Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 40105 del 26/05/2015


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 40105 Anno 2015
Presidente: MANNINO SAVERIO FELICE
Relatore: MULLIRI GUICLA

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Laudicina Leonardo, nato a Spoleto il 17.2.40
imputato art. 674 c.p.

avverso la sentenza del Tribunale di Alessandria del 29.4.14
Sentita, in pubblica udienza, la relazione del cons. Guida Mùlliri;
Sentito il P.M., nella persona del P.G. dr. Sante Spinaci, che ha chiesto il rigetto del
ricorso;
Sentito il difensore delle PP.CC ., avv. Vittorio Spallasso, in sostituz. Avv.ti Giuseppe
Lanzavecchia e Roberta Canoria, che ha insistito per il rigetto del ricorso;
Sentito il difensore
dell’imputato avv. Guido Fracchia, che ha insistito per
l’accoglimento del ricorso;

RITENUTO IN FATTO

1. Vicenda processuale e provvedimento impugnato – Il ricorrente, nella sua qualità di
direttore con delega per l’ambiente dello stabilimento di Arquata Scrivia, CEMENTIR Italia,
esercente un cementificio, è accusato di avere provocato emissioni di odori, fumi e polveri dal

Data Udienza: 26/05/2015

predetto stabilimento idonei ad offendere e molestare gli abitanti nelle vicinanze. In
particolare, si trattava di odori di zolfo e di polveri emessi dall’impianto in occasione del suo
malfunzionamento ovvero provocati dalla movimentazione delle materie prime e senza che
fossero adottate tecniche idonee per evitare la produzione delle polveri, ovvero il loro
abbattimento.
Con la sentenza impugnata, il Tribunale ha dichiarato la responsabilità del Laudicina e lo
ha condannato alla pena di 180 € di ammenda oltre al risarcimento delle parti civili.

2. Motivi del ricorso
Avverso tale decisione, l’imputato ha proposto ricorso, tramite
difensore, impugnando, con distinti motivi, talune ordinanze dibattimentali e la sentenza.
Più precisamente:
(quanto all’ordinanza del 2.2.12) si deduce vizio della motivazione in punto di carenza di
legittimazione della parte civile e violazione di legge relativamente alla ammissibilità della
causa petendi. Si censura il testo della motivazione adottata dal giudice osservando che esso
appare di difficile intelligibilità perché, per un verso, si riferisce a “situazioni concrete ed
effettive” in un momento in cui il processo non si è ancora celebrato e, per altro verso, si parla
di rilevabilità “in astratto” di un collegamento a situazioni “concrete ed effettive”.
Inoltre, si parla di persone dimoranti nelle abitazioni circostanti, utilizzando cioè il
termine “dimora” (ben diverso da quello di “residenza”) e senza nulla dire a proposito della effettiva
frequentazione dei luoghi (visto che la norma parla di danno alle “persone”);
(quanto all’ordinanza del 17.4.12) si deduce vizio della motivazione e violazione di legge
con riferimento agli artt. 517 e 522 c.p.p.. E’, infatti accaduto che, con la predetta ordinanza, il
giudice ha ammesso la contestazione suppletiva fatta in udienza dal P.M. in un momento
diverso da quello consentito. Il codice, infatti, prevede che il P.M. possa contestare un reato
connesso ovvero una circostanza aggravante solo quando tali emergenze si presentino “nel
corso dell’istruzione dibattimentale; invece, nella specie, ciò è avvenuto in un momento del
tutto iniziale quando, invece, avrebbe dovuto essere fatto in sede di conclusione delle indagini
preliminari con conseguenti possibilità difensive;
(quanto alle ordinanze del 29.12.12 ed a quella dell’1.4.14 ) si deduce vizio della motivazione
relativamente alla reiezione delle domande di oblazione sul capo 3 del 4.10.12 e del 25.2.14).
In particolare la censura si riferisce all’asserzione del giudice secondo cui non sarebbe
stato possibile – in entrambi i casi – ritenere l’effettività degli accorgimenti adottati
nell’escludere emissioni di analoga natura. Le suddette affermazioni, infatti, sarebbero
generiche e prive di riscontro; tanto più, nel secondo caso in cui lo stesso giudice dà atto della
“fattività degli interventi migliorativi” e posto che la materia di cui si sta trattando (polveri e
fumi/odori) è intimamente connessa con una lavorazione a caldo mentre nella specie era stata
fornita prova dello spegnimento antecedente la domanda di oblazione del 25.2.14.
Il giudice, però, non ha spiegato perché, malgrado la disattivazione dell’area a caldo,
sarebbe perdurato il rischio di emissioni;

