mancata applicazione dell’ipotesi di minore gravità, la difesa
– oltre a ribadire doglianze analoghe a quelle già riportate sub 2.3. – evidenzia che la
posizione del ricorrente è caratterizzata dal fatto che questo è stato arrestato il 14
dicembre 2007, prima che fosse trascorso un anno dall’inizio dell’attività dell’ipotizzata
associazione.
4. – Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione, tramite il
difensore, anche l’imputato Tumminia – condannato per i reati di cui agli artt. 81,
secondo comma, cod. pen., 73 e 74, commi 1, 2, 3, del d.P.R. n. 309 del 1990 (capi B
e B5 dell’imputazione).
4.1. – Il ricorrente lamenta, con un primo motivo di doglianza, la violazione
dell’art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990, nonché la contraddittorietà e la manifesta
illogicità della motivazione in relazione al reato associativo. Ad avviso della difesa, la
Corte d’appello avrebbe violato il «pregresso giudicato cautelare formatosi sul punto»,
desumendo la sussistenza del reato associativo da singoli episodi di cessione collocati
in un orizzonte temporale limitato, in mancanza di prova dei rapporti dell’imputato con
i presunti associati e dell’attività da lui svolta a vantaggio del sodalizio. Nel ricorso si
richiamano, poi, passaggi dell’ordinanza del Tribunale del riesame del 31 dicembre
2009 dai quali si ricaverebbe – secondo la prospettazione difensiva – la mancanza di
un quadro indiziario sufficientemente grave in relazione al reato associativo. Con
riferimento alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, la difesa evidenzia che
questi non conoscono l’imputato. Quanto a quelle dei tossicodipendenti-acquirenti
D’Alessandro e Sparacino, nel ricorso si sostiene che le stesse sono irrilevanti, perché
l’utilizzazione da parte dell’imputato di utenza telefonica intestata ad altri era già
ricavabile da altri atti investigativi. Mancherebbero, inoltre, pedinamenti, perquisizioni
o sequestri a carico del ricorrente. Le intercettazioni telefoniche sarebbero, comunque,

alla posizione dell’imputato Mannino, che non vi è prova della sua interscambiabilità

dotate di scarsa efficacia probatoria perché riferite a conversazioni generiche, dalle
quali non emergerebbe neanche la tipologia della sostanza stupefacente; e,
comunque, riguarderebbero solo un periodo di circa due settimane nel febbraio-marzo
2008. Non si sarebbe considerato, infine, che il ricorrente aveva volontariamente
interrotto i rapporti con i presunti associati.
4.2. – Un secondo motivo di doglianza è riferito alla manifesta illogicità della
motivazione e all’erronea applicazione dell’art. 133 cod. pen., sul rilievo che non si

all’associazione e si sarebbe, dunque, applicata una pena eccessiva, con una modesta
diminuzione per le riconosciute circostanze attenuanti generiche.
5. – La sentenza è stata impugnata, tramite il difensore, anche dall’imputato
Paganello Filippo – condannato per il reato di cui agli artt. 81, secondo comma, 110
cod. pen., 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 (capo C19), al quale la Corte d’appello ha
ridotto la pena inflitta in primo grado ad anni 4, mesi 2 di reclusione ed euro
20.000,00 di multa.
5.1. – Con un primo motivo di doglianza, si denuncia la contraddittorietà della
motivazione quanto all’esame delle intercettazioni ambientali. Non si sarebbe
specificato, in particolare, quale sarebbe la valenza probatoria di una conversazione
registrata 1’11 aprile 2008 tra D’Anna e Targia, soggetti diversi dal ricorrente, senza
considerare che la stessa non può essere assimilata alla testimonianza, ma al più ad
una prova documentale; con la conseguenza che potrebbe essere ritenuto «dimostrato
il fatto della rappresentazione, non anche il fatto rappresentato». E la conversazione
del 17 aprile 2008 tra Targia, D’Anna e Paganello non aggiungerebbe dati rilevanti al
quadro probatorio, con particolare riferimento alla funzione di rifornimento di
stupefacente attribuita a Paganello.
5.2. – Si lamenta, in secondo luogo, l’illogica utilizzazione delle intercettazioni
del 19 aprile 2008 del 22 aprile 2008. Queste sarebbero state interpretate – per la
difesa – in modo arbitrario, senza considerare l’assoluta equivocità della terminologia
usata, e sulla base di un’indebita sovrapposizione con una condanna riportata per fatti
diversi, commessi il 18 maggio 2008.
5.3. – Vi sarebbe, poi, contraddittorietà della motivazione in relazione al
contenuto di tutte le intercettazioni ambientali, che non si riferiscono – secondo la
difesa del ricorrente – in modo chiaro a Paganello e dalle quali non può essere
desunto, dunque, un suo ruolo nell’ambito della fornitura di sostanza stupefacente,

sarebbe considerato il carattere residuale dell’apporto dato dall’imputato

perché troppo generici sono i richiami alla situazione economica dell’interlocutore per
far ritenere che gli stessi siano riconducibili all’attività di spaccio.
5.4. – Con un quarto motivo di impugnazione, si denuncia la mancanza di
motivazione quanto al diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche
e quanto alla quantificazione della pena.
6. – Avverso la sentenza ha proposto personalmente ricorso per cassazione
anche l’imputato Palazzotto, condannato per i reati di cui agli artt. 81, secondo

dell’imputazione, escluse alcune condotte), alla pena di anni 7 e mesi 4 di reclusione.
6.1. – Si lamenta, in primo luogo, la violazione degli artt. 3, 24, 111 Cost. e
190-191 cod. proc. pen. Il ricorrente rileva di avere eccepito l’inutilizzabilità dei
risultati delle intercettazioni telefoniche all’udienza preliminare e che in tale sede il
giudice aveva rimesso la decisione sull’utilizzabilità di tali risultati all’esito della
discussione, non consentendo così al ricorrente stesso di formulare la scelta del rito
abbreviato attraverso la conoscenza piena e completa delle prove legittimamente
acquisite. In particolare la previsione per cui l’inutilizzabilità è rilevabile anche d’ufficio
in ogni Stato e grado del procedimento dovrebbe essere interpretata nel senso che il
Gip sarebbe tenuto a decidere, durante l’udienza preliminare, circa l’utilizzabilità delle
prove; ciò allo scopo di evitare l’instaurazione di un giudizio abbreviato sulla base di
prove non utilizzabili. Una tale interpretazione si desumerebbe anche all’art. 111
Cost., alla luce del quale l’imputato ha il diritto di preventivamente conoscere quale
sarà il materiale probatorio legittimamente acquisito su cui si fonderà la decisione del
giudice, che è tenuto a provvedere, senza ritardo con ordinanza, escludendo le prove
vietate dalla legge e quelle manifestamente superflue o irrilevanti (art. 190, comma 1,
cod. proc. pen.).
6.2. – In secondo luogo, si formula una censura relativa alla violazione degli
artt. 267, 268, 271 analoga a quelle riportata

sub 2.1. e 3.1. Si sottolinea, in

particolare, che le certificazioni del 15 ottobre 2008 e del 28 ottobre 2008, con le quali
si rappresenta che, a far data da settembre 2005, tutti i decreti di intercettazione
telefonica sono esclusivamente registrati presso il

server della Procura della

Repubblica, sono in contrasto con i decreti di intercettazione emessi nell’ambito di
altro procedimento penale prodotti in atti, con i quali si dispone, invece, in data
successiva al settembre 2005, che le intercettazioni siano svolte con impianti esterni
alla Procura. Si tratterebbe, peraltro, di certificazioni provenienti da uffici
amministrativi e non direttamente dal magistrato del pubblico ministero. Né

comma, cod. pen., 73 e 74, commi 1, 2, 3, del d.P.R. n. 309 del 1990 (capi B, B5

l’indicazione dell’orario di inizio della registrazione consentirebbe di verificare se
questa si è effettivamente svolta nei locali della Procura della Repubblica, mancando
in atti i verbali di effettivo inizio delle operazioni. Con particolare riferimento al
decreto n. 2659 del 2007 – anch’esso già oggetto di censura da parte del coimputato
Militello (sub 2.1.) – si lamenta che il Gip avrebbe, in presenza di una convalida
tardiva, ritenuto inutilizzabili le sole intercettazioni anteriori al provvedimento di
convalida e non anche quelle successive.

