Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 39911 del 04/06/2014


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 39911 Anno 2014
Presidente: IPPOLITO FRANCESCO
Relatore: BASSI ALESSANDRA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
PROCURATORE GENERALE PRESSO CORTE D’APPELLO DI
CATANIA
nei confronti di:
SCUTO SEBASTIANO N. IL 11/09/1941
CASTRO ORAZIO N. IL 03/12/1951
e da:
SCUTO SEBASTIANO N. IL 11/09/1941
avverso la sentenza n. 1930/2011 CORTE APPELLO di CATANIA, del
18/04/2013.
Visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 04/06/2014 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. ALESSANDRA BASSI;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Giuseppe VOLPE che
ha concluso per l’inammissibilità del ricorso del procuratore generale e
l’annullamento senza rinvio, limitatamente alla confisca ex art. 12 sexies
della L. 356 del 1992 e l’annullamento con rinvio limitatamente alla
confisca ex art. 416 bis, comma 7; rigetto nel resto.
Uditi i difensori Avv.ti Giovanni GRASSO e Franco Carlo COPPI per
SCUTO e Tommaso TAMBURRINO per CASTRO.

Data Udienza: 04/06/2014


RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 16 aprile 2012, il Tribunale di Catania ha condannato
Scuto Sebastiano alla pena di anni quattro mesi otto di reclusione per i delitti di
partecipazione ad associazione di tipo mafioso ai sensi dell’art. 416-bis, commi
1, 3, 4 e 6, cod. pen. (capo A) e lo ha assolto dalla condotta – oggetto di
contestazione suppletiva – di cui al punto 2 bis del capo A) della rubrica e dal

416-bis, comma 7, cod. pen, nella misura del 15% delle quote societarie in
sequestro appartenenti a Scuto Sebastiano ed a società di egli è socio e, nella
stessa misura percentuale, di tutti i beni appartenenti a tutte le società predette.
Il Tribunale ha altresì assolto Castro Orazio dal reato di concorso esterno in
associazione mafiosa (capo D).
Con sentenza del 18 aprile 2013, la Corte d’Appello di Catania – in
accoglimento dell’appello del P.G., in parziale riforma della sentenza appellata ha dichiarato Scuto Sebastiano colpevole anche della condotta di cui al punto 2
bis del capo A) della rubrica, ha rigettato nel resto l’appello del P.G. e l’appello
dell’imputato ed ha, in particolare, confermato l’assoluzione di Scuto Sebastiano
dal reato di estorsione continuata di cui al capo C) ed, escluse le circostanze
attenuanti generiche concesse in primo grado con giudizio di prevalenza, ha
rideterminato la pena irrogata in anni dodici di reclusione, estendendo la confisca
alle quote societarie ed ai beni sottoposti a sequestro preventivo con decreto del
Gip di Catania del 28 settembre 2001, come da elenco allegato al dispositivo. La
Corte ha inoltre rigettato l’appello del P.G. quanto a Castro Orazio, nei confronti
del quale ha confermato l’assoluzione dal reato di concorso esterno in
associazione mafiosa.

2.

Come dato atto nella sentenza impugnata, i fatti oggetto del presente

processo traggono origine dalla confluenza degli atti di due distinti procedimenti
(n. 763/97 per art. 416-bis c.p., c.d. associazione Laudani, e 110 – 575 cod.
pen., omicidio Aiello, iscritto a carico di Scuto Sebastiano nell’aprile 1998) e n.
9799/00 R.G. N.R. (per art. 416-bis cod. pen., associazione Laudani), avocati nel
corso delle indagini preliminari dal Procuratore generale presso la Corte d’appello
di Catania, ai sensi dell’art. 412 del codice di rito.
In data 12 ottobre 2000, scaduto il termine delle indagini a carico di Scuto,
il P.M. avanzava richiesta di archiviazione del procedimento n. 763/97 ed il Gip,
investito della richiesta – dissentendo dalle motivazioni esposte a sostegno dal
pubblico ministero -, fissava l’udienza camerale ai sensi dell’art. 409, comma 2,

reato di estorsione continuata (capo C); ha quindi disposto la confisca ex art.

cod. proc. pen., dandone avviso alle parti. In data 12 marzo 2001, il Procuratore
generale avocava le indagini e, nel corso dell’udienza camerale fissata per il 27
marzo 2001, dopo avere premesso che l’avocazione comportava di per sé la
caducazione della richiesta di archiviazione, chiedeva la restituzione degli atti e
l’assegnazione di un termine congruo per il completamento delle indagini.
All’esito dell’udienza, il giudice disponeva la restituzione degli atti al P.G. e
ordinava darsi corso ad ulteriori indagini, assegnando il termine di un anno.
Successivamente, su richiesta del P.G., il giudice concedeva due proroghe delle

in data 21 maggio 2001, il procedimento 9797/2000 veniva riunito al
procedimento n.763/97.
Durante le indagini a seguito della restituzione degli atti da parte del Gip e
delle proroghe accordate, la Procura Generale procedeva, nelle forme
dell’incidente probatorio, all’esame di numerosi collaboratori di giustizia ed a
perizia contabile.
In data 28 settembre 2001, su richiesta della Procura Generale, il Gip presso
il Tribunale di Catania emetteva ordinanza di custodia cautelare nei confronti di
Scuto Sebastiano e di sequestro preventivo di tutti i suoi beni, ordinanza
confermata dal Tribunale del riesame di Catania, con ordinanza del 22 ottobre
2001, e quindi dalla Suprema Corte, con sentenza n. 10575 del 2003.
Con la sentenza di primo grado del 16 aprile 2012, il Tribunale di Catania
disponeva la restituzione dei beni già sottoposti a sequestro preventivo nella
misura dell’85°/0 a Scuto Sebastiano ed integralmente agli altri destinatari sicché
il vincolo reale continuava permanere nella misura del 15% dei beni del
ricorrente.
In data 6 maggio 2013, la Procura Generale avanzava richiesta di sequestro
preventivo ai sensi dell’art. 12-sexies legge del 7 agosto 1992, n. 356, e 416,
comma 7, cod. pen., richiesta accolta dalla stessa Corte d’appello di Catania e
parzialmente confermata dal Tribunale del riesame della stessa città.

3. Nel merito, il Tribunale e la Corte d’appello hanno dato atto del fatto che
Scuto Sebastiano – sin dagli anni ’70 imprenditore nell’ambito della distribuzione
alimentare – è titolare di diverse società fra cui la Aligroup S.p.A. detentrice del
marchio Despar con sede in San Giovanni La Punta, luogo in cui da decenni è
stabilmente insediato il gruppo mafioso denominato Laudani, capeggiato – fino
alla morte per omicidio avvenuta nell’ottobre 1992 – da Gaetano Laudani, figlio
di Sebastiano, fondatore e primo capo del clan. Quanto all’esistenza
dell’associazione di tipo mafioso, i giudici di merito hanno richiamato gli
accertamenti compiuti in via definitiva in numerose sentenze passate in
3

indagini con i provvedimenti del 22 febbraio e 11 settembre 2002. Nel frattempo,

giudicato, alcune delle quali acquisite al procedimento. Indi, hanno rilevato come
– sulla base delle prove raccolte ed, in particolare, delle dichiarazioni rese dai
plurimi collaboratori di giustizia – si possa ritenere provato che Scuto Sebastiano,
dopo essere stato per un certo periodo sottoposto ad estorsione da parte del
gruppo mafioso, a partire dalla metà degli anni ’80, abbia instaurato un rapporto
di vera e propria collaborazione con l’organizzazione criminale, sicché l’originaria
posizione di vittima è mutata in quella di vero e proprio affiliato, organico al
gruppo mafioso, trasformandosi egli da imprenditore vittima in imprenditore

rilevantissimo ruolo di finanziatore del clan, di riciclatore e di investitore dei
proventi dei delitti attraverso le proprie attività imprenditoriali, ricevendo in
cambio protezione, fonti di finanziamento nonché aiuti di varia natura, secondo
un rapporto di natura sinallagmatica.
La Corte ha ritenuto che, sulla base delle risultanze dell’istruttoria, si
debbano ritenere provate anche le condotte oggetto della contestazione di cui al
punto 2 bis del capo sub A), concernenti l’apertura “di nuovi centri commerciali
ad insegna Despar a Palermo e provincia gestiti in comune con il clan di
appartenenza dei Laudani e con quegli alleati di Santapaola Benedetto di
Catania, di Provenzano Bernardo e Lo Piccolo Salvatore e Lo Piccolo Alessandro
di Palermo”, rispetto alle quali Scuto Sebastiano è stato assolto in primo grado.
Giova evidenziare come il punto 2 bis del capo A) – oggetto di contestazione
suppletiva nel corso del dibattimento di primo grado – fosse stato ritenuto dal
primo giudice integrante un fatto diverso e non un fatto nuovo, con ordinanza
confermata dalla Corte di cassazione Sezione II con sentenza del 14 gennaio
2009.

