Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 4011 del 27/10/2015


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 4011 Anno 2016
Presidente: MARASCA GENNARO
Relatore: SETTEMBRE ANTONIO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
BORGHINI FERNANDO N. IL 05/05/1953
TRUPIA ANGELA N. IL 23/02/1959
avverso la sentenza n. 2246/2014 CORTE APPELLO di GENOVA, del
27/11/2014
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 27/10/2015 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. ANTONIO SETTEMBRE
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott.
che ha concluso per

Udito, per la parte civile. l’Av
Uditi difensor Avv.

Data Udienza: 27/10/2015

- Udito il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione,
dr. Pasquale Finniani, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
– Udito, per l’imputato, l’avv. Stefano Sarchi, che ha chiesto l’accoglimento del
ricorso.

RITENUTO IN FATTO

quella emessa dal Tribunale di Massa, che aveva condannato Borghini Fernando
e Trupia Angela per atti persecutori (art. 612-bis cod. pen.), violenza privata
(art. 610 cod. pen.) e diffamazione continuata (art. 595 cod. pen.) in danno di
Liretti Massimo, Liretti Ida Maria Grazia e Lucchesi Lidia, oltre al risarcimento dei
danni in favore delle persone offese, costituitesi parti civili.
La vicenda esaminata dal Tribunale e dalla Corte d’appello si inserisce in un
contenzioso, di natura civile, esistente tra le famiglie di Liretti e Lucchesi da una
parte e Borghini dall’altra, soci al 50% di un bar (il Bar Battistini snc) sito in una
zona importante della città di Massa. A seguito di dissidi tra i soci – originati,
secondo l’accusa, dal sostanziale disinteresse di Borghini nella gestione della
società, a cui pure si era impegnato – fu, con delibera del 20 dicembre 2002,
pronunciata – dall’assemblea della società – l’esclusione di Borghini dalla
compagine societaria; delibera che, impugnata dai soci estromessi, è stata, dopo
alterne vicende, confermata dal Tribunale di Massa con sentenza del 22 febbraio
2012. In tale contesto sono maturati i fatti di questo procedimento, giacché, nel
periodo tra il 19 giugno 2009 e il 10 settembre 2009 (giorno in cui furono
arrestati), Borghini Fernando e la moglie Trupia Angela avrebbero posto in
essere una serie di atti vessatori, minacciosi, violenti e offensivi – intrusione nei
locali societari, pedinamento delle persone offese, apposizione di catene alla
porta dell’esercizio, diffusione di volantini diffamatori, ecc. – volti a impedire il
regolare svolgimento dell’attività commerciale e a mettere in cattiva luce le
persone offese nell’ambiente sociale e imprenditoriale di Massa.
Come conseguenza di tali comportamenti le persone offese – oltre a subire
rilevanti danni economici – sarebbero piombate in un grave stato di turbamento,
ansia e apprensione, anche per il timore ingenerato nella loro incolumità fisica,
fino a mutare le proprie abitudini di vita (Ida Liretti – architetto – aveva persino
vergogna di dare il proprio nome alle persone con cui si relazionava ed evitava di
passare dinanzi al Bar per timore di incontrare Trupia; il figlio di Liretti aveva
smesso di frequentare gli amici; Lucchesi Lidia era dovuta ricorrere alle cure di
un sanitario; ecc.).

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1. La corte d’appello di Genova, con la sentenza impugnata, ha confermato

2. Contro la sentenza suddetta ha proposto ricorso per Cassazione, nell’interesse
degli imputati, l’avv. Stefano Sarchi, con nove motivi.
2.1. Col primo deduce un vizio di motivazione con riguardo alla richiesta,
formulata al giudice d’appello, di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale
mediante acquisizione del decreto del Tribunale di Massa del 2003 – emesso dal
giudice dr. Fabbrizzi – con cui, su richiesta di Borghini Fernando, era stata
ordinata la cancellazione della delibera del 20-12-2002, che aveva disposto
l’esclusione dello stesso Borghini dalla società; nonché del “decreto del Tribunale