309 del 1990, nonché la mancanza, la contraddittorietà, la manifesta illogicità della
motivazione, laddove: a) si ritiene provata l’appartenenza al sodalizio in capo al
ricorrente sulla base del fatto che gli associati si sarebbero prestati vicendevolmente a
svolgere attività di consegna di dosi di stupefacente ai singoli acquirenti; b) si
ritengono provate ipotesi di spaccio risalenti nel tempo sulla base di non meglio
specificate dichiarazioni rese dai presunti acquirenti. Si sarebbe inoltre trascurato di
considerare il dato fondamentale del limitatissimo lasso di tempo nel quale vi
sarebbero stati contatti fra l’imputato e i presunti correi. Più in particolare, i colloqui
telefonici con Militello sarebbero 11, quelli con Mannino solo 7, quelli con gli altri
coimputati in numero ancora inferiore. Le dichiarazioni degli acquirenti
confermerebbero, infine, che questi avevano trattato in via diretta solo con Palazzotto
e che non vi erano rapporti tra quest’ultimo e altri soggetti in relazione allo spaccio.
7. – Con unico ricorso per cassazione, la sentenza è stata impugnata, tramite il
difensore, anche dagli imputati Discrede e Baglione, condannati per reati di cui agli
artt. 81, secondo comma, cod. pen., 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 (capo C10 per il
primo, capi C12, D, per il secondo), in relazione ai quali la Corte d’appello ha ridotto le
pene inflitte in primo grado.
7.1. – Con un primo motivo di doglianza si svolgono, quanto all’utilizzabilità
delle intercettazioni telefoniche, rilievi analoghi a quelli svolti dai coimputati e già
riportati sub 2.1., 3.1., 6.2.
7.2. – Si deducono, in secondo luogo, l’erronea applicazione degli artt. 446 e
448 cod. proc. pen., nonché la manifesta illogicità della motivazione, perché il GUP
avrebbe dovuto ritenere ingiustificato il dissenso del pubblico ministero alla richiesta di
applicazione di pena fatta dall’imputato ed avrebbe dovuto, di conseguenza, applicare
la pena richiesta.
7.3. – Il terzo motivo di doglianza ha per oggetto la manifesta illogicità della
motivazione e l’erronea applicazione dell’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990,

6.3. – Si censurano, in terzo luogo, la violazione degli artt. 73 e 74 del d.P.R. n.

perché non si sarebbe considerato che le cessioni di stupefacenti poste in essere da
Discrede sarebbero state di minima rilevanza per il numero, per i quantitativi e per i
corrispettivi in denaro.
7.4. – Con un quarto motivo di censura, si prospettano la manifesta illogicità
della motivazione e l’erronea applicazione dell’art. 85 del d.P.R. n. 309 del 1990 in
relazione alla misura di sicurezza della sospensione della patente di guida inflitta ad
entrambi i ricorrenti. Non sarebbe stata accertata, in particolare, la pericolosità sociale

8. – Con ricorso per cassazione presentato personalmente, la sentenza è stata
impugnata anche dall’imputato Citarelli, condannato per i reati di cui agli artt. 81,
secondo comma, 110 cod. pen., 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 (capo B5), per il quale
la Corte d’appello, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha ridotto la pena
ad anni 4 e mesi 2 di reclusione e, previo riconoscimento della continuazione con un
reato già giudicato con sentenza del Gip del Tribunale di Palermo del 9 marzo 2010,
divenuta irrevocabile il 29 aprile 2010, l’ha condannato alla pena complessiva di anni
4 e mesi 8 di reclusione ed euro 14.000,00 di multa.
8.1. – Il primo motivo di impugnazione è riferito alla mancanza,
contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, nonché alla violazione della
disposizione incriminatrice, perché i giudici d’appello non avrebbero dato contezza del
percorso logico-argomentativo seguito per ritenere sussistente la responsabilità
penale dell’imputato. Gli episodi contestati consistono in acquisto, trasporto,
detenzione, spaccio di cocaina a più persone, posti in essere in concorso con i
coimputati, anche attraverso sostituzioni reciproche e scambi delle utenze cellulari per
i contatti con gli acquirenti. La Corte distrettuale avrebbe trascurato di prendere in
considerazione i singoli episodi di spaccio contestati cui ci si riferiva nell’atto di
appello. La difesa deduce, in particolare, con riferimento ai singoli presunti acquirenti,

concreta degli imputati.

che dalle intercettazioni telefoniche risultavano solo accordi per incontri in vari luoghi,
senza che alcun riferimento fosse fatto all’oggetto di tali incontri né tanto meno alla
cessione di sostanze stupefacenti, e senza che vi fossero stati servizi di osservazione
per verificare quanto effettivamente accadeva durante tali incontri.
8.2. – Con un secondo motivo di doglianza, si prospettano la mancanza e la
manifesta illogicità della motivazione, nonché l’erronea applicazione dell’art. 73,
comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990, quanto al mancato riconoscimento dell’ipotesi di
minore gravità per il reato di cui al capo B5 oggetto di contestazione. Non si sarebbe

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considerato, in particolare, che, pur in presenza di un ipotizzato spaccio continuativo, i
quantitativi ceduti erano sempre assai modesti.
8.3. – Si lamentano, in terzo luogo, la mancanza e la manifesta illogicità della
motivazione quanto al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche,
perché si sarebbero trascurati il ristretto lasso temporale nel quale i fatti sarebbero
stati posti in essere, nonché le modiche quantità di stupefacente cedute e l’esistenza
di un solo precedente penale.

2014, e con ulteriore memoria successivamente depositata, si svolgono, quanto
all’utilizzabilità delle intercettazioni telefoniche, rilievi analoghi a quelli di altri
ricorrenti (sub 2.1., 3.1., 6.2., 7.1.) e si deposita documentazione, comprensiva di
provvedimenti resi in sede cautelare relativamente alle posizioni di alcuni dei
coimputati.
9. – La sentenza è stata impugnata, con ricorso presentato personalmente, da
Miceli Ignazio, condannato per i reati di cui agli artt. 81, secondo comma, 110 cod.
pen., 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 (capo B5), limitatamente alle condotte commesse
nel febbraio 2008.
9.1. – Si lamenta, in primo luogo, la manifesta illogicità della motivazione con
riferimento agli sporadici contatti telefonici avuti con i coimputati, sul duplice rilievo
che questi riguardavano argomenti generici e che non vi erano stati appostamenti o
servizi di osservazione, né perquisizioni o sequestri, in grado di confermare le
ipotizzate cessioni di stupefacenti. La motivazione della sentenza impugnata sarebbe,
poi, carente con riferimento alla censura relativa ad una pretesa confessione resa
nell’interrogatorio di garanzia del 18 dicembre 2009, posta dal giudice di primo grado
a sostegno dell’affermazione della penale responsabilità dell’imputato. Non si sarebbe
considerato, in particolare, che in sede di interrogatorio di garanzia, l’imputato stesso
si era avvalso la facoltà di non rispondere e non aveva reso, dunque, alcuna
confessione.
9.2. – Con un secondo motivo di doglianza, si lamentano la violazione dell’art.
73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 e la manifesta illogicità della motivazione in
relazione al mancato riconoscimento dell’ipotesi di minore gravità, perché non si
sarebbe considerato che la cessione di stupefacente, pur in ipotesi continuativa, aveva
avuto ad oggetto quantitativi modesti. Né si sarebbero considerati lo stato di
incensuratezza del ricorrente e la mancanza di carichi pendenti.