4. Con riguardo alle questioni processuali dedotte in appello dall’imputato, la
Corte territoriale:
4.1.

ha rigettato l’eccezione di inutilizzabilità degli atti assunti dopo la

scadenza delle indagini preliminari ritenendo legittimo il provvedimento con il
quale il giudice, investito della richiesta di archiviazione del procedimento n.
763/97, fissata l’udienza ai sensi dell’art. 409, comma 2, cod. proc. pen. e preso
atto dell’avocazione del Procuratore generale e della sostanziale revoca della
richiesta di archiviazione, disponeva la restituzione degli atti al pubblico
ministero, concedendo il termine di un anno per il compimento delle indagini
indicate e di eventuali altre ritenute indispensabili;
4.2.

ha rigettato la richiesta di inutilizzabilità degli atti per illegittimità sia

del provvedimento di concessione del termine di un anno assegnato dal Gip
quando ormai erano scaduti i termini per le indagini, sia delle due proroghe
4

colluso con la criminalità organizzata. In particolare, Scuto avrebbe assunto il

concesse dal Gip in data 22 febbraio 2002 e 11 settembre 2002, richiamando il
consolidato orientamento ermeneutico della giurisprudenza costituzionale e di
legittimità, secondo il quale il termine per le indagini previsto dal codice di rito
vale esclusivamente per il compimento delle indagini svolte autonomamente dal
pubblico ministero e non anche per le indagini indicate dal giudice in quanto
ritenute necessarie, anche oltre il termine di scadenza delle indagini;
4.3.

ha ritenuto insussistente la dedotta violazione degli artt. 521 e 522

cod. proc. pen. in relazione alle aggravanti di cui all’art. 416-bis, commi 4 e 6,

4.4.

pur dando atto dell’erroneità della decisione assunta dal Tribunale

allorchè non ammetteva la deposizione del collaboratore di giustizia Sturiale e
non acquisiva la documentazione medica costituente prova contraria rispetto alla
deposizione del collaborante Laudani Giuseppe – in quanto ritenute non
assolutamente necessarie ai fini del decidere, mentre avrebbe dovuto compiere
la valutazione ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 190 e 495 del
codice di rito – ha comunque ritenuto tali prove superflue o manifestamente
irrilevanti;
4.5.

ha rigettato l’eccezione di inutilizzabilità degli interrogatori resi da

Scuto Sebastiano in data 23 settembre 1998 (innanzi al P.M.) ed 1 marzo 2001
(di garanzia innanzi al Gip) (dedotta sul presupposto che essi non fossero stati
rinnovati ai sensi dell’art. 26, comma 2, legge n. 63 del 2001), rilevando che la
rinnovazione è dovuta esclusivamente con riguardo alle dichiarazioni rese innanzi
al pubblico ministero (Cass. Sez. U n. 22497 del 2011), ma non nel caso di
dichiarazioni rese dinanzi al giudice (Cass. 25 ottobre 2005 Rv. 233129);
4.6.

ha ritenuto non acquisibili al processo le dichiarazioni rese dal

collaboratore Giuseppe Feroni in interrogatorio dopo che egli si era avvalso della
facoltà di non rispondere in altro procedimento penale, atteso che l’acquisizione
delle prove ai sensi dell’art. 238 cod. proc. pen. vale con esclusivo riferimento
agli atti ritualmente assunti nel contraddittorio delle parti, non sussistendo nella
specie il consenso del P.M. all’acquisizione.
4.7.

ha rigettato le eccezioni di inattendibilità delle dichiarazioni rese da

diversi collaboratori di giustizia, ricordando i consolidati principi espressi dalla
Suprema Corte sul punto ed, in particolare, ha ritenuto attendibili le dichiarazioni
rese da:
– Eugenio Sturiate (evidenziando i riscontri oggettivi alle dichiarazioni del
collaboratore; ritenendo condivisibile il principio affermato dal Tribunale secondo
il quale l’eventuale sentimento di astio o di rancore non può di per sé essere
ritenuto aprioristicamente indicativo della scarsa attendibilità soggettiva del

5

cod. pen. in quanto contestate in fatto, seppure non formalmente;

collaborante; dando atto del fatto che alcune imprecisioni nella narrazione non
possono ritenersi sintomatiche di inattendibilità);
– Giuseppe Laudani (ricostruendo la storia familiare del collaboratore; dando
atto del confronto con Giuseppe Maria Di Giacomo; ritenendo irrilevante ai fini
del giudizio di attendibilità la sindrome depressiva del Laudani; passando in
rassegna le censure mosse dagli appellanti in punto di credibilità del
collaboratore);
– Giuffrida Alfio Lucio (evidenziando come, dalla lettura complessiva delle
bis abbreviato” e

“Ficodindia 4 bis ordinario”, si evinca che il collaboratore aveva parlato di
“stipendio” riscosso dai Tigna nei confronti di Scuto e non di “estorsione” in suo
danno e del fatto che Scuto era “amico” della famiglia Laudani);
– Antonino Calì, Salvatore Di Stefano, Basile ano Demetrio, Catalano
Giuseppe, Ferone Giuseppe, Litrico Matteo, Pattarino Francesco, Pulci Calogero.
4.8. La Corte territoriale ha confermato i dubbi, già espressi dal giudice di
primo grado, in ordine alla attendibilità delle dichiarazioni di Di Giacomo
Salvatore secondo cui Scuto sarebbe stato una “vittima” di estorsione
(evidenziando che Di Giacomo è stato reggente dell’associazione per un arco
temporale limitato – dal 26 ottobre 1992 all’il settembre 1993 – e che vi sono
ombre “inquietanti” sulla sua credibilità soggettiva).

5.

Nel merito, il giudice di secondo grado ha ritenuto integrata la

partecipazione di Scuto Sebastiano al reato associativo di cui al capo A)
rilevando come, dalle convergenti dichiarazioni dei numerosi e credibili
collaboratori di giustizia, possa ritenersi provato che l’imputato, sottoposto in
una prima fase ad estorsione da parte del clan Laudani, sia poi divenuto intraneo
alla consorteria, versando all’organizzazione – come chiarito dai collaboranti
Catalano e Malvagna – somme di denaro quantificate in circa 100.000.000 di lire
all’anno, non in quanto estorto, ma “spontaneamente”. Ancora, la Corte ha posto
in luce come, secondo quanto dichiarato da alcuni collaboratori, Scuto abbia
provveduto ad erogazioni straordinarie di somme di denaro alla famiglia Laudani
finalizzate all’acquisto di armi o droga e come, contrariamente a quanto dedotto
dal ricorrente, a Scuto sia derivata una serie di vantaggi a favore dello stesso e
delle sue attività economiche, tradottisi in particolare nella protezione da rapine
ed estorsioni, agevolazione per gli acquisti e per l’apertura di supermercati
nonché investimenti, in modo da consentire all’imprenditore di espandere
notevolmente la propria attività e di imporsi sul territorio, elementi tutti
connotanti specificamente la situazione dell’imprenditore “colluso”, secondo i
principi espressi dalla Cassazione nella sentenza n. 30534 del 2010.
6

dichiarazioni rese da Giuffrida nei processi “Ficodindia 4

o
La Corte ha poi esaminato il valore probatorio delle sentenze passate in
giudicato acquisite ai sensi dell’art. 238-bis cod. proc. pen., nelle quali era
emerso che Scuto era vittima di estorsione, evidenziando come in tali
procedimenti la posizione dell’appellante sia stata affrontata soltanto in via
incidentale. Ha posto in luce come non si possa giungere ad una diversa
conclusione alla luce delle comprovate estorsioni in danno dei punti vendita di
Bronti e di via Verona a Catania, sussistendo una netta differenza fra i punti
vendita riconducibili direttamente a Scuto – oggetto di protezione – e quelli degli

Quanto alla rapina al furgone portavalori dell’istituto Civis commessa in data 15
febbraio 1993 presso il supermercato Despar di via Fisichella, il giudice d’appello
ha rimarcato come, secondo le intenzioni degli autori affiliati al clan, tale delitto
non avrebbe dovuto danneggiare Scuto, che sarebbe stato indennizzato del
danno dall’assicurazione.
La Corte ha poi esaminato una serie di vicende dimostrative della
partecipazione di Scuto all’associazione per delinquere di tipo mafioso, in
particolare: la vicenda “Sicula carni”; la consegna al clan Laudani delle
videoregistrazioni delle rapine in danno dei supermercati Despar in modo tale
che fossero identificati gli autori; la vendita allo Scuto (rectius a due società del
medesimo e della sua famiglia) di un supermercato e di un terreno edificabile di
proprietà della società DA.CO . riconducibile ai Laudani; – la vicenda “MA.TU.RA.”,
analoga a quella della “Sicula carne”, con la precisazione che tale società faceva
capo a componenti dell’alleata famiglia Santapaola; la vicenda del “Forno San
Giorgio” di Catalano; la locazione a titolo gratuito di un immobile sito in
Viagrande di proprietà di CEDAL a Castro, soggetto facente parte del clan
Laudani; la disponibilità di Scuto a cambiare in denaro contante gli assegni che il
clan aveva a disposizione in quanto provento dei reati fine; la ricettazione di
merce provento di rapine ai Tir nei supermercati Despar; la disponibilità di Scuto
a fornire merce a supermercati del clan mafioso; la vicenda Musmeci – Azzarello;
le movimentazioni bancarie da parte di Scuto a favore di Carmelo Rizzo,
imprenditore, esponente di spicco del clan Laudani, non giustificate da alcuna
verificabile causale; il sostegno alla candidatura di Santo Trovato, candidato
sostenuto anche dal clan Laudani, mediante regalia di buoni spendibili nei
supermercati Despar.
Il giudice d’appello ha altresì dato atto delle risultanze delle perizie disposte
che hanno accertato:
– la concreta possibilità di mettere in vendita nei supermercati di Scuto
merce non regolare fatta entrare attraverso il magazzino centralizzato;

affiliati Despar, a lui non direttamente riconducibili e non protetti dalla famiglia.