reclamo contro il decreto 10 maggio 2013 del Giudice del Registro delle
Imprese”.
2.2. Col secondo lamenta “mancanza e/o manifesta contraddittorietà della
motivazione di cui art. 606 lett. E) in punto di ricostruzione dei fatti”. Si duole con tale motivo – della sommaria ricostruzione dei fatti che sono a base della
presente vicenda processuale e, in particolare, del fatto che la Corte d’appello
abbia errato “circa la data in cui il Tribunale di Massa ha revocato il decreto 26
giugno 2009 ritenendo legittima la delibera di esclusione 20 dicembre 2002 non
ostandovi il difetto rilevato dal Giudice del Registro di alcuni requisiti”. Tale
decreto, specifica, è stato emesso il 27 agosto 2009 (e non il 28 luglio 2009,
come erroneamente ritenuto dalla Corte d’appello) e depositato il 3 settembre
2009. Fatto, questo, che assume rilevanza ai fini della qualificazione del reato,
poiché idoneo a illuminare lo stato soggettivo degli imputati mentre, tra a giugno
e agosto 2009, ponevano in essere le condotte loro addebitate.
2.3. Col terzo si duole della latitudine attribuita dal giudicante all’art. 612-bis
cod. pen., che comprende e assorbe, a suo giudizio, la violenza privata di cui
all’art. 610 cod. pen., in base al principio di specialità, perché “l’alterazione delle
abitudini di vita può considerarsi una peculiare ipotesi di violenza privata”.
2.4. Col quarto contestano l’esistenza dei presupposti – oggettivi e soggettivi del reato di atti persecutori, non essendo stato dimostrato né il grave e
persistente stato di ansia e di paura, né il cambiamento delle abitudini di vita
delle persone offese e non essendosi considerato che le condotte degli imputati
erano rivolte non già ad opprimere o molestare le persone offese, ma solo ad
essere posti in condizione di esercitare i diritti connessi alla qualità di soci. Prova
ne sia che l’intrusione del 19 giugno 2009 era stata preannunciata con lettera
raccomandata e che le condotte incriminate furono poste in essere solo dopo che
Borghini Fernando era stato reinserito nelle cariche societarie con decreto del
Giudice del Registro dell’8 luglio 2008 e dopo che il Giudice del Registro aveva
disposto – con altro decreto del 26 giugno 2009 – la cancellazione dal Registro
delle Imprese della delibera assembleare del 18 marzo 2009 di modifica dei patti
sociali. Con lo stesso motivo deduce la non punibilità di Trupia Angela per il reato

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collegiale di Massa nel proc. n. 299/2012 RGVG, avente ad oggetto il rigetto del

di diffamazione, posto in essere – sostiene – in una situazione che ne comporta
la non punibilità (stato d’ira determinato dalla illegittima esclusione dalla
compagine societaria).
2.5. Col quinto motivo lamenta l’erronea applicazione dell’art. 595 cod. pen.
perché – sostiene – non vi è prova della partecipazione di Borghini Fernando
all’attività di diffusione dei volanti diffamatori, in quanto tutti i testi hanno
ricondotto la detta attività all’iniziativa di Trupia Angela.
2.6. Col sesto lamenta l’erronea applicazione – per Trupia Angela – del diritto di

2.7. Anche col settimo motivo si duole dell’erronea applicazione dell’art. 51 cod.
pen. – quantomeno nella forma putativa – in ordine ai fatti ricondotti alle
fattispecie degli artt. 610 e 612-bis cod. pen., avendo gli imputati agito a seguito
del provvedimento del Giudice del Registro del 26/6/2009 (revocato solo il 27
agosto 2009), come si evince – tra l’altro – dalle dichiarazioni dei testi Cossu
(ispettore di p.g.) e Panesi (commercialista della società).
2.8. Con l’ottavo motivo ripropone la qualificazione dei fatti ascritti agli imputati
come esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
2.9. Col nono lamenta un vizio di motivazione con riguardo alla commisurazione
della pena – che non tiene conto della situazione paradossale in cui si sono
venuti a trovare gli imputati, esclusi dalla società sulla base di provvedimenti
oggetto di contrastanti decisioni giudiziali – e alla mancata concessione della
sospensione condizionale della pena, illogicamente motivata col perdurare della
vicenda giudiziaria civile e senza tener conto dell’assenza di comportamenti
riprovevoli successivi al settembre 2009.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Nessun motivo di ricorso merita accoglimento.
1. Il primo motivo è inammissibile per genericità. I ricorrenti si dolgono della
mancata rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in appello – mediante
l’acquisizione della documentazione sopra specificata – senza nulla argomentare
in ordine alla loro decisiva rilevanza. E’ allora il caso di ricordare che la mancata
acquisizione di una prova può essere dedotta in sede di legittimità, a norma
dell’art. 606, comma 1, lett. d) c.p.p., quando si tratta di una “prova decisiva”,
ossia di un elemento probatorio suscettibile di determinare una decisione del
tutto diversa da quella assunta, ma non quando i risultati che la parte si propone
di ottenere possono condurre – confrontati con le altre ragioni poste a sostegno
della decisione – solo ad una diversa valutazione degli elementi legittimamente
acquisiti nell’ambito dell’istruttoria dibattimentale (Cassazione penale, sez. VI,
11/06/2008, n. 37173). E’ noto, peraltro, che nel giudizio d’appello, trattandosi

critica in ordine ai fatti offensivi della reputazione.