8.4. – Con motivi nuovi di ricorso, redatti dal difensore e depositati il 25 marzo

9.3. – Manifestamente illogica sarebbe, poi, la motivazione quanto alla
quantificazione della pena, perché si sarebbe trascurato di considerare
l’incensuratezza, la mancanza di carichi pendenti, il corretto comportamento
processuale.
9.4. – In quarto luogo, si deducono la contraddittorietà e la carenza di
motivazione in ordine al mancato adeguamento della pena al caso concreto e al
mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, perché non si

10. – Con unico motivo di doglianza proposto personalmente, la sentenza è
stata impugnata anche dall’imputato Di Fatta, condannato per il reato di cui agli artt.
110 cod. pen., 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 (capo B5), limitatamente alla
condotta di concorso nella cessione di stupefacenti a Lo Bianco Marlene, alla pena di
anni uno, mesi 6 di reclusione ed euro 10.000 di multa.
Il ricorrente lamenta, in particolare, la mancanza di motivazione circa i criteri di
valutazione delle prove poste a sostegno della ritenuta responsabilità penale.
11. – Tramite il difensore, la sentenza è stata impugnata anche dall’imputato
Rizzuto, condannato per i reati di cui agli artt. 81, secondo comma, cod. pen., 73,
comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 (capo B8), con esclusione della contestata
recidiva e concessione delle circostanze attenuanti generiche, alla pena di anni 2, mesi
10 di reclusione ed euro 12.000,00 di multa.
Con unico motivo di doglianza, si prospetta la carenza di motivazione in
relazione all’entità della pena, perché non si sarebbe considerata la mancanza di
pericolosità sociale dell’imputato.
12.

– La sentenza è stata impugnata personalmente da D’Angelo Pietro,

condannato – per il reato di cui agli artt. 81, secondo comma, 110 cod. pen., 73,
comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 (capo B11), così riqualificato dal Tribunale,

sarebbero considerate le condizioni personali e familiari dell’imputato.

ritenuta la prevalenza della circostanza attenuante di cui al comma 5 dello stesso art.
73 sulla recidiva contestata – alla pena di anni 2, mesi 4 di reclusione ed euro
10.000,00 di multa.12.1. – Con un primo motivo di doglianza, si rilevano la
mancanza, la contraddittorietà, la manifesta illogicità della motivazione, con
riferimento alla valutazione delle intercettazioni telefoniche e dei rapporti tra
l’imputato e i coimputati Militello, Mannino e Palazzotto. Le conversazioni intercettate
– contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte d’appello – avevano, secondo il
ricorrente, un contenuto generico. Mancherebbero, comunque, riscontri costituiti da
perquisizioni e sequestri e non si sarebbe tenuto conto del fatto che l’imputato era
1

2A\

tossicodipendente e non svolgeva affatto l’attività illecita di intermediazione
attribuitagli.
12.2. – Con un secondo motivo di doglianza, si contesta la riqualificazione in
termini di concorso dell’originaria imputazione ex artt. 81, secondo comma, cod. pen.
e 73 del d.P.R. n. 309 del 1990. Si lamenta, in particolare, che la condotta
dell’imputato, originariamente contestata in termini di detenzione e cessione a più
persone di cocaina, è – secondo la prospettazione del ricorrente – diversa da quella di

13. – Vi è poi il ricorso proposto dal difensore nell’interesse di Cacioppo
Gianfranco, condannato per reati di cui agli artt. 81, secondo comma, cod pen., 73
del d.P.R. n. 309 del 1990 (capo D3), ritenuta sussistente l’ipotesi di cui al comma 5
del richiamato art. 73 ed esclusa la recidiva contestata, alla pena di anni 3, mesi 2 di
reclusione ed euro 12.000,00 di multa.
13.1. – Con un primo motivo di censura, si lamentano l’erronea applicazione
della disposizione incriminatrice, nonché la mancanza, contraddittorietà e manifesta
illogicità della motivazione quanto alla ritenuta responsabilità penale, sul rilievo che
non si sarebbe tenuto conto delle doglianze formulate con l’atto d’appello. Evidenzia la
difesa che l’imputato aveva ammesso che le conversazioni oggetto di intercettazioni
riguardassero acquisti di cocaina fornita dal coimputato Baglione. Non si sarebbe
considerato, però, che lo stesso imputato aveva affermato che lo stupefacente era
destinato a uso personale, essendo egli tossicodipendente. Si sarebbero valorizzati, in
particolare, elementi equivoci quali le periodiche richieste di incontri e le precisazioni
sul numero dei soggetti da incontrare, desumendone indebitamente l’esistenza di una
pluralità di destinatari, acquirenti finali delle sostanze stupefacenti per il tramite
dell’imputato. Né varrebbe in contrario l’argomentazione della Corte d’appello secondo
cui l’imputato non avrebbe avuto ragione di specificare di volta in volta quantitativi e

procacciatore d’affari per conto dei coimputati ritenuta in sentenza.

modalità di confezionamento della droga perché se questa fosse stata destinata a uso
esclusivamente personale egli avrebbe potuto utilizzare una formula abituale da
ripetere costantemente. Secondo la difesa, infatti, non può essere escluso, sul piano
logico, che un soggetto tossicodipendente, in ragione delle più disparate esigenze,
acquisti di volta in volta quantitativi diversi per uso personale, per di più ove – come
nel caso di specie – i quantitativi siano modesti e nulla sia rinvenuto all’esito della
perquisizione. Non si sarebbe attribuita la giusta valenza, inoltre, al fatto che
l’imputato aveva un congruo reddito, tale da consentirgli l’assunzione di stupefacenti
senza necessità di far ricorso ad un’attività di piccolo spaccio. La motivazione della
13

Ai\

sentenza sarebbe insufficiente anche quanto all’esclusione della destinazione della
droga a consumo collettivo, perché la Corte territoriale si sarebbe limitata a rilevare la
mancanza di prova di accordi intervenuti in tal senso tra l’imputato e altri assuntori.
Non si sarebbe considerata, in particolare, una conversazione nella quale Baglione
chiedeva all’imputato proprio il numero degli amici che erano con lui.
13.2. – Con un secondo motivo di doglianza, si deducono la carenza, la
manifesta illogicità e la contraddittorietà della motivazione, nonché la violazione