ferma la formale regolarità della contabilità della società, la concreta
possibilità di creare provviste fuori bilancio e di consentire l’ingresso
nell’impresa di proventi dell’attività mafiosa;
alcune anomalie non riscontrate in altre società analoghe del sottore,
quali la sottocapitalizzazione e un rilevante ricorso al debito di fornitura,
incompatibili con investimenti di lungo e medio termine intrapresi dalla
società e soprattutto con gli acquisti di numerosi costosissimi immobili,
punti vendita e partecipazioni societarie, dati sintomatici della

provenienza illecita;
il fatto che, nel giugno 1998, sia stata creata una struttura societaria a
catena anonima in Lussemburgo, cui è stato trasferito il 75% dell’intero
pacchetto azionario di Aligrup, nonché costituita una riserva per
sovrapprezzo azioni che ha reso di fatto agevolmente disponibili ben 15
miliardi di lire, operazioni utilizzabili quale schermo per il riciclaggio.
La Corte ha ritenuto integrati sia l’elemento soggettivo del reato di cui
all’art. 416-bis cod. pen.; sia la circostanza aggravante di cui all’art. 416-bis,
comma 6, cod. pen., risultando provato che Scuto aveva messo a disposizione
del clan la sua società, le cui risorse economiche venivano nel tempo
incrementate con i proventi delittuosi investiti dai Laudani.
5.1. Nell’ampio capitolo dedicato alle condotte oggetto della contestazione

suppletiva di cui al punto 2 bis del capo A), relativo al”Grande Progetto” di
espansione delle attività commerciali di Scuto a Palermo e provincia grazie
all’apporto dei clan, oltre che Laudani, Santapaola, Madonia e Provenzano oggetto di assoluzione da parte del Tribunale e quindi di appello del Procuratore
generale -, i giudici d’appello hanno ritenuto provata la penale responsabilità di
Scuto Sebastiano, da un lato, ritenendo credibili e reciprocamente riscontate le
dichiarazioni rese dai collaboratori Malvagna, Pattarino e Pulci; dall’altro lato
(superando il “vuoto probatorio” in relazione al periodo successivo al 1992
attestato dal giudice di prime cure), valorizzando una serie di circostanze
provate dall’istruttoria dibattimentale ed, in particolare, il fatto che l’espansione
palermitana era stata frutto di un accordo con i clan e dunque rientrava nel
programma associativo; che nel periodo di riferimento Scuto era inserito nel clan
Laudani; che Scuto aveva effettivamente aperto centri Despar a Palermo e
provincia, assumendo una serie di partecipazioni in società che vedevano la
presenza di soggetti legati a vario titolo ad ambienti mafiosi. La Corte territoriale
ha evidenziato che il collaboratore di giustizia Franzese aveva riferito che tutti i
centri Despar erano riconducibili agli interessi di Cosa nostra ed ha preso in
esame ed argomentato in ordine a tutti i profili di criticità delle dichiarazioni rese
8

immissione nella società di risorse economiche possibilmente di

dal Franzese posti in risalto dalla difesa. Infine, la Corte ha evidenziato alcune
vicende dimostrative della fondatezza della imputazione in oggetto (assunzione
di Micalizi; i pizzini sequestrati a Bernardo Provenzano; l’interesse del boss
Matteo Messina Denaro ad assunzioni di personale presso la Despar di Gricoli).
5.2. In merito alla contestazione del delitto di estorsione cui al capo C) oggetto di assoluzione in primo grado e quindi di appello del Procuratore
generale -, dopo avere premesso che gli elementi di prova sono costituiti dalle
dichiarazioni delle persone offese Zappalà Salvatore e Zappalà Luigi, dalle

interrogatori resi dall’imputato al pubblico ministero e al Gip, la Corte d’appello
ha evidenziato come manchino riscontri individualizzati alle dichiarazioni rese da
Testa e come non vi siano ragioni per ritenere non credibili le dichiarazioni rese
dalle persone offese Zappalà, fra l’altro corroborate da quanto riferito dal
collaboratore Castro. In particolare, la Corte ha escluso che, anche alla luce della
successiva ritrattazione, alle dichiarazioni di Scuto possa riconoscersi valore
confessorio come di valido elemento di riscontro alle dichiarazioni del Testa. A
fronte di tale quadro di incertezza probatoria, il giudice

a quo ha dunque

confermato il giudizio assolutorio.
5.3. Quanto alla confisca, dopo avere dato atto dei motivi di appello del
Procuratore generale e dell’imputato Scuto e premesso che, nella specie, può
essere disposta la confisca sia ai sensi dell’art. 416, comma 7, cod. pen., sia ai
sensi dell’art.

12-sexies

L. n. 356/1991 (disposizioni entrambe poste a

fondamento del provvedimento di sequestro preventivo emesso dalla stessa
Corte il 6 maggio 2013), la Corte ha ritenuto provato alla luce delle perizie
contabili il presupposto di cui all’art. 12-sexies della sproporzione fra i redditi
leciti e le attività economiche dell’imputato e i beni acquisiti nonché sussistenti i
presupposti per la confisca ex art. 416-bis, comma 7, cod. pen., essendo stata la
società di Scuto finanziata con il contributo rilevante e sistematico di capitali
illeciti della famiglia mafiosa Laudani, sicchè, preso atto della impossibilità di
separare i capitali leciti e i loro impieghi dai capitali illeciti e i loro impieghi,
l’azienda costituisce unitariamente lo strumento operativo attraverso il quale è
stato attuato il sistematico reimpiego dei profitti dell’attività delittuosa
dell’associazione mafiosa. La Corte ha poi disposto la confisca delle quote e dei
beni intestati a moglie e figli in quanto soggetti privi di adeguate ed autonome
risorse finanziarie, beni già sottoposti a sequestro preventivo dal Gip con
provvedimento del 28 settembre 2001.
5.4.

Quanto al trattamento sanzionatorio, la Corte ha ritenuto non

concedibili a Scuto Sebastiano le circostanze attenuanti generiche, non potendo
assumere valenza positiva l’originaria situazione di vittima di estorsione vista la
9

dichiarazioni dei collaboranti Testa Martino e Castro Giuseppe e dagli

posizione di vantaggio tratta, né il comportamento processuale serbato
dall’imputato, improntato ad ostacolare le indagini. La Corte ha ritenuto di dover
applicare il trattamento sanzionatorio successivo alla modifica del 2008, in
quanto la condotta si è protratta sino alla pronuncia della sentenza appellata.

6. Con riguardo alla posizione di Castro Orazio, la Corte ha confermato il
giudizio assolutorio in ordine alla imputazione di concorso esterno in associazione
mafiosa di cui al capo D), sostanziatosi – secondo la contestazione – nell’avere

comandante della Stazione dei Carabinieri di Aci S. Antonio. Il giudice di seondo
grado ha dato conto della forte problematicità della vicenda concernente la
restituzione degli assegni rubati al supermercato Despar di Scuto da parte dei
Carabinieri, secondo il verbale di rinvenimento e consegna a firma del
maresciallo Castro senza che fosse avviata alcuna indagine, e della sussistenza
di indubbi profili di devianza nel fatto che Castro si fosse incontrato in ora
notturna, presso la ditta dove la moglie lavorava come custode, con Nicotra
Giovanni – asseritamente suo “confidente” – ed altre due persone,
verosimilmente pregiudicate. Tuttavia, operata una valutazione unitaria delle
diverse emergenze, rilevata la contraddittorietà fra le dichiarazioni rese dai
collaboranti Di Stefano e Giuffrida, considerate le dichiarazioni rese dai testi
(dagli operanti Pitonio, Salvo, Torrisi e dall’informatore Licciardello, quanto alla
vicenda della restituzione degli assegni; dagli operanti Curcio, Casale e
Azzarone, quanto all’incontro con Nicotra e due soggetti) e dallo stesso imputato,
dato atto della genericità delle dichiarazioni rese dai collaboratori Pattarino e
Andronico e dell’assenza di riscontri quanto all’esistenza di un preventivo
consenso di Castro all’incontro con i malavitosi ed al fatto che, in quella sede,
egli avesse effettivamente rivelato notizie d’ufficio, la Corte ha concluso per la
conferma del giudizio assolutorio in ordine alla imputazione ex artt. 110 e 416bis cod. pen.