di un procedimento critico che ha per oggetto la sentenza impugnata, la
rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale è un istituto di carattere eccezionale,
rispetto all’abbandono del principio di oralità del secondo grado, nel quale vale la
presunzione che l’indagine istruttoria abbia ormai raggiunto la sua completezza
nel dibattimento svoltosi innanzi al primo giudice. In una tale prospettiva, l’art.
603, comma 1, c.p.p. non riconosce carattere di obbligatorietà all’esercizio del
potere del giudice d’appello di disporre la rinnovazione del dibattimento, anche
quando è richiesta per assumere nuove prove, ma vincola e subordina tale

nella sua discrezionalità, di non poter decidere allo stato degli atti. Con la
conseguenza che, se è vero che il diniego dell’eventualmente invocata
rinnovazione dell’istruzione dibattimentale deve essere spiegato nella sentenza di
secondo grado, la relativa motivazione (sulla quale nei limiti della illogicità e
della non congruità è esercitabile il controllo di legittimità) può anche ricavarsi
per implicito dal complessivo tessuto argomentativo, qualora il giudice abbia
dato comunque conto delle ragioni in forza delle quali abbia ritenuto di potere
decidere allo stato degli atti (in questo senso, Cassazione penale, sez. IV,
28/04/2011, n. 23297). Tanto è in concreto avvenuto, giacché l’ordito
motivazionale della sentenza d’appello chiarisce ampiamente perché entrambi gli
imputati debbano ritenersi responsabili dei reati loro ascritti.

2. Sebbene il rilievo contenuto nel secondo motivo di ricorso sia esatto (il
Tribunale di Massa revocò il decreto del Giudice del registro delle imprese del
26/6/2009 in data 27 agosto 2009, e non già il 28 luglio 2009), tuttavia da tale
errore non possono farsi discendere gli effetti pretesi dai ricorrenti. La
qualificazione delle condotte ascritte agli imputati e la loro attribuzione sotto il
profilo soggettivo sono avvenuti, infatti, per ragioni ben diverse da quelle
supposte dai ricorrenti, trovando base nella molteplicità delle azioni delittuose
poste in essere dai prevenuti in un arco temporale ampio e con modalità che non
si conciliano con la pretesa di esercitare – sia pure abusivamente – un diritto,
perché rivolte ad aggredire le persone – per squalificarle nell’ambiente
economico e nella realtà sociale, oltre che per fiaccarne e coartarne la volontà piuttosto che a realizzare coattivamente la situazione giuridica vantata. Invero,
ove la pretesa costituisca solo l’occasione, o il pretesto, per dare sfogo al
malanimo – anche se originato dal contrasto intorno a beni o a situazioni negate
– si è al di fuori della fattispecie invocata dall’imputato per ricadere nelle diverse
ipotesi delittuose ravvisabili nel comportamento concretamente tenuto. In
giurisprudenza si è infatti precisato che nel reato di ragion fattasi restano
assorbiti solo quei fatti che, pur costituendo di per se stessi reato, rappresentano
elementi costitutivi del primo, come il danneggiamento (nel reato di cui all’art.
5

potere, nel suo concreto esercizio, alla rigorosa condizione che il giudice ritenga,

392 cod. pen.) o la violenza o moinaccia (nel reato di cui all’art. 393 cod. pen.);
tuttavia, se la violenza eccede tali limiti, i reati in tal modo commessi danno
luogo ad autonome responsabilità penali, concorrenti eventualmente con il reato
di ragion fattasi, ove sussista il dolo specifico proprio di quest’ultimo (C., Sez. V,
7.12.1988). Nella specie, pertanto, resta opinabile il concorso dei reati di cui agli
artt. 392 e 393 cod. pen. con quelli contestati, ma non la ricorrenza di questi
ultimi.