e violazione di legge
(quanto alla sentenza) si deduce vizio della motivazione
relativamente alla sussistenza della fattispecie di cui all’art. 674 c.p.
Sebbene sollecitato dalla difesa, il Tribunale non ha affrontato il tema della estensione
analogica alla prima parte dell’inciso (contenuto nella seconda parte) “nei casi non consentiti dalla
legge” sebbene vi sia copiosa giurisprudenza in tal senso sì da doversi concludere che, laddove
si tratti – come nel caso in esame – di attività regolarmente autorizzate il rispetto delle norme
e prescrizioni di settore che le regolano comporta una “presunzione di legittimità delle
emissioni (Sez. III, 13.5.08 n. 36845).
Il giudicante, nel caso in esame nulla ha detto a riguardo limitandosi a citare il criterio
della “stretta tollerabilità” senza sviluppare i predetti temi e nonostante la esistenza di
obiettive incertezze sui contenuti delle condotte descritte nell’art. 674 c.p.. A tal fine, si
rammentano pronunzie di questa S.C. nelle quali si pone l’accento sulla necessità che il
nocumento più o meno grave che la norma intende evitare sia messo in correlazione con la sua
capacità lesiva nei confronti delle persone che vengono imbrattate o offese dal getto pericoloso

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Il ricorrente conclude invocando l’annullamento della sentenza impugnata.
Con atto pervenuto 1’11.5.15, le parti civili hanno depositato una memoria nella quale si
invoca il rigetto del ricorso dell’imputato.

CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Motivi della decisione Il ricorso è inammissibile perché, a tratti generico e,
comunque, manifestamente infondato.

3.1. La questione che il ricorrente pone con riguardo alla ordinanza del 2.2.12 è
speciosa.
Attraverso una parcellizzazione delle frasi del giudice si tenta di insinuare l’idea che il
provvedimento di ammissione delle parti civili non fosse adeguatamente motivato, difettando
la dimostrazione del danno, laddove è però chiaro che, trattandosi di una valutazione in limine
litis, non era certo possibile, prima ancora dell’inizio del processo, avere già acquisito la
“prova” del danno (che, ovviamente, si forma nel corso dell’istruttoria dibattimentale).
Prima facie, quindi, il giudizio del giudice in quel momento era corretto perché correlato
alla obiettiva segnalazione di disturbo e molestia da parte delle numerose persone abitanti
nella zona limitrofa alla sede dell’azienda gestita dall’imputato.
Né merita apprezzamento la ulteriore puntualizzazione, formalistica ed inappropriata, a
proposito del significato del termine dimora rispetto a quello di residenza. Posto che la norma
parla di danno alle “persone”, è chiaro che proprio la genericità del termine legittima il
richiamo a quelle persone che, in concreto, lamentano fastidi e che, quindi, possono essere
tanto persone regolarmente residenti sul piano anagrafico quanto persone che, comunque,
dimorano nei pressi per le più varie ragioni che qui non rilevano. Nell’eventualità, poi, il
ricorrente avesse inteso insinuare il dubbio che taluno dei soggetti aspiranti alla costituzione
non solo non aveva una residenza ma non era neppure stabilmente dimorante (sì da non avere
motivo di doglianza), non si può fare a meno di evidenziare la genericità dell’assunto.
In ogni caso, anche a voler seguire il ricorrente nei suoi distinguo tra residenti e
dimoranti, si deve rimarcare che l’espressione usata dal giudice (persone dimoranti) risulta più
appropriata rispetto al riferimento alla residenza posto che, anche giuridicamente, il termine
indica un vivere obiettivo in un certo luogo mentre la residenza può essere anagrafica ma non
corrispondere alla realtà dei fatti.
È, peraltro, meritevole di considerazione anche la obiezione formulata dalle parti civili
nella memoria depositata 1’11.5.15 là dove si richiama l’attenzione sul fatto che la questione
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(Sez. III, 13.4.10, n. 22032). Di qui, la necessità di una esatta individuazione dell’oggetto materiale
del reato.
Nella specie ciò non è avvenuto e non sembra esaustivamente onorato l’obbligo
motivazionale nel momento in cui si richiama semplicemente la documentazione fotografica
prodotta dalle difese di p.c. visto che essa é priva di qualsivoglia specificazione tecnica, non si
conosce l’esatta collocazione temporale delle riprese, non è chiaro se si riferisca ad uno
episodio (eventualmente occasionale) ovvero a più d’uno. Quanto agli “odori”, poi, il giudice ha
conferito valore e dignità oggettiva a quella che è solo una valutazione meramente soggettiva
delle parti sentite in dibattimento.
A tale stregua, il ricorrente formula anche una questione di legittimità costituzionale in
relazione all’art. 25 comma 2 Cost. dell’art. 674 c.p. ricordando che la stessa pronuncia n.
96/81 della Consulta aveva sottolineato l’indefettibile necessità di chiarezza nella valutazione
della corrispondenza tra fatto concreto e norma di legge. Nella specie, quindi, anche alla luce
delle oscillazioni giurisprudenziali in tema di odori permane un problema interpretativo relativo
alla possibile operatività della norma in caso di violazione dei “limiti”consentiti” anche in
conseguenza del fatto che non tutti i fenomeni sono disciplinati con limiti prefissati per legge
sicché la presenza di emissioni che disturbano può dipendere da inosservanza di regole di
condotta ma anche come conseguenza ineliminabile nonostante l’osservanza delle regole.
Si impone, quindi, una formulazione più concreta e precisa della norma.