7. Avverso il provvedimento ha presentato ricorso il Procuratore generale
della Corte d’appello di Catania, chiedendone l’annullamento per i seguenti
motivi.
7.1. Violazione dell’art. 606, comma 1 lett. e), cod. proc. pen. con riguardo
all’assoluzione di Scuto Sebastiano dal reato di estorsione di cui al capo C),
avendo la Corte d’appello compiuto un vero e proprio travisamento delle
risultanze processuali, laddove ha svalutato la sostanziale confessione di Scuto
Sebastiano (allorchè aveva sostanzialmente ammesso di essere stato l'”amico
buono” che aveva indirizzato Zappalà Luigi verso Cordaro, cui versava poi le
10

fornito informazioni su indagini e attività inerenti lo svolgimento del suo ufficio di

somme oggetto di estorsione) nonché ignorato la di lui dimensione associativa,
conclamata all’epoca dell’estorsione e riconosciuta dalla stessa Corte d’appello
nel confermare la condanna per il reato di cui al capo A); nel contempo, ha
attribuito piena credibilità alle dichiarazioni dibattimentali delle persone offese
Zappalà Salvatore e Zappalà Luigi, travisando le dichiarazioni da essi rese ed, in
particolare, trascurando di considerare che Zappalà Luigi si era limitato a riferire
solo alcuni aspetti della vicenda appresi dal fratello.
7.2. Violazione dell’art. 606, comma 1 lett. e), cod. proc. pen. con riguardo

particolare riferimento alla valutazione delle dichiarazioni dei collaboratori di
giustizia, avendo la Corte errato laddove non ha considerato credibili le
convergenti dichiarazioni rese dai due collaboratori Testa e Castro e non ha
considerato quale riscontro individualizzante alle dichiarazioni di Testa la
confessione resa dallo stesso Scuto nel primo interrogatorio del marzo 2001.
7.3. Violazione dell’art. 606, comma 1 lett. e), cod. proc. pen. con riguardo

all’assoluzione di Scuto Sebastiano dal reato di estorsione di cui al capo C), con
particolare riferimento alla valutazione delle dichiarazioni rese in interrogatorio
dall’imputato, avendo la Corte del tutto apoditticamente svalutato le dichiarazioni
rese da Scuto nel primo interrogatorio del 1

marzo 2001, privilegiando le

dichiarazioni rese nel secondo interrogatorio del 10 novembre 2001, nel quale verosimilmente rendendosi conto della portata delle sue dichiarazioni l’imputato aveva “aggiustato il tiro”.
7.4. Violazione dell’art. 606, comma 1 lett. e), cod. proc. pen. con riguardo

all’assoluzione di Castro Orazio dal reato di concorso esterno in associazione
mafiosa contestato al capo D), avendo la Corte territoriale omesso di prendere in
considerazione le puntuali censure mosse con l’atto d’appello, sostenute da
precise emergenze oggettive, concernenti, da un lato, la restituzione a Scuto
degli assegni rapinati, commettendo un falso nella relazione di servizio; dall’altro
lato, l’incontro avvenuto presso il luogo di lavoro della moglie del Castro fra
quest’ultimo, Nicotra Giovanni ed altri esponenti di spicco del clan Laudani,
dovendosi ritenere del tutto inverosimile che il meeting fosse avvenuto per
un’autonoma e personale iniziativa del Nicotra senza il consenso dell’imputato.
La Corte avrebbe inoltre svalutato le dichiarazioni rese da Giuffrida in merito alla
“vicinanza” del maresciallo Castro al clan Laudani.
7.5. Violazione dell’art. 606, comma 1 lett. e), cod. proc. pen. con riguardo

all’assoluzione di Castro Orazio dal reato di concorso esterno in associazione
mafiosa contestato al capo D), con particolare riferimento alla valutazione delle
dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia, avendo la Corte svalutato le

11

all’assoluzione di Scuto Sebastiano dal reato di estorsione di cui al capo C), con

dichiarazioni rese dai collaboranti Giuffrida e di Di Stefano, da ritenere invece
pienamente credibili alla luce della mole di riscontri.
7.6. Violazione dell’art. 606, comma 1 lett. e), cod. proc. pen. con riguardo
all’assoluzione di Castro Orazio dal reato di concorso esterno in associazione
mafiosa contestato al capo D), in ordine alla valutazione delle dichiarazioni a
discolpa dell’imputato ed ai suoi rapporti con Nicotra, avendo la Corte trascurato
di considerare che la spiegazione fornita da Castro – secondo cui Nicotra era un
suo “informatore” – era tesa all’evidente scopo di garantirsi una “copertura”

8.

Avverso il provvedimento hanno presentato ricorso gli Avv.ti Franco

Coppi e Giovanni Grasso, difensori di Scuto Sebastiano, chiedendone
l’annullamento per i seguenti motivi.
8.1. Violazione dell’art. 606, comma 1 lett. c) ed e), cod. proc. pen., in
relazione agli artt. 407 e 409 del codice di rito, per avere il Tribunale
erroneamente rigettato l’eccezione di inutilizzabilità degli atti di indagine
compiuti successivamente alla scadenza dei termini di durata massima delle
indagini ed illogicità della motivazione della Corte d’appello sul punto. Lamentano
i ricorrenti che la richiesta di archiviazione avanzata dal pubblico ministero è
stata revocata da parte del Procuratore generale avocante, con conseguente
illegittimità del provvedimento del Gip di restituzione degli atti al P.M. e di
assegnazione di un termine di un anno per nuove indagini; altrettanto illegittime
sono le ulteriori due proroghe di indagini disposte dal Gip; sono, di conseguenza,
inutilizzabili tutti gli atti disposti dopo la scadenza del termine delle indagini.
8.2. Violazione dell’art. 606, comma 1 lett. e), cod. proc. pen. in relazione
agli artt. 495, comma 2, e 190 del codice di rito, per avere la Corte d’appello
rigettato le richieste a prova contraria rispetto all’esame del collaborante Sturiale
e del collaborante Laudani Giuseppe.
8.3. Violazione dell’art. 606, comma 1 lett. e), cod. proc. pen. in relazione ai
criteri di valutazione delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia ai sensi degli
artt. 192 e 195 del codice di rito nonché omessa motivazione con riguardo alle
richieste formulate nell’atto d’appello di assunzione di prova sopravvenuta ai
sensi dell’art. 603, comma 2, cod. proc. pen. In particolare, i ricorrenti
eccepiscono la violazione delle norme del codice di rito in punto di valutazione
delle dichiarazioni dei collaboratori e dei principi affermati in materia dalla
Suprema Corte, anche a Sezioni Unite, in relazione ai seguenti dichiaranti:
– Sturiale Eugenio (per le contraddizioni nelle dichiarazioni e per l’erroneità
del principio affermato secondo cui l’avere palesato il risentimento nei confronti
dell’accusato costituisce motivo di attendibilità delle propalazioni)
12

rispetto ai suoi rapporti con l’associazione mafiosa.

- Laudani Giuseppe (in quanto soggetto affetto da disturbi psichiatrici, che
ha reso dichiarazioni contraddittorie, generiche ed inattendibili)
– Di Giacomo (avendo la Corte svalutato le dichiarazioni le collaborante che
ha riferito che Scuto era vittima del clan in quanto estorto)
– Giuffrida (soggetto inattendibile, avendo reso dichiarazioni contraddittorie
quanto alla natura delle somme date da Scuto ed alla protezione assicurata ai
supermercati di Scuto)

Di Stefano

(soggetto inattendibile avendo reso dichiarazioni

– Catalano (soggetto inattendibile avendo reso dichiarazioni contraddittorie
nonché smentite da precise circostanze obbiettive; la Corte avrebbe inoltre
errato nel ritenere che la rivelazione di un sentimento di risentimento verso
l’accusato costituisca un indice di attendibilità delle dichiarazioni)
– Ferone (soggetto inattendibile essendo caduto in contraddizioni nelle prime
e nelle seconde dichiarazioni rese; la Corte avrebbe inoltre errato nel valorizzare
il fatto che il collaborante abbia palesato l’esistenza di motivi d’astio con
l’accusato)
Litrico (avendo la Corte sanato il difetto di credibilità soggettiva del
collaborante alla luce di riscontri esterni, in effetti mancanti)
– Pattarino (avendo la Corte d’appello errato nel ritenere superate le censure
relative alla credibilità del collaborante a fronte delle ammissioni dello stesso in
merito alle sue riserve mentali nella prima fase della collaborazione)
– Pulci (essendo stata la condotta mistificatoria del collaboratore riconosciuta
in altre sentenze; avendo la Corte trascurato di valutare le specifiche
circostanze dedotte dal ricorrente).
8.4. Violazione dell’art. 606, comma 1 lett. e), cod. proc. pen., per vizio di
motivazione per avere la Corte ritenuto insussistente il ragionevole dubbio che
Scuto Sebastiano sia soggetto, non intraneo al clan Laudani, bensì vittima di
estorsione del clan stesso, omettendo di valutare gli elementi prospettati dalla
difesa dell’atto d’appello [le censure alle dichiarazioni di Catalano e di Malvagna;
le dichiarazioni dei collaboranti Troina, Calì, Di Giacomo (ritenute erroneamente
inattendibili sul punto dalla Corte); le dichiarazioni rese da Marangolo e Zuppalà;
atti intimidatori subiti da Scuto; la vicenda Sicula Carni; l’estorsione subita dal
clan Santapaola]
8.5. Violazione dell’art. 606, comma 1 lett. e), cod. proc. pen. per vizio di
motivazione, avendo la Corte confermato il giudizio di responsabilità di
Sebastiano Scuto per il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. sulla base delle
inattendibili dichiarazioni di Giuseppe Laudani e di Eugenio Sturiale (essendo
inidonee a riscontro le dichiarazioni rese da collaboratori Catalano, Testa, Castro,
13

contraddittorie anche in relazione al manoscritto rinvenuto in suo possesso)