persecutori e di violenza privata. È infatti configurabile il concorso tra questi due
reati, trattandosi di reati che tutelano beni giuridici diversi, in quanto l’art. 610
cod. pen. protegge il processo di formazione e di attuazione della volontà
personale, ovvero la libertà individuale come libertà di autodeterminazione e di
azione; mentre l’art. 612 bis cod. pen. è preordinato alla tutela della tranquillità
psichica – ed in definitiva della persona nel suo insieme – che costituisce
condizione essenziale per la libera formazione ed estrinsecazione della predetta
volontà (Cass., n. 2283 del 11/11/2014). Non è poi vero che “l’alterazione delle
abitudini di vita può considerarsi una peculiare ipotesi di violenza privata”, come
sostenuto dai ricorrenti, giacché la prima ha uno spettro e un’ampiezza ben
maggiori della rassegnazione a fare, tollerare od omettere qualche specifica cosa
per effetto della coartazione esercitata sulla volontà della vittima. E ciò a
prescindere dal fatto che l’alterazione delle abitudini di vita rappresenta uno dei
possibili risultati della violenza o della minaccia, potendo la stessa concorrere con
le altre forme di “soggezione” contemplate dall’art. 612/bis cod. pen. (che
prevede, pacificamente, più eventi).

4. L’accertamento del grave stato di ansia e di paura, che rappresenta l’evento
del reato, è stato effettuato sulla base delle dichiarazioni delle persone offese (la
cui credibilità, per quel che si dirà, non è stata messa in discussione dai
giudicanti), le quali hanno precisamente rappresentato gli effetti – sulla loro
persona – delle condotte tenute dagli imputati, riferendo di aver avuto timore a
muoversi per la città per tema di incontrare gli imputati ed essere da loro
aggrediti o ingiuriati, di aver percepito esattamente il discredito generato nei loro
confronti, di essere stati costretti a mutare i percorsi solitamente fatti per
raggiungere i luoghi di lavoro e di ricorrere a cure mediche, ecc. Persino i figli
della coppia Liretti avevano dovuto smettere di incontrare gli amici nei soliti
posti, per timore di incontrarvi gli imputati.
Orbene, è ormai ricorrente – nella giurisprudenza di questa Corte – l’affermazione
che la prova dell’evento del delitto di atti persecutori, in riferimento alla
causazione nella persona offesa di un grave e perdurante stato di ansia o di
6

3. Non ha fondamento nemmeno la contestazione del concorso tra i reati di atti

paura, deve essere ancorata ad elementi sintomatici di tale turbamento
psicologico ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi
comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall’agente ed anche
da quest’ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l’evento,
quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di
tempo in cui è stata consumata (Cass., n. 50746 del 14/10/2014. Conformi: N.
14391 del 2012 Rv. 252314, N. 24135 del 2012 Rv. 253764, N. 20038 del
2014 Rv. 259458). Da tale orientamento questo collegio non ravvisa motivo per

accertamenti da effettuare col mezzo della perizia (o altri mezzi tecnici
equivalenti), sia perché l’ansia, la paura o il timore, ovvero il mutamento delle
abitudini di vita, non sono misurabili con mezzi tecnici, sia perché la prova
testimoniale (in questa compresa le dichiarazioni della persona offesa) ha
un’attitudine dimostrativa certamente maggiore delle indagini post delictum,
poste in essere quando gli effetti della condotta hanno subito le ineliminabili
variazioni correlate al decorso del tempo e all’intervento degli organi di polizia
amministrativa e giudiziaria. Inoltre, perché le indagini “tecniche” – che
rappresentano l’unica alternativa praticabile – recano, nella subiecta materia, un
margine di opinabilità certamente maggiore della prova testimoniale, dovendo
cimentarsi con stati d’animo e squilibri psicologici che le scienze umane non sono
in grado di indagare in maniera obbiettiva. Nella specie, nessuna censura può
muoversi alla sentenza impugnata che, sulla base delle dichiarazioni delle
vittime, ha ritenuto provata la produzione dello stato psicologico sopra descritto,
dal momento che le condotte tenute dagli imputati, diffusamente esposte in
sentenza, sono certamente idonee, per reiterazione e qualità, a ingenerare lo
stato morboso lamentato dalle persone offese e ritenuto dal giudicante.
Quanto, poi, alle “intenzioni” nutrite dagli imputati (nel mentre ponevano
in essere le condotte loro contestate) vale il rilievo che l’art. 612/bis cod. pen.
contempla un reato a dolo generico, per la cui integrazione basta la volontarietà
della violenza, della minaccia o della molestia nella consapevolezza della idoneità
delle medesime alla produzione di uno degli eventi alternativamente previsti
dalla norma incriminatrice, non richiedendosi affatto il fine specifico di procurare
gli effetti descritti dalla norma suddetta (C., Sez. V, 19.2.2014, n. 18999; C.,
Sez. V, 27.11.2012-15.5.2013, n. 20993; Cass., n. 20993 del 27/11/2012).
Assertiva e indinnostrata, infine, è l’affermazione che le condotte
diffamatorie di Trupia Angela siano scrinninate dallo stato d’ira in cui la stessa
versava per effetto di torti ricevuti, posto che la sentenza è di tutt’altro tenore e
l’illegittimità dell’esclusione dalla compagine societaria è smentita – allo stato dagli esiti del procedimento giudiziale avviato dagli imputati.