attenuanti generiche. Non si sarebbero considerati: l’ammissione del fatto che le
conversazioni telefoniche avevano ad oggetto l’acquisto di sostanza stupefacente, né
l’ottimo comportamento processuale, improntato a collaborazione con gli inquirenti, né
la tenuità del fatto.
13.3. – Il ricorrente prospetta, in terzo luogo, la violazione dell’art. 133 cod.
pen. e la mancanza, la manifesta illogicità e la contraddittorietà della motivazione, in
relazione alla mancata riduzione della pena irrogata in primo grado, vicina al massimo
edittale stabilito dall’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 (anni 4 e mesi 6 di
reclusione poi ridotti per la scelta del rito).
14. – La sentenza è stata impugnata, tramite il difensore, anche da Sancilles
Paolo, condannato per i reati di cui agli artt. 81, secondo comma, cod. pen., 73, 74,
commi 1, 2, 3, del d.P.R. n. 309 del 1990 (capi A, Al), con recidiva reiterata,
specifica, infraquinquennale.
14.1. – Con un primo motivo di censura, si svolgono, quanto all’utilizzabilità
delle intercettazioni telefoniche, rilievi analoghi a quelli di altri ricorrenti (sub 2.1.,
3.1., 6.2., 7.1., 8.4.).
14.2. – Con rilievi analoghi a quelli svolti dal coimputato Militello (sub 2.2.), si
contesta – con il secondo motivo di ricorso – la motivazione della sentenza circa la

dell’art. 62 bis cod. pen. in relazione alla mancata concessione delle circostanze

sussistenza del reato associativo, in particolare sotto i profili della mancanza del
numero minimo di partecipanti e della mancanza di prova circa il ruolo esattamente
svolto da ciascuno. La difesa specifica, in particolare, che Sancilles Paolo è stato
escluso dal contesto associativo ipotizzato nel momento in cui aveva ripreso a essere
tossicodipendente e che, contraddittoriamente, per quello stesso periodo gli era stata
attribuita una condotta consistente nella restituzione di una somma di denaro
all’associazione. La Corte d’appello non avrebbe considerato, in particolare, che i
crediti in questioni erano crediti personali, che non esisteva alcuna cassa comune, che

14/

i rapporti fra i Sancilles non erano buoni, che l’attività di spaccio – laddove in ipotesi
configurabile – era svolta a titolo strettamente individuale.
14.3. – Con un terzo motivo di doglianza, si prospettano la manifesta illogicità
della motivazione e l’erronea applicazione dell’art. 133 cod. pen., perché il contributo
dell’imputato all’ipotizzata associazione sarebbe stato limitato nel tempo, essendo
cessato il 14 luglio 2007, data del suo arresto ed sarebbe stato comunque meno
rilevante di quello in ipotesi dato dai fratelli, tutti i condannati alla medesima pena.

concesse, vista la tenuità dei precedenti penali e la condizione di tossicodipendente
dell’imputato
15. – La sentenza è stata impugnata, tramite il difensore, da Sancilles Gregorio
condannato per i reati di cui agli artt. 81, secondo comma, cod. pen., 73, 74, commi
1, 2, 3, del d.P.R. n. 309 del 1990 (capi A, Al).
15.1. – Con un primo motivo di censura, si svolgono, quanto all’utilizzabilità
delle intercettazioni telefoniche, rilievi analoghi a quelli di altri ricorrenti (sub 2.1.,
3.1., 6.2., 7.1., 8.4., 14.1.).
15.2. – Con il secondo motivo di ricorso, si formulano in parte rilievi analoghi a
quelli svolti da alcuni dei coimputati (sub 2.2., 14.2.) alla motivazione della sentenza
circa la sussistenza del reato associativo, in particolare sotto i profili della mancanza
del numero minimo di partecipanti e della mancanza di prova del ruolo svolto da
ciascuno. Con particolare riferimento la posizione del ricorrente, la difesa evidenzia
anche l’erronea applicazione della circostanza aggravante di cui al comma 3 dell’art.
74 del d.P.R. n. 309 del 1990, rilevando che la Corte d’appello non avrebbe
considerato che l’ipotizzata partecipazione dell’imputato all’associazione era comunque
iniziata dopo l’esclusione del fratello Paolo, il quale aveva cagionato perdite
economiche. Sarebbe dunque esclusa – secondo la difesa – la partecipazione
dell’imputato ad un’associazione alla quale partecipava anche un soggetto
tossicodipendente, perché – anche a prescindere dalla mancanza di prova dello stato
di tossicodipendenza di Sancilles Paolo – quest’ultimo era stato certamente escluso dal
gruppo per volontà di tutti i soggetti accusati di farne parte. Non si sarebbero
considerati, inoltre, i pessimi rapporti che vi erano fra il ricorrente e il fratello Paolo,
rispetto al quale egli aveva espresso più volte la volontà di abbandonarlo in carcere. Vi
sarebbe, inoltre, una scorretta interpretazione della conversazione del 3 luglio 2007,
nella quale il fratello Antonino, dialogando con il padre Vittorio aver evidenziato che
l’imputato odierno ricorrente si era messo in mezzo. Né sarebbero utili a corroborare

Quanto alle circostanze attenuanti generiche, le stesse avrebbero potuto essere

l’appartenenza del ricorrente all’associazione le conversazioni nelle quali questo
informa il padre di alcuni debiti e dell’accordo col fornitore per ottenere un vantaggio
economico dalla cessione dei telefoni appartenenti al fratello Paolo o nelle quali questo
si oppone alla cessione di sostanza stupefacente (in una circostanza). Del resto prosegue la difesa – Sancilles Gregorio era venuto a conoscenza di crediti legati al
commercio di stupefacenti solo dai colloqui con i familiari e non aveva posto in essere
condotte attive, salva la cessione dei telefoni del fratello Paolo a un presunto fornitore.

motivazione quanto ai reati-fine, perché la Corte d’appello avrebbe richiamato attività
di sequestro che non avevano coinvolto in realtà l’imputato ed avrebbe ipotizzato una
continuazione dal carcere della partecipazione ai traffici illeciti con Paolo e Vittorio
Sancilles, in mancanza di riscontri.
15.4. – Con un quarto motivo di doglianza, si lamentano la violazione degli artt.
62 bis, 81, 133 cod. pen., 73, comma 5, 74, comma 6, del d.P.R. n. 309 del 1990,
nonché la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione quanto al trattamento
sanzionatorio e quanto al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti
richieste della difesa. Trascurando di considerare l’età del ricorrente, l’assenza di
precedenti penali, lo svolgimento di una lecita attività lavorativa, l’ottimo
comportamento processuale, la Corte d’appello ha ritenuto sussistente un ruolo
decisivo dell’imputato nel mantenere i contatti fra i parenti detenuti e i fornitori
abituali. Tale conclusione – secondo la difesa – è sostanzialmente priva di supporti
probatori circa l’ipotizzata vastità dei traffici illeciti, a fronte di colloqui telefonici in cui
si fa riferimento ad ambiti territoriali locali e a piccole somme, sempre dovute da un
ristretto numero di soggetti.
CONSIDERATO IN DIRITTO
16. – La sentenza deve essere annullata, con rinvio ad altra sezione della Corte
d’appello di Palermo, nei confronti di tutti i ricorrenti.
17. – Va preliminarmente trattato il motivo sub 6.1., perché logicamente
prioritario. Con tale doglianza, infatti, l’imputato Palazzotto lamenta la violazione degli
artt. 3, 24, 111 Cost. e 190-191 cod. proc. pen., rilevando di avere eccepito
l’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni telefoniche all’udienza preliminare e
che in tale sede il giudice aveva rimesso la decisione sull’utilizzabilità di tali risultati
all’esito della discussione, non consentendo così al ricorrente stesso di formulare la
scelta del rito abbreviato attraverso la conoscenza piena e completa delle prove
legittimamente acquisite. In particolare la previsione per cui l’inutilizzabilità è