Nicotra, Ferone e dai collaboratori di area Santapaola Marino, Lanza Scavo e
Palazzolo) e trascurato di considerare plurimi elementi a favore, costituiti: dalle
dichiarazioni di Giuffrida, Di Giacomo e Di Stefano (quanto all’assenza di una
cointeressenza di natura economica tra Scuto e Laudani); dalle dichiarazioni di
diversi imprenditori (quanto alla correttezza dei rapporti intrattenuti con
l’imprenditore Scuto); dalla circostanza che l’imputato abbia subito nei propri
punti vendita diverse rapine, anche da parte di esponenti dello stesso clan
Laudani, nonché l’assalto al furgone portavalori Civis proprio dinanzi ad un

suoi legami con il clan Laudani; da diverse vicende erroneamente valorizzate dai
giudici di merito come indicative della “disponibilità di Scuto verso il clan Laudani
(DA.CO ; MA.TU.RA.; forno di San Giorgio; locazione dell’immobile in Viagrande;
ricettazione di merce rubata nei supermercati; fornitura di merce ad esponenti
del clan; vicenda Musumeci – Azzarello; erogazioni straordinarie di somme di
denaro alla famiglia Laudani; ruolo politico di Scuto).
8.6. Violazione dell’art. 606, comma 1 lett. e), cod. proc. pen. per vizio di
motivazione in relazione ai profili economici, laddove, da una parte, lo stesso
Tribunale ha escluso che le imprese di Scuto abbiano operato un sistematico
reclutamento di forza lavoro proveniente da ambienti criminali; d’altra parte,
dall’istruttoria dibattimentale è emersa la correttezza imprenditoriale di Scuto,
mentre non può ritenersi provata l’attività di riciclaggio di denaro del clan da
parte delle imprese di Scuto, alla luce delle contestate conclusioni delle perizie
contabili su Aligrup S.p.A.
8.7. Violazione dell’art. 606, comma 1 lett. e), cod. proc. pen. per vizio di
motivazione in relazione alla condanna con riguardo al punto 2 bis del capo A)
per violazione del principio “dell’oltre ogni ragionevole dubbio”, laddove la Corte
d’appello è pervenuta ad una conclusione opposta rispetto a quella del Tribunale
– che aveva assolto l’imputato da tale imputazione ritenendo che gli elementi
raccolti non consentissero di affermare che il progetto fosse andato oltre la fase
ideativa -, sottovalutando le dichiarazioni rese dal Maresciallo Grasso (quanto
all’assenza di evidenze comprovanti l’esistenza di attività economiche comuni fra
i Laudani e la mafia nissena) e le dichiarazioni di altri collaboratori, limitandosi
ad operare una lettura delle emergenze dibattimentali alternativa a quella
compiuta dal giudice di primo grado. La Corte ha inoltre ritenuto le dichiarazioni
rese dal collaboratore di giustizia Franzese attendibili, con una valutazione
difforme rispetto a quella del Tribunale, contravvenendo ai principi affermati
dalla Corte EDU (nella pronuncia 5 luglio 2011 Dan c/Moldovia) e dalla Corte di
cassazione (Sez. 6 n. 16566/2013), in quanto avrebbe dovuto rinnovare
l’assunzione della prova innanzi a sé.
14

proprio supermercato; dal fatto che Scuto non abbia tratto alcun vantaggio dai

8.8. Violazione dell’art. 606, comma 1 lett. b) ed e), cod. proc. pen. per
violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza
dell’elemento soggettivo del reato di associazione mafiosa, avendo il collaborante
Giuffrida riferito che ogni richiesta di denaro veniva giustificata con la scusa degli
onorari degli avvocati, di tal che Scuto ignorava che le richieste di denaro erano
volte a finanziare l’acquisto di armi per la guerra di mafia con la famiglia Tigna,
circostanza incompatibile con l’affectio societatis.
8.9. Violazione dell’art. 606, comma 1 lett. e), cod. proc. pen. per vizio di

cui all’art. 416-bis, comma 6, cod. pen., mancando la prova dell’intenzione degli
associati di assumere il controllo delle attività economiche di Scuto, laddove la
società Aligroup è rimasta – nella forma e nella sostanza – sempre di proprietà
della famiglia Scuto e gestita da essa.
8.10. Violazione dell’art. 606, comma 1 lett. e), cod. proc. pen. per vizio di
motivazione in relazione alla esclusione delle circostanze attenuanti generiche,
tenuto conto della condizione di incensuratezza dell’assistito e delle modalità
della condotta.
8.11. Violazione dell’art. 606, comma 1 lett. b) ed e), cod. proc. pen. per
violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla mancata applicazione
del trattamento sanzionatorio previsto dall’originaria disciplina dell’art. 416-bis
cod. pen., essendo le condotte integranti il reato permanente cessate – secondo
quanto evidenziato nell’appello – sicuramente prima della decisione del Tribunale
ed avendo la stessa Corte d’appello attestato che la disciplina sanzionatoria
applicabile è quella vigente al momento finale della contestazione cioè al “giugno
2006”.
8.12. Violazione dell’art. 606, comma 1 lett. b), c) ed e), cod. proc. pen.
per violazione di legge penale sostanziale e processuale e vizio di motivazione in
relazione alla confisca disposta ai sensi dell’art.

12-sexies L. n. 356/1992,

avendo la Corte riformato la decisione di primo grado nonostante il Procuratore
generale non avesse fatto appello sul punto concernente l’adozione del vincolo
reale soltanto in relazione all’art. 416, comma 7, e non in relazione all’art. 12sexies, sicchè sul punto era ormai intervenuto il giudicato parziale implicito. In
ogni caso, come già ritenuto dal Tribunale, sezione autonoma misure di
prevenzione, nel provvedimento del luglio 2008, fa difetto il presupposto della
sproporzione fra redditi e flussi finanziari.
8.13. Violazione dell’art. 606, comma 1 lett. b), c) ed e), cod. proc. pen.
per violazione di legge penale sostanziale e processuale e vizio di motivazione in
relazione alla confisca disposta ai sensi dell’art. 416-bis, comma 7, cod. pen.,
essendo la Corte incorsa nel vizio di motivazione sotto un duplice profilo: da un
15

motivazione in relazione alla mancata esclusione della circostanza aggravante di

lato, allorché ha affermato che la società Aligroup costituiva unicamente e
strutturalmente un dispositivo di reimpiego dei profitti generati dal clan Laudani
attraverso l’attività criminale; dall’altro lato, allorchè ha proceduto ad una
reformatio in peius delle diverse conclusioni del Tribunale che aveva disposto la
confisca limitatamente al 15% delle quote e dei beni riferibili a Scuto.
8.14. Violazione dell’art. 606, comma 1 lett. b) ed e), cod. proc. pen. per
violazione di legge penale e vizio di motivazione in relazione alla applicazione
della misura di sicurezza della libertà vigilata in mancanza del presupposto della

8.15. Violazione dell’art. 606, comma 1 lett. c), cod. proc. pen. per
violazione della legge processuale in relazione alla utilizzabilità – dichiarata dalla
Corte d’appello – dell’interrogatorio reso da Scuto Sebastiano in data 1 marzo
2001, posto a base dell’ipotesi accusatoria di cui al capo C), laddove l’esigenza di
rinnovare l’interrogatorio ai sensi dell’art. 26, comma 2, legge del 1 marzo 2001,
n. 63, opera anche con riferimento all’interrogatorio di garanzia, e non soltanto
con riguardo all’interrogatorio innanzi al pubblico ministero, come ritenuto dal
giudice di secondo grado.

9. Nella memoria depositata in Cancelleria, i difensori di Scuto Sebastiano
hanno insistito per l’annullamento della sentenza per i seguenti motivi aggiunti.
9.1. Violazione dell’art. 606, comma 1 lett. c), cod. proc. pen., in relazione
agli artt. 518 e 522, comma 2, cod. proc. pen. (punto VII del ricorso), atteso che
la contestazione di cui al punto 2 bis del capo A) dell’imputazione integra un
fatto nuovo, di tal che, non avendo l’imputato prestato il consenso alla
contestazione, la sentenza è nulla.
9.2. Quanto al punto I del ricorso (concernente l’inutilizzabilità degli atti
d’indagine compiuti oltre la scadenza delle indagini), si deve ritenere contrariamente a quanto argomentato dalla Corte territoriale – che la richiesta di
archiviazione sia sempre revocabile finché il giudice non si sia pronunciato su di
essa, sicchè – come di recente chiarito dalla Corte di cassazione (Sez. 5 del 12
giugno 2012 n. 37302) – l’ordinanza con la quale il Gip disponga ulteriori indagini
in caso di revoca della richiesta di archiviazione deve ritenersi inutiliter data, con
conseguente inutilizzabilità di tutti gli atti d’indagini successivi alla (prima)
scadenza delle indagini.
9.3. In relazione al XIII motivo di ricorso (riguardante la confisca dell’intero
patrimonio di Scuto Sebastiano e dei suoi familiari), fanno difetto nella specie i
presupposti della “impresa mafiosa”, di tal che possono essere sottoposti a
confisca ex art. 416-bis, comma 7, cod. pen. solo ed esclusivamente quei beni
costituenti frutto dello specifico reato di associazione mafiosa; nella motivazione
16

pericolosità sociale.

del provvedimento impugnato non viene inoltre spesa alcuna parola per motivare
in ordine ad eventuali intestazioni fittizie in capo a terzi.

10. In udienza, il Procuratore generale ha chiesto che il ricorso del
Procuratore generale della Corte d’appello di Catania sia dichiarato inammissibile
con riguardo ad entrambe le posizioni di Scuto Sebastiano e Castro Orazio.
Quanto al ricorso nell’interesse di Scuto Sebastiano, il Procuratore generale
ha chiesto che la sentenza impugnata sia annullata senza rinvio limitatamente
12-sexies

L. n. 356/1992 ed annullata con rinvio

limitatamente alla confisca ex art. 416-bis, comma 7, cod. pen., e che il ricorso
sia rigettato nel resto.
L’Avv. Tamburino, difensore di Castro Orazio, ha chiesto che il ricorso del
Procuratore generale sia dichiarato inammissibile; in subordine che il ricorso sia
rigettato.
Gli Avv.ti Grasso e Coppi, difensori di Scuto Sebastiano, hanno insistito per
l’accoglimento del ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.