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discostarsi, non potendosi pretendere che la prova del nesso eziologico risieda in

5.

Manifestamente infondato è anche il quinto motivo di ricorso. La

partecipazione di Borghini all’attività diffamatoria posta in essere principalmente – da Trupia è stata desunta dalle dichiarazioni di Lirettí, secondo
cui anche il marito partecipava alla distribuzione dei volantini, nonché dal fatto
che tutta l’attività diffamatoria traeva origine dalla contesa in corso ed era
funzionale alla “complessiva e condivisa strategia di attacco dei coniugi BorghiniTrupia alle PP.00.” . E tale ricostruzione, operata col richiamo di plurime fonti
informative e nemmeno contrastata con l’allegazione di pertinenti argomenti,

suddetto.

6. Completamente disancorato dalle risultanze istruttorie e dalla motivazione
esibita dal giudicante – e perciò inammissibile – è, poi, il riferimento al “diritto di
critica” evocato dalla ricorrente Trupia per escludere la diffamazione, posto che
nessuna contesa esistente con qualsivoglia persona autorizza il contendente a
porre in essere le condotte descritte in sentenza; tanto, a prescindere
dall’attività esercitata da Trupia e dagli avversari e a prescindere dalla natura
della contesa esistente tra gli stessi, che non rimandavano ad un interesse
pubblico o diffuso, che autorizzasse la diffusione – su scala cittadina – delle
“notizie” contenute negli atti e nelle attività poste in essere dall’imputata.

7.

Le riflessioni sviluppate in sentenza – e sopra diffusamente esposte –

costituiscono risposta – pertinente, logica ed esaustiva – anche alla doglianze
sollevate col settimo motivo di ricorso, con cui viene riproposta la tesi, già
ampiamente confutata, dell’esercizio del diritto, essendo stato spiegato che
nessun diritto autorizzava gli imputati a porre in essere gli atti persecutori e
violenti loro ascritti al capo A); e ciò a prescindere dal fatto che, allorché
venivano posti in essere le condotte loro ascritte, il diritto ad essere riammessi
nella compagine societaria non aveva ricevuto alcuna sanzione giudiziaria,
essendo aperto il procedimento relativo. Né giova agli imputati appellarsi a uno
dei tanti provvedimenti emessi dalle Autorità adite nel corso del lungo
contenzioso intrapreso con le persone offese, trattandosi, in ogni caso, di
provvedimenti non definitivi, tutti sub-iudice, che vennero poi regolarmente
ribaltati – in senso sfavorevole agli imputati – dal giudice dell’impugnazione.

8. L’ottavo motivo rappresenta pedissequa riproposizione di quelli precedenti e
ne segue, pertanto, le sorti.

9. Quanto al diniego della sospensione condizionale della pena, questo Collegio
aderisce all’opinione – espressa in plurimi arresti – secondo cui, nel valutare la

8

costituisce valido titolo di imputazione anche nei confronti di Borghini del reato

concedibilítà del beneficio, il giudice non ha l’obbligo di prendere in esame tutti
gli elementi indicati nell’art. 133 cod. pen., ma ben può limitarsi ad indicare
quelli da lui ritenuti prevalenti (Sez. I, n. 6239 del 1989, Palarnara, Rv. 184181;
Sez. I, n. 326 del 1992, P.M. in proc. Gelati, Rv. 189611; Sez. I, n. 4136 del
1993, P.G. Mil. in proc. Sinesi, Rv. 193735; Sez. IV, n. 9540 del 1993, Scalia,
Rv. 195225). Nella specie, il riferimento al contegno processuale degli imputati e
alle dichiarazioni rese, nel corso del processo, dagli appellanti, costituiscono siccome indicative di una pervicacia offensiva non intaccata nemmeno

pericolosità, idoneo a fondare una prognosi di reiterazione delle condotte e,
quindi, a legittimare la negazione del beneficio.

10. In conclusione, nessuno dei motivi proposti appare idoneo ad intaccare sotto alcuno dei profili esaminati – la decisione impugnata. Segue il rigetto del
ricorso e, ai sensi dell’art. 592 c.p.p., comma 1, e art. 616 c.p.p, la condanna dei
ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
Così deciso il 27/10/2015

dall’esercizio dell’azione penale – legittimo criterio di valutazione della

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