15.3. – Si lamentano, in terzo luogo, la mancanza e la manifesta illogicità della

rilevabile anche d’ufficio in ogni Stato e grado del procedimento dovrebbe essere
interpretata nel senso che il Gip sarebbe tenuto a decidere, durante l’udienza
preliminare, circa l’utilizzabilità delle prove; e ciò allo scopo di evitare l’instaurazione
di un giudizio abbreviato sulla base di prove non utilizzabili. Una tale interpretazione si
desumerebbe anche all’art. 111 Cost., alla luce del quale dovrebbe essere riconosciuto
all’imputato il diritto di sapere preventivamente quale sarà il materiale probatorio
legittimamente acquisito su cui si fonderà la decisione del giudice, che è tenuto a

quelle manifestamente superflue o irrilevanti (come disposto dall’art. 190, comma 1,
cod. proc. pen).
Il motivo è manifestamente infondato.
Correttamente il GUP, con ordinanza dell’Il gennaio 2011 – integralmente
richiamata e fatta propria anche dalla Corte d’appello – rileva l’inopportunità di
disgiungere, in sede di udienza preliminare, la decisione in ordine alle questioni
sull’utilizzabilità degli atti da quella relativa al merito, perché un’anticipazione della
pronuncia sull’utilizzabilità di una prova nel corso dell’udienza preliminare sarebbe
irrituale, in mancanza di un sistema di decisione graduale sul merito della richiesta di
rinvio a giudizio, oltre che i utile. Infatti, solo una valutazione complessiva del
iYtOwt
materiale probatorioalyt della definizione delle diverse posizioni processuali può
consentire al giudice di esaminare le eccezioni rilevanti ai fini della decisione resa
all’esito della discussione delle parti. Del resto, l’art. 421 cod. proc. pen. prevede che
il giudice dichiari aperta la discussione subito dopo avere compiuto gli accertamenti
relativi alla costituzione delle parti; né alcun obbligo, con correlativa sanzione, è
fissato dall’ordinamento circa la decisione preliminare che il giudice dovrebbe rendere
in ordine all’inutilizzabilità delle prove. Del resto, l’art. 111, quinto comma, Cost., nel
prevedere la piena legittimità del rito abbreviato – in quanto rientrante fra «i casi in
cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso
dell’imputato», rimanda alla legge la disciplina dello stesso, senza neanche
implicitamente richiedere una preventiva pronuncia del giudice sull’utilizzabilità delle
prove. E il complesso della disciplina del giudizio abbreviato, di per sé ispirata ad
esigenze di celerità e concentrazione, esclude in ogni caso che vi sia la necessità che il
giudice provveda preliminarmente sull’ammissione delle prove con ordinanza, ai sensi
dell’art. 190, comma 1, cod. proc. pen.

17

provvedere, senza ritardo con ordinanza, escludendo le prove vietate dalla legge e

18. – Con i motivi di ricorso sopra riportati sub 2.1., 3.1., 6.2., 7.1., 8.4., 14.1.,
15.1., è stata dedotta – da diversi ricorrenti – l’inutilizzabilità delle intercettazioni
telefoniche per varie violazioni degli artt. 267-271 cod. proc. pen.
18.1. – Si evidenzia, in primo luogo – con analitica indicazione dei relativi
decreti captativi – che la polizia giudiziaria ha attestato che le operazioni di ascolto e
di registrazione sono state eseguite presso i locali della caserma dei carabinieri
mediante l’utilizzo di apparecchiature di proprietà di una società terza. La stessa

la caserma dei carabinieri, anche nelle richieste di proroga. Tali attestazioni non
distinguevano fra operazioni di registrazione e operazioni di riascolto.
Successivamente erano state poi inviate dalla polizia giudiziaria note nelle quali si
affermava che, solo per errore materiale, era stato indicato come luogo di
registrazione quello della caserma dei carabinieri. Proprio tenendo conto di tali aspetti,
il Tribunale del riesame, decidendo sul rinvio della Corte di cassazione, aveva
annullato l’ordinanza di custodia cautelare emessa nei confronti di uno dei coimputati,
giudicato in altro procedimento, non essendo possibile stabilire se le intercettazioni
fossero avvenute con le modalità di cui ai verbali di fine operazioni o di cui, appunto, a
tali note. L’affermazione contenuta nella sentenza secondo cui le intercettazioni
telefoniche dal settembre 2005 sarebbero state registrate presso il

server della

Procura della Repubblica contrasterebbe, inoltre, con la documentazione in atti, dalla
quale risulterebbe che le intercettazioni erano state effettuate utilizzando centri
esterni all’ufficio della Procura della Repubblica. Né varrebbe a superare tale
inconveniente interpretativo la certificazione successivamente rilasciata dalla Procura,
trattandosi di atto non fidefacente.
18.2. – In riferimento, poi, al decreto n. 2659 del 2007, le relative
intercettazioni sarebbero inutilizzabili, perché lo stesso sarebbe stato convalidato fuori

polizia giudiziaria dà atto del fatto che le attività di intercettazione si svolgono presso

termini, in quanto emesso dal pubblico ministero il 5 ottobre 2007, comunicato al Gip
e convalidato 1’8 ottobre successivo e, dunque, in violazione del termine di 48 ore
previsto dall’art. 267, comma 2, cod. proc. pen. Si lamenta, inoltre, che il Gip
avrebbe, in presenza di una convalida tardiva, ritenuto inutilizzabili le sole
intercettazioni anteriori al provvedimento di convalida e non anche quelle successive.
18.3. – Quanto al decreto n. 1621 del 2007, emesso il 16 giugno 2007 dal
pubblico ministero e convalidato dal gip il 18 giugno 2007, con scadenza al 3 luglio
2007, non si sarebbe considerato che la prima data che si evince nel decreto di
proroga del Gip è quella del 5 luglio 2007, ed è dunque – secondo la difesa – fuori

18 bk.

termini; con la conseguenza che – sempre secondo la difesa – resterebbero
inutilizzabili le intercettazioni svolte fra il 3 luglio 2007 e il 5 luglio 2007. Anche le
successive intercettazioni sarebbero inutilizzabili, ad avviso della difesa, perché il
decreto di proroga non conterrebbe gli elementi di cui agli artt. 267 e 268, comma 3,
cod. proc. pen., la cui presenza è condizione essenziale per l’equiparazione di tale
decreto ad un nuovo decreto di intercettazione. Questo sarebbe, infatti, privo della
motivazione circa le eccezionali ragioni di urgenza che giustificano l’uso di impianti

18.4. – I decreti nn. 581 del 2008, 447 del 2008, 909 del 2008 sarebbero
carenti di motivazione idonea a legittimarne l’emissione, come i relativi decreti di
proroga, quanto al prosieguo dell’attività di captazione.
18.5. – In relazione al decreto n. 2884 del 2007 si lamentano l’assenza del
verbale di inizio di operazioni e l’apposizione di una data errata in quello di fine
servizio.
19. – Venendo all’esame di tali censure, deve premettersi che la vicende
relative alle intercettazioni, pacifiche in punto di fatto, sono state analiticamente
riportate dalla Corte d’appello (pagine 22-38 della sentenza impugnata).
19.1. – In relazione alle intercettazione effettuate sulla base dei decreti nn.
2157 del 2007, 2259 del 2007, 2301 del 2007, 2302 del 2007, 2386 del 2007, 2486
del 2007, 2659 del 2007, 2735 del 2007, 2829 del 2007, 2985 del 2007, 2884 del
2007, le difese hanno prospettato – come visto – una situazione di oggettiva
incertezza in ordine al luogo nel quale sarebbero avvenute le operazioni di
intercettazione, con specifico riferimento alla fase di registrazione, che, di norma,
dovrebbe avvenire per mezzo di impianti collocati nei locali della Procura della
Repubblica.
19.1.1. – Devono essere sinteticamente richiamati gli orientamenti della

esterni e circa l’indispensabilità del ricorso alle intercettazioni.