Ritiene il Collegio che il ricorso del Procuratore generale debba essere

dichiarato inammissibile con riguardo ad entrambe le posizioni degli imputati
Scuto Sebastiano e Castro Orazio; che il ricorso presentato nell’interesse di
Scuto Sebastiano debba essere in parte accolto e che, in particolare, la sentenza
impugnata debba essere annullata senza rinvio quanto alla confisca ex art. 12sexíes L. n. 356/1992 ed annullata quanto al punto 2-bis del capo A) della
imputazione nonché alla confisca ex art. 416-bis, comma 7, cod. pen., con rinvio
ad altra sezione della Corte d’Appello di Catania per nuovo giudizio su tali punti,
con rigetto nel resto del ricorso.

2. Con riguardo al ricorso del Procuratore generale, rileva il Collegio come,
nell’impugnare la decisione assolutoria assunta dalla Corte territoriale nei
confronti di Scuto Sebastiano, quanto al reato sub capo C), e nei confronti di
Castro Orazio, quanto al reato di cui al capo D), il ricorrente abbia, nella
sostanza, riproposto le stesse censure già dedotte in appello, con conseguente
inammissibilità del ricorso.

2.1.

Secondo il costante insegnamento di questa Corte è infatti

inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che si risolvono nella
17

alla confisca ex art.

pedissequa reiterazione di quelli già dedotti in appello e puntualmente disattesi
dalla corte di merito, dovendosi gli stessi considerare non specifici ma soltanto
apparenti, in quanto omettono di assolvere la tipica funzione di una critica
argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso (Cass. Sez. 6, n. 20377 del
11/03/2009, Arnone e altri, Rv. 243838).
2.2. D’altra parte, le doglianze mosse dal Procuratore generale all’apparato
argomentativo svolto dai giudici di secondo grado si risolvono per lo più in
censure di merito, mediante le quali viene prospettata una ricostruzione

costante orientamento di questa Corte, rende inammissibile il ricorso per
cassazione, in quanto fondato su argomentazioni che si pongono in confronto
diretto con il materiale probatorio, e non, invece, sulla denuncia di uno dei vizi
logici tassativamente previsti dall’art. 606, comma 1 lett. e), cod. proc. pen.,
riguardanti la motivazione del giudice di merito in ordine alla ricostruzione del
fatto (Cass. Sez. 6, n. 43963 del 30/09/2013, P.C., Basile e altri, Rv. 258153).
Ed invero, per espressa volontà del legislatore, anche a seguito della novella
operata dalla legge del 20 febbraio 2006, n. 46, il sindacato demandato alla
Corte di cassazione essere limitato a riscontrare l’esistenza di un logico apparato
argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di
verificare l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è
avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle
acquisizioni processuali. Esula, infatti, dai poteri della Corte di legittimità quello
di una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui
valutazione è riservata, in via esclusiva, al giudice di merito, senza che possa
integrare un vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa – e per il
ricorrente più adeguata – valutazione delle risultanze processuali

(ex plurimis

Cass. Sez. 6, n. 25255 del 14/02/2012, Rv. 253099; Sez. 2, n. 23419 del
23/05/2007, Rv. 236893).
2.3. In ogni caso, va rilevato come la Corte territoriale abbia passato
puntualmente in rassegna gli elementi posti a fondamento dell’accusa a carico di
Scuto Sebastiano in ordine alla imputazione di estorsione cui al capo C)
(segnatamente le dichiarazioni delle persone offese Zappalà Salvatore e Zappalà
Luigi, le dichiarazioni dei collaboranti Testa Martino e Castro Giuseppe e gli
interrogatori resi dall’imputato al pubblico ministero e al Gip) ed abbia dato
contezza – con motivazione diffusa, puntuale ed immune da vizi logici – delle
ragioni per le quali, da un lato, le dichiarazioni delle persone offese debbano
ritenersi credibili e, dall’altro lato, facciano difetto riscontri individualizzati alle
dichiarazioni rese dal collaboratore Testa.

18

alternativa dei fatti emergenti dall’istruttoria dibattimentale. Il che, secondo il

La Corte ha, in particolare, esposto – con argomentazioni che si appalesano
adeguate – le ragioni per le quali le prime dichiarazioni rese da Scuto
nell’interrogatorio al Gip, anche alla luce della successiva ritrattazione, non
possano ritenersi avere valenza confessoria, né possano costituire elemento di
riscontro alle dichiarazioni del Testa.
Correttamente dunque, i giudici di secondo grado hanno concluso che, a
fronte di tale incertezza probatoria, debba essere confermato il giudizio
assolutorio, laddove la valutazione, globale e coordinata, dei diversi elementi

ragionevole dubbio”, cioè con un alto grado di credibilità razionale.
Ciò tanto più considerato che, trattandosi di giudizio di appello avverso la
sentenza assolutoria di primo grado, in assenza di elementi nuovi o
sopravvenuti, la decisione di segno opposto sul punto avrebbe dovuto connotarsi
non soltanto per una diversa valutazione del materiale probatorio già acquisito in
primo grado ed ivi ritenuto inidoneo a giustificare la pronuncia di colpevolezza,
bensì per una forza persuasiva superiore, tale da far venir meno ogni
ragionevole dubbio (Cass. Sez. 6, n. 45203 del 22/10/2013, Paparo e altri, Rv.
256869).
2.4. Risulta di conseguenza assorbito il motivo di doglianza di cui al punto
8.15. del ritenuto in fatto.

3. Analoghe considerazioni valgono quanto al ricorso del P.G. in relazione
alla posizione di Castro Orazio.
3.1. Il ricorso si appalesa inammissibile sotto un duplice profilo: sia in
quanto costituisce pedissequa replica delle censure già dedotte in sede di
appello, sia perché si traduce nella proposizione di una ricostruzione alternativa
dei fatti rispetto alle medesime risultanze raccolte nell’istruttoria dibattimentale.
Anche con riguardo a tale ricorso, valgono dunque i principi sopra richiamati
nei paragrafi 2.1. e 2.2.
3.2. D’altra parte, la Corte ha confermato il giudizio assolutorio di primo
grado evidenziando che, dagli elementi probatori acquisiti, le pur gravi
irregolarità commesse da parte del pubblico ufficiale (sia nella restituzione degli
assegni a Scuto seguendo vie non lineari e compilando un verbale di P.G. falso,
sia nell’incontrarsi in ora notturna con Nicotra, asseritamente suo confidente, ed
altri soggetti non conosciuti e possibilmente pregiudicati) non sono nondimeno
tali da condurre ad un giudizio certo di penale responsabilità per concorso
esterno in associazione mafiosa. Ai fini della integrazione del quale – si
rammenta – è necessario che sia provato dagli atti che il contributo, di natura
materiale o morale, sia concreto, specifico, consapevole e volontario ed abbia
19

indiziari raccolti non consente l’attribuzione del reato all’imputato “al di là di ogni

;

avuto un’effettiva rilevanza causale nella conservazione o nel rafforzamento delle
capacità operative dell’associazione, rivelandosi in tal senso condizione
necessaria per la concreta realizzazione del fatto criminoso collettivo (Cass. Sez.
6, n. 29458 del 26/06/2009, Rv. 244471).
3.3. In particolare, mette conto rilevare come la spiegazione fornita da

Castro Orazio in merito alla ragione degli incontri, anche in ora notturna, con
Nicotra Giovanni, certamente potrebbe essere stata data dall’imputato per
garantirsi una “facile copertura” alla frequentazione con il pregiudicato vicino

strumentali a fornire all’associazione stessa informazioni su indagini e attività di
P.G., come prospettato dal ricorrente. Nondimeno, la giustificazione addotta
dall’imputato – secondo la quale Nicotra Giovanni era un suo informatore -, oltre
ad essere confermata dai testi operanti Curcio, Casale e Azzarone, risulta del
tutto verosimile e, dunque, costituisce una delle plausibili letture alternative dei
fatti, il che impedisce di addivenire ad una pronuncia di colpevolezza secondo il
canone del giudizio “al di là di ogni ragionevole dubbio”, codificato nell’art. 533
cod. proc. pen.
Anche in questo caso, va comunque ribadito quanto già osservato supra nel
paragrafo 2.3., in merito al fatto che, trattandosi di giudizio di appello avverso la
sentenza assolutoria di primo grado, in assenza di elementi nuovi o
sopravvenuti, la decisione di segno opposto sul punto avrebbe dovuto connotarsi
non soltanto per una diversa valutazione del materiale probatorio già acquisito in
primo grado ed ivi ritenuto inidoneo a giustificare la pronuncia di colpevolezza,
bensì per una forza persuasiva superiore, tale da far venir meno ogni
ragionevole dubbio (Cass. Sez. 6, n. 45203 del 22/10/2013, Paparo e altri, Rv.
256869).

4.

Passando alla disamina del ricorso proposto dalla difesa di Scuto

Sebastiano, deve essere in primo luogo affrontata l’eccezione processuale con la
quale si è dedotta l’inutilizzabilità degli atti assunti a seguito della proroga di un
anno del termine delle indagini, concessa dal Gip ai sensi dell’art. 409, comma 4,
cod. proc. pen., a seguito della richiesta di archiviazione formulata dal P.M., poi
revocata – a seguito di avocazione – dal Procuratore Generale, nonché delle
successive due proroghe disposte dal Gip (punti 8.1. e 9.2. del ritenuto in fatto).
4.1. Il motivo è inammissibile.