sull’ammissione delle parti civili è stata formulata negli stessi termini in altro analogo giudizio a
carico del Laudicina deciso da altra sezione di questa S.C. (sez. I, 28..13, Rv. 256784) che aveva
ugualmente respinto l’eccezione ritenendo la piena legittimazione delle parti civili.

L’inammissibilità della seconda deduzione (concernente l’ordinanza del 17.4.12) è
correlata alla sua totale genericità visto che, innanzitutto, deduce una infrazione che, semmai
esistente, sarebbe del tutto formale dal momento che neppure il ricorrente spiega in cosa sia
consistita la lesione del suo diritto di difesa in conseguenza della nuova contestazione.
La questione, comunque, è formulata in modo così vago e generico da non permettere
di comprendere cosa sia accaduto veramente.
Leggendo la sentenza, invece, si capisce che si tratta di una presunta difformità tra
l’avviso di cui all’art. 415 bis ed il decreto di citazione e che in particolare, nel decreto, è stata
indicata come data di commissione quella del 2008 mentre, nel 415 bis, quella del 2009 ed il
giudice osserva giustamente a riguardo che si è trattato di un errore materiale e che, nella
sostanza, la contestazione è rimasta identica visto che l’informazione circa i fatti contestati
era chiara, precisa e , “sovrapponibile” nel raffronto tra i due atti sì da potersi argomentare
legittimamente di essere al cospetto di un mero errore trascrittivo che aveva determinato la
retrodatazione al 2008.
Vi è da soggiungere che, a fronte dell’assenza totale di maggiori specificazioni da parte
del ricorrente, il giudice, nel commentare la medesima censura ha svolto una serie di ulteriori
riflessioni assolutamente corrette a proposito della insussistenza di un limite temporale per
l’esercizio del potere di modificare l’imputazione in dibattimento. Ciò viene argomentato
facendo leva sulla direttiva n. 76 di cui all’art. 2 della Legge Delega per l’emanazione del
vigente codice di procedura penale dalla cui lettura si evince che, in un sistema impostato sul
principio del contraddittorio (rafforzato dalle ripetute raccomandazioni da parte della Consulta, di evitare la
dispersione di elementi utili per un giusto processo), è sicuramente impensabile argomentare
meccanicisticamente (come, invece, risulta fare proprio il ricorrente nella specie) che, in ipotesi di
parziale omissione (per inerzia o errore) della contestazione di elementi di accusa già presenti in
atti, il P.M. non possa provvedere alla integrazione/correzione sin dall’inizio del dibattimento.
E ciò, tanto più quando risultino rispettate le garanzie previste dagli artt. 519 e 521.
Nel caso, in esame, infatti, a seguito delle contestazioni suppletive formulate dal P.M.
all’udienza del 2.2.12, era stato concesso alla difesa con nuova notificazione all’imputato non
presente e rinvio all’udienza del 5.7.12.
L’eccezione qui formulata è, quindi, palesemente infondata.