giurisprudenza di questa Corte relativi alla motivazione dei decreti di intercettazione.
In particolare: 1) i decreti autorizzativi possono essere motivati

per relationem,

quando in essi il giudice faccia richiamo alle richieste del pubblico ministero e alle
relazioni di servizio della polizia giudiziaria, ponendo così in evidenza l’iter cognitivo e
valutativo seguito per giustificare l’adozione del particolare mezzo di ricerca della
prova (ex plurimis, sez. 6, 14 novembre 2008, n. 46056; sez. 1, 22 aprile 2010, n.
20262;); 2) più in generale, la duplice condizione che consente di derogare all’obbligo
di effettuare le intercettazioni con impianti installati presso la Procura della Repubblica
è che tali impianti siano “insufficienti o inidonei” e che “esistano eccezionali ragioni di
1

7K._

urgenza”; 3) con riferimento al requisito dell’inidoneità o insufficienza degli impianti
installati in Procura, non è sufficiente un decreto del pubblico ministero meramente
assertivo, occorrendo che egli indichi i dati materiali e le ragioni che hanno fatto
ritenere sussistente la fattispecie concreta, anche se deve ritenersi sufficiente una
motivazione riferita all’indisponibilità delle linee telefoniche (ex plurimis, sez. un., 26
novembre 2003, n. 919/2004); 4) in tema di esecuzione delle operazioni di
intercettazione di conversazioni o comunicazione, il decreto motivato con cui il

della Repubblica deve essere emesso e può essere eventualmente integrato pubblico
ministero soltanto prima dell’esecuzione delle operazioni di intercettazione; mentre il
giudice, neanche in sede di impugnazione de libertate, può emendare o integrare la
motivazione del provvedimento, giacché in tal modo si approprierebbe di ambiti di
discrezionalità che spettano solo al pubblico ministero

(ex plurimis, sez. un. 29

novembre 2005, n. 21/2006; sez. 6, 22 giugno 2010, n. 27761; sez. un., 29
novembre 2005, n. 2737, rv. 232605; sez. 5, 6 aprile 2006, n. 16558, rv. 234454;
sez. 2, 15 febbraio 2006, n. 7788, rv. 233348; sez. 3, 18 febbraio 2010, n. 13494).
Questo collegio è comunque consapevole dell’esistenza di un prevalente
orientamento di legittimità secondo cui le questioni poste nel giudizio abbreviato circa
la legittimità dell’utilizzo degli impianti diversi da quelli in dotazione della Procura della
Repubblica non possono essere ricondotte nell’alveo dellminutilizzabilità patologica”
(Cass., sez. 6, 23 ottobre 2009, n. 2930/2010; sez. 2, 14 gennaio 2014, n. 3606, rv.
258541). Tale orientamento è, del resto, coerente con quello, più generale, secondo
cui, nel giudizio abbreviato, sono deducibili e rilevabili solo le nullità di carattere
assoluto e le inutilizzabilità cosiddette patologiche, di talché risulta irrilevante, ad
esempio, l’omissione dell’avviso di deposito degli atti concernenti intercettazioni
telefoniche in favore di uno dei difensori dell’imputato (sez. 2, 8 ottobre 2004, n.
42559, rv. 230219; sez. 2, 16 aprile 2013, n. 19483, rv. 256038).
19.1.2. – Deve però rilevarsi che, nel caso in esame, non si pone una semplice
questione di utilizzazione di impianti diversi da quelli in dotazione della Procura della
Repubblica. Le difese hanno, in particolare, evidenziato che i verbali di chiusura delle
operazioni di intercettazione redatti dei carabinieri delegati alle operazioni di ascolto
recano espressioni del tipo: “le operazioni di ascolto e di registrazione sono state
eseguite presso i locali della caserma di […] e mediante l’utilizzo delle apparecchiature
di proprietà della società privata […], con procedura MCR”. Si adduce, quale ulteriore,

pubblico ministero dispone l’utilizzo di impianti diversi da quelli installati nella Procura

decisiva, anomalia, la mancata produzione dei verbali di inizio delle operazioni di
intercettazione.
La Corte d’appello – sostanzialmente condividendo le motivazioni delle sentenze
di primo grado sul punto – ha ritenuto di superare l’eccezione di inutilizzabilità delle
intercettazioni prospettata dalle difese, evidenziando che il luogo ove sono avvenute le
operazioni di prima registrazione è individuato in maniera certa nel server installato
presso la Procura della Repubblica di Palermo, rimanendo demandata agli uffici di

che il pubblico ministero ha disposto, in via d’urgenza, l’intercettazione di
conversazioni telefoniche relative ad utenze cellulari in uso agli imputati mediante
l’utilizzazione di attrezzature fornite alla Procura da una società privata, nel contempo
delegando per l’esecuzione ufficiali di polizia giudiziaria e autorizzandoli ad utilizzare
tali attrezzature installati presso la sala di ascolto della Procura. Nondimeno, all’esito
delle operazioni di intercettazione, i carabinieri delegati all’ascolto hanno redatto
verbali di chiusura delle operazioni attestanti testualmente che le operazioni di ascolto
e registrazione non erano avvenute presso la Procura, ma presso la caserma dei
carabinieri. Vi erano state note successive – emesse a richiesta del pubblico ministero
dal comandante della compagnia dei carabinieri e dalla società privata fornitrice delle
attrezzature ad oltre due anni di distanza dalla chiusura delle operazioni di
intercettazione – con le quali veniva puntualizzato che presso la caserma dei
carabinieri si erano svolte esclusivamente le operazioni di ascolto, ma non anche
quelle di registrazione. In particolare, nell’attestazione del 29 dicembre 2009 si
affermava che la registrazione dell’intercettazione telefonica aveva avuto luogo presso
il server installato dalla società privata in un luogo nella disponibilità della Procura
della Repubblica, mentre il solo ascolto remotizzato era stato eseguito presso la
caserma, con la precisazione che quanto indicato nel verbale di fine servizio delle

polizia giudiziaria la sola fase di ascolto delle conversazioni. La stessa Corte sottolinea

attività tecniche in argomento è da intendersi un mero errore. La Corte d’appello
rileva che tali note, cui attribuisce il valore di atti fidefacenti, avevano innescato una
situazione di incertezza in ordine alla ritualità delle avvenute intercettazioni con
riguardo alla fase di registrazione, per l’evidente contrasto con i verbali di fine
operazioni, anch’essi atti fidefacenti. Tale contrasto non può dirsi fugato neppure per
effetto delle lettere di inizio del servizio, ove si rappresentava che le operazioni di
ascolto sarebbero state eseguite presso il comando dei carabinieri, trattandosi di
lettere che si riferivano ad attività che dovevano essere ancora svolte e non già in
corso e che, dunque, lasciavano impregiudicata la questione del luogo in cui le
2