Come questa Corte ha avuto modo di chiarire, la sanzione dell’inutilizzabilità
per le acquisizioni tardive – le quali devono costituire oggetto di specifica
deduzione e documentazione – riguarda solo gli atti di indagine del P.M. e non gli
elementi di prova acquisibili indipendentemente da qualsivoglia impulso della
20

all’associazione di tipo mafioso e, quindi, ai contatti con la consorteria

;

pubblica accusa. Ne consegue che detta sanzione non riguarda l’incidente
probatorio, il quale non è atto di indagine ma mezzo di acquisizione anticipata
della prova, il cui espletamento non è correlato a termini perentori, trattandosi
dell’assunzione anticipata di prove non rinviabili al dibattimento, indispensabili
per l’accertamento dei fatti e preordinati a garantire l’effettività del diritto alla
prova, altrimenti irrimediabilmente perduto (Cass. Sez. 5, n. 15844 del
05/02/2013, M., Rv. 255505).
Orbene, stando alla stessa prospettazione del ricorrente, gli atti rispetto ai

28 e seguenti del ricorso – sono stati tutti assunti in incidente probatorio, di tal
che rispetto ad essi non può porsi alcuna questione di inutilizzabilità. Si tratta
invero, non di atti d’indagine, ma di vere e proprie prove assunte nel
contraddittorio delle parti, in virtù di un procedimento di assunzione anticipata
della prova correlata a situazioni particolari di pericolo di dispersione dell’apporto
probatorio, dunque ritenute indispensabili per l’acquisizione al processo di
elementi necessari all’accertamento dei fatti e per garantire l’effettività del diritto
alla prova, che sarebbe altrimenti irrimediabilmente perduta. Ne discende che,
rispetto alla celebrazione dell’incidente probatorio, non possono operare termini
perentori di espletamento previsti per la fase della indagine. Conclusione,
questa, del tutto in linea con l’insegnamento del Giudice delle leggi (nella
sentenza del 10 marzo 1994 n. 77), secondo il quale l’incidente probatorio non
soggiace alle preclusioni temporali previste per lo svolgimento delle indagini
preliminari.

5. Infondato è il secondo motivo di natura processuale, con il quale il
ricorrente deduce la violazione degli artt. 495, comma 2, e 190 del codice di rito
per avere la Corte d’appello rigettato le richieste a prova contraria rispetto
all’esame del collaborante Sturiale Eugenio e del collaborante Laudani Giuseppe
(punto 8.2. del ritenuto in fatto).
5.1. Con riguardo al rigetto della richiesta di assunzione di prove a seguito
dell’esame del collaborante Sturiale, del tutto correttamente il giudice di secondo
grado ha evidenziato come il Tribunale avesse errato nel ritenere l’incombente
probatorio non assolutamente necessario ai fini del decidere laddove, trattandosi
di atto richiesto a prova contraria, la relativa ammissibilità avrebbe dovuto
essere valutata ai sensi degli artt. 190 e 495 cod. proc. pen. Ed invero, il diritto
alla prova contraria garantito all’imputato può essere denegato, con adeguata
motivazione dal giudice solo quando le prove richieste sono manifestamente
superflue o irrilevanti (Cass. Sez. 6, n. 761 del 10/10/2006, Randazzo e altri, Rv.
235598).
21

quali si chiede sia dichiarata l’inutilizzabilità – id est quelli elencati nelle pagine

;
Se non che, dato atto dell’erronea valutazione del Tribunale sul punto, la
.. Corte territoriale ha proceduto ad un nuovo vaglio sulla ammissibilità delle prove
contrarie dedotte alla stregua del combinato disposto degli artt. 190 e 495 cod.
proc. pen., argomentando – con una motivazione adeguata ed immune da vizi
logici e dunque insindacabile in questa sede di legittimità – in ordine alla
superfluità e manifesta irrilevanza delle prove richieste (segnatamente, ha
ritenuto superfluo l’esame del Kilo Candela, in quanto concernente aspetti
ampiamente sviluppati nell’istruttoria dibattimentale, e l’esame di Serra, in
de relato dallo Sturiale; ha stimato

irrilevanti le ulteriori testimonianze richieste, in quanto concernenti le rapine
subite da parte di esponenti del clan Laudani, ampiamente provate e non
controverse).
5.2. Ad analoga conclusione si deve pervenire con riguardo alla eccezione di
nullità per mancata ammissione della documentazione riguardante lo stato di
salute psichica del collaborante Giuseppe Laudani.
Premessa l’erroneità del criterio di valutazione prescelto dal primo giudice
per negare l’acquisizione della documentazione sanitaria (stimata dal Tribunale
non assolutamente necessaria ai fini del decidere), la Corte ha evidenziato come
la documentazione in oggetto sia comunque superflua e manifestamente
irrilevante, in quanto, da un lato, riguarda il profilo della compatibilità del
Laudani con lo stato detentivo – aspetto diverso da quello della attendibilità del
propalante -, dall’altro lato, è risalente nel tempo rispetto al momento
dell’assunzione dell’esame. Motivazione rispetto alla quale non può ravvisarsi
alcuna illogicità o contraddittorietà argomentativa suscettibile di rilevare quale
vizio di legittimità.

6. Infondato si appalesa anche il motivo con il quale il ricorrente deduce il
vizio di motivazione in relazione ai criteri di valutazione delle dichiarazioni di
diversi collaboratori di giustizia nonché omessa motivazione con riguardo alle
richieste formulate nell’atto d’appello di assunzione di prove sopravvenute ai
sensi dell’art. 603, comma 2, del codice di rito (punto 8.3. del ritenuto in fatto).
6.1. In linea generale, deve essere rilevato come le censure mosse dal
ricorrente – invero assai diffuse e puntuali – si connotino per una rilettura delle
propalazioni dei collaboranti e, soprattutto, per una rivisitazione del giudizio di
attendibilità espresso dai giudici di merito, proponendo una valutazione
alternativa delle dichiarazioni, quanto alla loro affidabilità e tenuta e, quindi, alla
loro portata e contenuti probatori.
Come questa Corte ha avuto modo di affermare in relazione ai limiti del
sindacato di legittimità in ordine al giudizio di credibilità soggettiva e di
22

quanto attinente circostanze apprese

attendibilità intrinseca ed estrinseca dei collaboranti compiuto dai giudici di
merito, la Corte di legittimità deve limitarsi a verificare se il senso probatorio,
attribuito dal ricorrente in contrasto con quello eletto nel provvedimento
impugnato, presenti una verosimiglianza non immediatamente smentibile e non
imponga, per il suo apprezzamento, ulteriori valutazioni in relazione al contenuto
complessivo dell’esame del dichiarante (ex plurimis Cass. Sez. 6, n. 18491 del
24/02/2010, Nuzzo Piscitelli e altri, Rv. 246916).
D’altra parte, questa Corte ha affermato che è inammissibile il motivo di

cod. proc. pen. quando è fondato su argomentazioni che si pongono in confronto
diretto con il materiale probatorio, e non, invece, sulla denuncia di uno dei vizi
logici tassativamente previsti dall’art. 606, comma 1 lett. e), cod. proc. pen.,
riguardanti la motivazione del giudice di merito in ordine alla ricostruzione del
fatto (Sez. 6, n. 43963 del 30/09/2013, P.C., Basile e altri, Rv. 258153).
Neanche allorché sia denunziata in cassazione la violazione dell’art. 192, comma
3, cod. proc. pen., può essere delibata in sede di legittimità una verità
processuale diversa da quella risultante dalla sentenza impugnata, allorquando la
struttura razionale del discorso giustificativo della decisione abbia una chiara e
puntuale coerenza argomentativa e sia saldamente ancorata, nel rispetto delle
regole della logica e delle massime di comune esperienza e dei principi che
presidiano la chiamata in correità e la sua valutazione, alle risultanze del quadro
probatorio (Cass. Sez. 1, n. 9148 del 21/06/1999, P.G. in proc. Riina, Rv.
214014).
Ed invero, nella sede di legittimità, è esclusa la possibilità di una nuova
valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella effettuata dal
giudice di merito, attraverso una diversa lettura, sia pure anch’essa logica, dei
dati processuali o una diversa ricostruzione storica dei fatti o un diverso giudizio
di rilevanza o attendibilità delle fonti di prova, che non può non riverberare in
termini di inammissibilità del ricorso per cassazione (ex plurimis Cass. Sez. 6, n.
25255 del 14/02/2012, Rv. 253099; Sez. 2, n. 23419 del 23/05/2007, Rv.
236893).
6.2. Sotto diverso profilo, mette conto rilevare come i principi di diritto
richiamati dai giudici di merito ai fini della valutazione delle dichiarazioni dei
collaboratori (pagine 49 e seguenti della sentenza impugnata) siano del tutto
condivisibili, in quanto conformi all’insegnamento espresso da questa Corte
anche a Sezioni Unite. In particolare, come chiarito da questo giudice di
legittimità, ai fini di tale valutazione, il giudice deve sciogliere il problema della
credibilità del dichiarante, deve verificare l’intrinseca consistenza e le
caratteristiche delle dichiarazioni del chiamante ed, infine, deve esaminare i
23

ricorso per cassazione che censura l’erronea applicazione dell’art. 192, comma 3,