L’inammissibilità caratterizza anche la censura formulata con riguardo alle
3.3.
ordinanze del 29.12.12 e dell’1.4.14 con le quali sono state respinte altrettante istanze di
ammissione all’oblazione.
A dispetto di ciò che sostiene il ricorrente si rileva infatti che il giudice (sia pure con prosa
un po’ contorta ed involuta) offre una motivazione della propria decisione spiegando che, nonostante
gli interventi migliorativi adottati dall’imputato, non era possibile affermare la integrale
eliminazione degli effetti dannosi perché «riferiti come perdurantemente percepibili (e
percepiti) non già in contesti di isoalata occasionalità bensì da parte di una pluralità di soggetti
passivi che ne lamentano il pregiudizio connesso ad esso» (f.9).
Il che equivale a dire che, per il giudice, non poteva dirsi raggiunta la prova della
eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose perché, malgrado la “fattività degli
interventi migliorativi” posti in essere dall’imputato, le parti lese (per l’esattezza, «una pluralità
di soggetti passivi») avevano riferito che «sia pure in forma meno accentuata» continuavano a
lamentare il pregiudizio denunciato.
Non si trattava, quindi, di un fenomeno occasionale, ma diffuso, che precludeva, quindi,
l’ammissibilità della causa estintiva invocata.
Manifestamente destituita di fondamento è, pertanto, la tesi difensiva secondo cui il
giudice non avrebbe motivato il diniego di ammissione all’oblazione.

4

3.2.

3.4. Venendo, infine, alle critiche che il ricorrente muove alla sentenza impugnata
nella parte che concerne il merito delle imputazioni, non si può, in primo luogo, fare a meno di
rimarcare che, come evidenziato anche dalle parti civili, si tratta di censure identiche a quelle
sviluppate dal medesimo imputato nel ricorso deciso con la sentenza n 31477/13 relativa ad un
caso praticamente identico al presente e che era stato ugualmente oggetto di reiezione.
In ogni caso, anche la sentenza qui impugnata, ancorché con linguaggio un po’
ridondante, ha offerto tutte le risposte utili e corrette per ribattere alle presenti doglianze.
Ricordando, con ampiezza di citazioni, la testimonianza del tecnico ARPA, si è, pertanto,
sottolineato che, quella dell’imputato, non poteva essere definita un’attività autorizzata perché
si trattava di scorie della lavorazione («il biossido di azoto è un composto chimico tipico delle combustioni»
f 10). Di qui, l’impossibilità di applicare l’inciso normativo invocato, contenuto nella seconda
parte della norma di cui si assume la violazione.
D’altro canto, gli odori sono stati avvertiti da una pluralità di testi con picchi – registrati
dagli accertamenti dell’ARPA – corrispondenti a quelli in cui i residenti si sono lamentati. Né,
sottolinea opportunamente la sentenza impugnata (f. 11), è stato possibile ipotizzare
ragionevolmente «una riconducibilità di cotali odori a fonti di emissione differenti
dall’insediamento produttivo in questione». Si soggiunge, infine, nella sentenza che gli apporti
testimoniali ed i citati riscontri tecnici sono stati «oltre tutto avallati, anche esteriormente,
dalla (eloquente) documentazione fotografica prodotta dalle stesse persone offese».
Sulla scorta di quanto precede, la mera riproposizione, da parte del ricorrente, della
medesima tesi difensiva, può essere agevolmente smentita attraverso le parole della stessa
decisione impugnata laddove ricorda che l’intera vicenda è stata correttamente ricondotta
nell’alveo dell’art. 674 c.p. (quanto alle polveri), come versamento di cose (t 14). Ci vale ma
anche per le “molestie olfattive” promananti dall’azienda dell’impianto ancorché, questi
risultasse munito di autorizzazione dal momento che, in difetto di valori-limite predisposti
normativamente, il parametro di riferimento deve essere quello della “stretta tollerabilità” (f.
15) che, nella specie, si è dimostrato ampiamente superato. A tale proposito, non è inutile
ribadire anche la recente decisione di questa S.C. (sez. III, 11.12.14, Ventura, Rv. 261794) secondo cui,
ai fini della configurabilità del reato di getto pericoloso di cose, «non si richiede che la condotta
contestata abbia cagionato un effettivo nocumento, essendo sufficiente che essa sia idonea ad
offendere, imbrattare o molestare le persone, nè tale attitudine deve essere necessariamente
accertata mediante perizia, potendo il giudice, secondo le regole generali, fondare il proprio
convincimento su elementi probatori di diversa natura, quali, in particolare, le dichiarazioni
testimoniali di coloro che siano in grado di riferire caratteristiche ed effetti delle immissioni,
quando tali dichiarazioni non si risolvano nell’espressione di valutazioni meramente soggettive
o di giudizi di natura tecnica, ma si limitino a riferire quanto oggettivamente percepito dai
dichiaranti medesimi».
Peraltro, a dispetto della opposta affermazione del ricorrente, il ragionamento del
giudice è risultato ampio ed argomentato in modo logico, sia sul piano fattuale che giuridico, sì
che una replica dei medesimi concetti, nella presente sede, sarebbe un fuor d’opera posto che,
come anticipato, le censure del ricorrente si risolvono nella mera negativa della loro esistenza
e/o giustezza.
Per le medesime ragioni, ed a prescindere dalla genericità della stessa censura, deve
ribadirsi – come già fatto dalla prima sezione di questa S.C. nella sentenza del 28.5.13, n.
21477 (Rv. 256784) — la inammissibilità della eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 674
per presunta violazione del principio di tassatività essendo essa irrilevante in quanto l’inciso
incriminato (nei casi non consentiti dalla legge) si riferisce solo alla seconda ipotesi prevista dall’art.
674 e non alla prima ipotesi che è quella qui ritenuta sussistente.