1A

registrazioni si erano effettivamente poi svolte. La Corte d’appello ritiene, però, che la
situazione di incertezza sia stata definitivamente risolta alla luce delle certificazioni del
15 e del 28 ottobre 2010, provenienti dal funzionario responsabile dell’ufficio
intercettazioni presso la Procura della Repubblica, il quale – dopo aver premesso che
le operazioni di intercettazione relative ai decreti in contestazione erano avvenute
esclusivamente presso il server della procura della Repubblica, per ciascun decreto e
per ciascuna utenza telefonica sottoposta ad intercettazione – ha estratto e certificato

d’appello, tali certificazioni, sono idonee ad individuare con certezza il luogo di prima
registrazione delle intercettazioni, perché il funzionario responsabile dell’ufficio
intercettazione ha rinvenuto nel server della Procura i dati con riferimento puntuale ai
giorni e agli orari di inizio delle registrazioni. La circostanza che presso la caserma dei
carabinieri si sarebbero svolte solo le operazioni di ascolto remotizzato sarebbe
confermata, inoltre, dal fatto che i verbali redatti indicavano, per l’inizio delle
operazioni, gli stessi orari e gli stessi giorni delle registrazioni nel server della Procura.
19.1.3. – Tali conclusioni non sono condivisibili.
La Corte territoriale non considera, infatti, due elementi fondamentali: in primo
luogo è pacifico che manchino in atti i verbali di inizio delle operazioni di
intercettazione, dai quali sarebbero dovute risultare le modalità e i luoghi delle
intercettazioni stesse; in secondo luogo, il dato risultante dai verbali di fine operazioni
risulta in contrasto: sia con quanto attestato dal comandante della compagnia dei
carabinieri; sia con quanto attestato dalla società che ha fornito gli impianti alla
Procura della Repubblica; sia con quanto, infine, affermato dal funzionario
responsabile del servizio intercettazioni della stessa Procura.
Non si pone qui il problema della possibilità di un ascolto remoto delle
registrazioni effettuate, pacificamente ammissibile secondo la costante giurisprudenza
di questa Corte (ex plurimis, sez. un. 26 giugno 2008, n. 36359), la quale ha chiarito
che non è necessario che nei locali della Procura della Repubblica vengano svolte
anche le attività di ascolto, verbalizzazione ed eventuale riproduzione dei dati
registrati presso i locali della procura della Repubblica, perché tali operazioni possono
essere eseguite in remoto presso gli uffici della polizia giudiziaria.
La questione che invece si pone – e che emerge come tale sia dalla motivazione
della sentenza impugnata sia dalla prospettazione dei ricorrenti – è se, in mancanza
dei verbali di inizio delle operazioni di intercettazione e in presenza di dati equivoci,
formatisi in larga parte successivamente alla chiusura delle operazioni di
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la data e l’orario della registrazione in originale delle conversazioni. Secondo la Corte

intercettazione, vi sia sufficiente certezza, ai fini dell’applicazione dell’art. 268, comma
3, primo periodo, cod. proc. pen., del fatto che le operazioni di registrazione siano
state compiute per mezzo di impianti installati presso la Procura della Repubblica.
Si tratta – come già anticipato – di una questione evidentemente diversa e più
ampia rispetto alla questione della motivazione dei decreti che autorizzano il
compimento delle operazioni mediante impianti esterni rispetto a quelli della Procura
della Repubblica; con la conseguenza che non trova applicazione – nel caso in esame

decreti autorizzativi al compimento delle intercettazioni in esterna sono riconducibili
alla categoria dell’inutilizzabilità fisiologica e, dunque, non possono essere fatti valere
dall’imputato che abbia scelto il rito abbreviato. Nel caso qui in esame – lo si ripete si controverte, infatti, non solo dei presupposti per lo svolgimento delle operazioni di
intercettazione, ma della stessa certezza delle modalità effettivamente seguite per tali
operazioni. Si tratta di un aspetto che, attenendo alla genuinità del procedimento
formativo della prova, appare riconducibile alla categoria dell’inutilizzabilità cosiddetta
“patologica”; con la conseguenza che la stessa può essere fatta valere anche nel
giudizio abbreviato.
19.1.4. – La questione è già stata affrontata da questa Corte, in sede cautelare,
in relazione alla presente vicenda, anche con riferimento alle posizioni di soggetti
coimputati diversi dagli odierni ricorrenti.
In particolare, con le sentenze sez. 1, 19 aprile 2011, n. 35120, sez. 5, 24
novembre 2010, nn. 10951/2011 e 10952/2011, si è evidenziato che agli atti non era
allegato il verbale di inizio operazioni, al quale non può ritenersi equivalente la
“comunicazione di inizio del servizio” effettivamente prodotta dal pubblico ministero,
perché quest’ultima è riferita ad attività da porre in essere e non già in atto, cosicché
lascia impregiudicata la questione relativa all’uso della registrazione e fa permanere

– il richiamato orientamento di questa Corte, secondo cui i profili della motivazione dei

l’incertezza costituita dalla contraddizione tra le risultanze dei verbali di chiusura delle
operazioni e le note dei carabinieri e della società fornitrice degli impianti, successive
di due anni, con le quali era stato precisato che presso la caserma erano state
effettuate solo le operazioni di ascolto remotizzato.
Con le sentenze pronunciate nel procedimento cautelare relativo alle posizioni di
Mannino Antonino (sez. 5, 24 novembre 2010, n. 9643/2011) e di Citarelli Placido
(sez. 5, 24 novembre 2010, n. 9644/2011), si è inoltre precisato che i verbali di
trascrizione delle intercettazioni presenti in atti fanno espresso riferimento ad
un’attività di “riascolto e trascrizione” delle conversazioni, il che, se colloca detta
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attività presso gli uffici della polizia giudiziaria, non per questo consente di affermare
con sicurezza che le precedenti operazioni di registrazione ed ascolto si siano svolte
nella diversa sede dei locali a disposizione della Procura della Repubblica; anche detti
atti non risultano dunque risolutivi, nella segnalata situazione di contraddittorietà
documentale, rispetto a quella che ancora una volta si appalesa come l’insuperabile
carenza del dato attestativo tipico rappresentato dai verbali di inizio delle operazioni.
A queste già decisive considerazioni, vi è da aggiungere che, in diverse richieste

pieno svolgimento dell’attività, è invero presente un riferimento generale ed
indifferenziato all’esecuzione delle operazioni negli uffici del Comando dei Carabinieri;
e in una richiesta di proroga nei confronti del Mannino (in data 22 settembre 2007)
compare addirittura un testuale accenno alla “registrazione ed al riascolto” di
conversazioni quali operazioni eseguite presso il suddetto Comando.
19.1.5. – Deve in conclusione affermarsi che una sanatoria postuma dei vizi
delle intercettazioni non solo non è possibile, per la mancanza dei verbali di inizio delle
operazioni, ma non si è comunque in concreto verificata, in presenza di elementi
contraddittori circa le modalità di svolgimento di dette operazioni; con la conseguenza
che la sentenza deve essere annullata con rinvio, sul punto. Né può ritenersi
sufficiente, in tal senso, l’attestazione proveniente dal funzionario addetto al servizio
presso la Procura della Repubblica, trattandosi di un atto non direttamente ascrivibile
al magistrato del pubblico ministero o alla polizia giudiziaria, irritualmente intervenuto
dopo anni dal compimento degli atti e in corso di giudizio.
Va dunque rilevata l’inutilizzabilità delle intercettazioni affette dalle ragioni di
inutilizzabilità appena evidenziate.
19.1.6. – Come costantemente affermato da questa Corte, l’effetto estensivo
dell’impugnazione, in caso di accoglimento di un motivo di ricorso per cassazione non

di proroga delle intercettazioni, particolarmente significative in quanto emesse nel

esclusivamente personale, giova anche agli altri imputati, ivi compresi coloro che non
hanno proposto ricorso, che hanno concordato la pena in appello, che hanno proposto
un ricorso originariamente inammissibile o che al ricorso hanno successivamente
rinunciato (sez. 1, 17 ottobre 2013, n. 2940, rv. 258393). Si è inoltre precisato che
l’effetto estensivo dell’impugnazione, in caso di accoglimento di un motivo di ricorso
per cassazione non esclusivamente personale, giova anche nei confronti del
coimputato che ha proposto ricorso per motivi diversi da quelli accolti, con
conseguente applicabilità della disciplina prevista dall’art. 627, comma 5, cod. proc.
pen. (sez. 6, 2 ottobre 2013, n. 46202, rv. 258155).
2474(\.