Alla presente declaratoria segue, per legge, la condanna del ricorrente al pagamento
delle spese processuali ed al versamento alla Cassa delle Ammende della somma di 1000 C
nonché al rimborso delle spese del grado (liquidate in complessivi 15.467,25 C oltre a spese
generali ed accessori di legge), in favore delle seguenti parti civili: Boragine Pasquale, Imelio
Renato, Lussu Annamaria, Repetto Bruno,Camere Mariarosa,Cazzulo Angelo, Scotto Luisa,
Mongiardini Lorenzo Kim Young, Mongiardini Serena, Bagnasco Eugenia, Lanza Maria Cinzia,
Gualco Giuseppe, Putzu Luigia, Artratico Ferdinanda, Barbieri Christian, Mignone Maria Silvia,
Poggio Gianluigi, Zafferano Alberto, Zafferano Elisabetta, Castelli Giampiero, Morsoletto
5

Giuseppina, Boragine Massimiliano, Daglio Ellen, Cecchi Danilo, Surace Antonietta, Riotto
Cosimo, Retetto Alberto, Parodi Maria Gabriella, in proprio e quali eredi di Repetto Luigi, Patri
Gian Piero e Modolo Giancarlo. Divano Piero, Ripoli Elisabetta, Riga Fioravante, Camussa
Pasqualina, Riga Lucia, Riga Silvia, Ricci Maria, Bertoli Marco, Bondielli Bianca, Bertoli Roberto,
Scanzo Antonino, Scanzo Maurizio, Barbieri Giuseppina, Ponta Domenico, Ponta Michele,
Pallavicino Liliana, Guerra Elio, Guerra Enzo, De Leve Carla, De Benedetti Nicolò, Poggi Anna
Rosa, Lasagna Angelo, Montecucco Maria Angela, Boragine Francesco, Scanzo Concetta, Ierardi
Lucio, Ierardi Mina, Pellegrini Angela,

Visti gli artt. 615 e ss. c.p.p.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali
ed al versamento alla Cassa delle Ammende della somma di € 1000 nonché al rimborso delle
spese del grado – che liquida in complessivi 15.467,25 € oltre a spese generali ed accessori di
legge – in favore delle parti civili: Boragine Pasquale, Imelio Renato, Lussu Annamaria, Repetto
Bruno, Camere Mariarosa,Cazzulo Angelo, Scotto Luisa, Mongiardini Lorenzo Kim Young,
Mongiardini Serena, Bagnasco Eugenia, Lanza Maria Cinzia, Gualco Giuseppe, Putzu Luigia,
Artratico Ferdinanda, Barbieri Christian, Mignone Maria Silvia, Poggio Gianluigi, Zafferano
Alberto, Zafferano Elisabetta, Castelli Giampiero, Morsoletto Giuseppina, Boragine
Massimiliano, Daglio Ellen, Cecchi Danilo, Surace Antonietta, Riotto Cosimo, Retetto Alberto,
Parodi Maria Gabriella, in proprio e quali eredi di Repetto Luigi, Patri Gian Piero e Modolo
Giancarlo. Divano Piero, Ripoli Elisabetta, Riga Fioravante, Camussa Pasqualina, Riga Lucia,
Riga Silvia, Ricci Maria, Bertoli Marco, Bondielli Bianca, Bertoli Roberto, Scanzo Antonino,
Scanzo Maurizio, Barbieri Giuseppina, Ponta Domenico, Ponta Michele, Pallavicino Liliana,
Guerra Elio, Guerra Enzo, De Leve Carla, De Benedetti Nicolò, Poggi Anna Rosa, Lasagna
Angelo, Montecucco Maria Angela, Boragine Francesco, Scanzo Concetta, Ierardi Lucio, Ierardi
Mina, Pellegrini Angela.

Così deciso il 26 maggio 2015
Il Presidente

P.Q.M.

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