Tali principi trovano applicazione proprio in relazione ai motivi di ricorso relativi
all’oggettiva inutilizzabilità degli esiti delle intercettazioni telefoniche, su cui la
sentenza impugnata ha fondato il giudizio di responsabilità, trattandosi – con tutta
evidenza – di motivi che devono essere considerati non esclusivamente personali (sez.
un., 12 luglio 2007, n. 30347, rv. 236756), perché attinenti ad un dato decisivo
nell’ambito del complessivo quadro probatorio (cfr., per un’applicazione dell’effetto
estensivo nell’ambito della presente vicenda, ma con riferimento a coimputati diversi

10952/2011).
L’annullamento della sentenza impugnata nei confronti di tutti gli imputati
odierni ricorrenti, deve essere pronunciato con assorbimento, allo stato, degli altri
motivi di ricorso proposti relativamente alla responsabilità penale o al trattamento
sanzionatorio, e va disposto – come anticipato – con rinvio ad altra sezione della Corte
d’appello. È necessario, difatti, riesaminare nella competente sede di merito se
sussistano o meno altri e diversi elementi di prova utilmente utilizzabili per la
eventuale affermazione di responsabilità (la cd. “prova di resistenza”). Tale
ricognizione, propriamente di merito e dunque preclusa a questa Corte avrà per
oggetto – sul presupposto dell’inutilizzabilità delle intercettazioni telefoniche di cui
sopra – sia l’idoneità del restante quadro probatorio a sostenere l’accertamento della
responsabilità penale per i diversi reati contestati, sia la verifica di tale idoneità con
riferimento alle singole posizioni dei ricorrenti, rispetto alle quali le intercettazioni in
questione potrebbero avere, in ipotesi, un rilievo nullo o del tutto marginale.
Sempre nell’ambito delle censure relative alle intercettazioni, le considerazioni
appena svolte rendono superfluo l’esame degli ulteriori motivi di impugnazione relativi
ai decreti di intercettazione n. 2659 del 2007 n. 2884 del 2007, in quanto inclusi fra
quelli sopra richiamati.
19.2. – Deve invece essere esaminato il motivo di doglianza proposto dalla
difesa di Mannino relativamente alla tempestività della proroga delle operazioni di
intercettazione inizialmente autorizzate con il decreto n. 1621 del 2007, non incluso
fra quelli sub 19.1.
Il motivo è manifestamente infondato. La difesa si limita, infatti, ad affermare
che la data del decreto di proroga emesso dal Gip sarebbe quella del 5 luglio 2007,
successiva alla scadenza del termine di 15 giorni, determinato nel 3 luglio 2007,
partendo dalla data del decreto iniziale (18 giugno 2007). La stessa difesa non
considera però che, al fine di calcolare la tempestività della proroga, il dies a quo non

dai presenti ricorrenti nella fase cautelare, sez. 5, 24 novembre 2010, n.

è quello dell’emissione del decreto iniziale, ma quello del giorno in cui le operazioni di
intercettazione hanno avuto inizio. E nulla di specifico sull’effettivo inizio delle
operazioni è stato dedotto dal ricorrente.
19.3. – In relazione al decreto n. 581 del 2008 – anch’esso oggetto di gravame
circa la sua inutilizzabilità – la Corte distrettuale rileva che lo stesso è un decreto
urgente di intercettazione telefonica emesso dal pubblico ministero il 26 febbraio
2008, regolarmente convalidato dal Gip in pari data, nel quale si dà atto in modo

impegnate nell’ascolto registrazioni intercettazioni nell’ambito di altre indagini e che,
sussistendo ragioni eccezionali ed urgenza per procedere alle intercettazioni, le
operazioni saranno compiute presso gli impianti in dotazione alla polizia giudiziaria.
Nel verbale di fine servizio del 28 maggio 2008, si dà atto dell’orario e del giorno di
inizio e di fine delle operazioni di registrazione e di ascolto. Vi sono, inoltre, decreti di
proroga regolarmente emessi e sufficientemente motivati.
Da tali elementi la Corte d’appello correttamente desume che non sussistono
motivi di illegittimità del decreto in questione.
19.4. – Quanto, poi, al decreto n. 909 del 2008, del 20 marzo 2008, questo ha
per oggetto comunicazioni tra presenti ed è stato regolarmente convalidato dal Gip in
pari data. Nello stesso decreto si dà atto che le postazioni in dotazione alla Procura
della Repubblica sono già impegnate e che sussistono ragioni eccezionali ed urgenza.
Vi è un verbale di fine servizio, con indicazione dell’orario del giorno di inizio fine delle
operazioni di registrazione ascolto. Vi sono, inoltre, decreti di proroga regolarmente
emessi e sufficientemente motivati.
Ne consegue che – come ritenuto dalla stessa Corte d’appello – il
provvedimento in questione non risulta affetto da vizi.
19.5. – La Corte territoriale evidenzia che i decreti nn. 447 del 2008, 2028 del
2007, 142 del 2008, 1818 del 2007, 1959 del 2007 sono decreti urgenti emessi ai
sensi dell’art. 267, comma 1, n. 2), cod. proc. pen., dal pubblico ministero,
regolarmente convalidati dal Gip, nei quali si dà atto di avere autorizzato la polizia
giudiziaria ad utilizzare le apparecchiature installate presso la sala di ascolto della
Procura della Repubblica, avvalendosi delle attrezzature tecniche di una società per
interfacciare i registratori con le nuove procedure di intercettazione telefonica.
La Corte d’appello ritiene adeguata sul punto la motivazione dei decreti in
questione, perché essa fa riferimento per relationem ad ulteriori note di polizia

esplicito che le postazioni in dotazione alla Procura della Repubblica sono già

giudiziaria nelle quali sono esposte le ragioni che giustificano le richieste di proroga in
relazione allo sviluppo delle indagini in corso.
Devono essere richiamate, sul punto, le considerazioni già svolte sub 19.1.1. sia
circa i requisiti che la motivazione dei decreti deve avere, sia circa l’assorbente rilievo
della riconducibilità di eventuali vizi di motivazione dei decreti stessi alla inutilizzabilità
fisiologica, che non può essere fatta valere nel giudizio abbreviato.
Ne deriva l’inammissibilità delle relative censure.

la Corte d’appello applica correttamente i principi sopra richiamati, laddove evidenzia
che la motivazione dei decreti del pubblico ministero sull’utilizzazione di impianti
diversi da quelli installati presso gli uffici della Procura della Repubblica deve ritenersi
sufficiente, perché subordinata alla condizione del indisponibilità delle postazioni
presso la Procura, oggetto di specifica attestazione da parte del funzionario di
segreteria, intervenuta, prima dell’esecuzione delle operazioni di intercettazione.
Laddove quest’attestazione sia fatta propria dal Procuratore della Repubblica – come
nel caso di specie – essa realizza la condizione alla quale il provvedimento del pubblico
ministero deve essere subordinato.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata, con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello
di Palermo.
Così deciso in Roma, il 13 maggio 2014.

Ma, anche a prescindere da tale ultimo assorbente rilievo, deve osservarsi che

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