riscontri cosiddetti esterni, seguendo l’indicato ordine logico, di tal che non si
può procedere ad una valutazione unitaria della chiamata in correità e degli “altri
elementi di prova che ne confermano l’attendibilità” se prima non si chiariscono
gli eventuali dubbi che si addensino sulla chiamata in sè, indipendentemente
dagli elementi di verifica esterni ad essa (Cass. Sez. U, n. 1653 del 21/10/1992,
Marino ed altri, Rv. 192465). Principi che sono stati precisati ed affinati dalla più
recente pronuncia, sempre a Sezioni Unite, secondo cui, nella valutazione della
chiamata in correità o in reità, il giudice, ancora prima di accertare l’esistenza di

l’attendibilità oggettiva delle sue dichiarazioni, ma tale percorso valutativo non
deve necessariamente muoversi attraverso passaggi rigidamente separati, in
quanto la credibilità soggettiva del dichiarante e l’attendibilità oggettiva del suo
racconto devono essere vagliate unitariamente, non indicando l’art. 192, comma
3, cod. proc. pen., alcuna specifica tassativa sequenza logico-temporale (Cass.
Sez. U, n. 20804 del 29/11/2012, Aquilina e altri, Rv. 255145). Su questa scia
la Suprema Corte ha affermato che l’accertata falsità su di uno specifico fatto
narrato non comporta, in modo automatico, l’aprioristica perdita di credibilità di
tutto il compendio conoscitivo-narrativo dichiarato dal collaboratore di giustizia,
bensì rientra nei compiti del giudice la verifica e la ricerca di un “ragionevole
equilibrio di coerenza e qualità”, di ciò che viene riferito nel contesto di tutti gli
altri fatti narrati, dovendo avere ben presente che la debole valenza di
attendibilità soggettiva deve essere compensata con un più elevato e consistente
spessore di riscontro, attraverso il necessario minuzioso raffronto di verifiche di
credibilità estrinseca (Cass. Sez. 6, n. 20514 del 28/04/2010, Arman Ahmed e
altri, Rv. 247346).
Ancora, del tutto correttamente i giudici di merito hanno richiamato i
principali arresti di legittimità in punto di valutazione delle dichiarazioni

de

relato, in particolare, il pronunciamento a Sezioni Unite, secondo cui la chiamata
in correità o in reità “de relato”, anche se non asseverata dalla fonte diretta, il
cui esame risulti impossibile, può avere come unico riscontro, ai fini della prova
della responsabilità penale dell’accusato, altra o altre chiamate di analogo
tenore, purchè siano rispettate le seguenti condizioni: a) risulti positivamente
effettuata la valutazione della credibilità soggettiva di ciascun dichiarante e
dell’attendibilità intrinseca di ogni singola dichiarazione, in base ai criteri della
specificità, della coerenza, della costanza, della spontaneità; b) siano accertati i
rapporti personali fra il dichiarante e la fonte diretta, per inferirne dati
sintomatici della corrispondenza al vero di quanto dalla seconda confidato al
primo; c) vi sia la convergenza delle varie chiamate, che devono riscontrarsi
reciprocamente in maniera individualizzante, in relazione a circostanze rilevanti
24

riscontri esterni, deve verificare la credibilità soggettiva del dichiarante e

del “thema probandum”; d) vi sia l’indipendenza delle chiamate, nel senso che
non devono rivelarsi frutto di eventuali intese fraudolente; e) sussista
l’autonomia genetica delle chiamate, vale a dire la loro derivazione da fonti di
informazione diverse (Cass. Sez. U, n. 20804 del 29/11/2012, Aquilina e altri,
Rv. 255143).
6.3. Ritiene il Collegio che i giudici di merito abbiano fatto buon governo
delle richiamate coordinate ermeneutiche in punto di valutazione della credibilità
soggettiva e della attendibilità intrinseca ed estrinseca delle dichiarazioni, anche

Ed invero, dopo avere dato atto dei principi sopra indicati, la Corte d’appello
ha proceduto ad un’analitica disamina delle minuziose e frantumate critiche
mosse dal ricorrente al vaglio di credibilità/attendibilità compiuto dal giudice di
prime cure, fornendo diffusa ed adeguata motivazione al riguardo. Alcun vizio
logico giuridico è riscontrabile nel percorso argomentativo seguito dai giudici di
secondo grado, i quali non si sono sottratti dal rispondere ad ognuna delle
innumerevoli censure sottoposte al proprio vaglio, e, dall’ampia motivazione
provvedimento impugnato, letto anche in unione alla sentenza appellata e
richiamata, non emergono lacune rispetto alle fondamentali deduzioni
dell’appellante.
Sul punto giova rammentare che, secondo il consolidato insegnamento di
questa Corte, ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione, la
struttura giustificativa della sentenza di appello si salda con quella di primo
grado, per formare un unico complessivo corpo argomentativo, allorquando i
giudici del gravame, esaminando le censure proposte dall’appellante con criteri
omogenei a quelli del primo giudice ed operando frequenti riferimenti ai passaggi
logico giuridici della prima sentenza, concordino nell’analisi e nella valutazione
degli elementi di prova posti a fondamento della decisione (Cass. Sez. 3, n.
44418 del 16/07/2013, Argentieri, Rv. 257595). Complessivo apparato
argomentativo che certamente soddisfa i requisiti di completezza, aderenza alle
risultanze degli atti, coerenza logica e conformità a diritto.

7.

Una trattazione specifica merita la eccepita erroneità del criterio

applicato – secondo la prospettazione del ricorrente – dai giudici di merito ai fini
della valutazione delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Laudani e
Sturiale (e, stando al ricorso, anche le dichiarazioni di Ferone e Catalano),
laddove avrebbero valorizzato le ammissioni fatte da tali collaboratori circa
l’esistenza di motivi di astio nei confronti dei soggetti accusati quale elemento di
rinforzo della attendibilità di quanto riferito, affermando il principio del “rancore
di riscontro”.
25

de relato, rese dai collaboratori di giustizia.

7.1. A tale proposito, deve essere premesso che, nel fare proprie le
considerazioni svolte dal Tribunale, con specifico riguardo alla posizione di
Laudani in relazione ai suoi rapporti con il collaboratore Di Giacomo Salvatore
(pagine 97 e seguenti), la Corte ha così argomentato: “anche l’eventuale vero e
proprio sentimento di astio o rancore non può, di per se stesso, essere ritenuto
aprioristicamente come indice di scarsa credibilità soggettiva del collaborante,
dato che l’intenzione di nuocere alla persona verso cui si nutre rancore è
perfettamente compatibile con una esposizione veritiera dei fatti ed anzi

collaborante che volesse nuocere ad una persona chiamandola in reità ovvero in
correità”. Ancora, più avanti ha ribadito che “la credibilità soggettiva del
collaborante deve essere sottoposta a rigoroso vaglio di attendibilità anche con
riferimento ai rapporti pregressi tra i soggetti, vaglio ancor più penetrante
qualora emergano ragioni di astio o rancore. Tuttavia, la mera sussistenza di
dette situazioni non determina, automaticamente l’inattendibilità del dichiarante
che va valutata nel suo complesso e con riferimento alla situazione concreta
essendo possibile pervenire ad un giudizio positivo nonostante l’acclarata
ricorrenza delle situazioni sopra dette.
Considerazioni in tutto sovrapponibili la Corte ha svolto con riguardo alla
posizione di Sturiale Eugenio in relazione ai suoi rapporti con Scuto Sebastiano
(pagine 70 e seguenti).
7.2. Da quanto sopra esposto, si evince in modo netto che – contrariamente
a quanto eccepito dal ricorrente -, i giudici di merito non hanno valutato la
rappresentata sussistenza di motivi di astio quale indice di maggiore credibilità
dei propalanti e di quanto da essi riferito sancendo il principio del “rancore di
riscontro”, ma hanno affermato che l’esistenza di contrasti o di motivi di
risentimento nei confronti del chiamato in reità o in correità non può di per sé
costituire ragione di inattendibilità delle dichiarazioni, e che la rivelazione alla
Autorità Giudiziaria di circostanze rispondenti al vero costituisce la “migliore
garanzia” per vendicarsi nei confronti della persona accusata.
Il principio affermato dai giudici di appello nella prima parte
dell’argomentazione (secondo cui la sussistenza di un sentimento di rancore fra
l’accusante e l’accusato non è suscettibile di minare aprioristicamente la
credibilità le dichiarazioni) è corretto, in quanto perfettamente in linea con i
principi affermati da questa Corte, secondo cui, in tema di valutazione delle
dichiarazioni accusatorie provenienti da soggetti compresi nelle categorie di cui
all’art. 192, commi 3 e 4, cod. proc. pen., il giudice di merito ha il potere-dovere
di verificare l’esistenza e la gravità di eventuali motivi di contrasto fra accusatori
e accusati, tenendo tuttavia presente che l’esito positivo di un tale riscontro non
26

quest’ultima circostanza costituisce solitamente la migliore garanzia per un

può, di per sè, determinare come automatica e necessaria conseguenza
l’inattendibilità delle accuse, ma deve soltanto indurre il giudice stesso ad una
particolare attenzione onde stabilire se, in concreto, i motivi di contrasto
accertati siano tali da dar luogo alla suddetta conseguenza (Cass. Sez. 1, n.
2328 del 14/04/1995, Rv. 201293).
Dall’altra parte, la seconda parte dell’argomentazione svolta dai giudici
d’appello risponde ad una condivisibile massima d’esperienza, risultando ovvio
che, laddove le dichiarazioni accusatorie siano ispirate dall’intento di vendicarsi

migliore (sebbene non l’unico) per ottenere tale risultato sia quello di narrare
circostanze veritiere (e non calunniose), da cui possa effettivamente discendere
l’adozione di provvedimenti sanzionatori da parte dell’A.G.
Contrariamente a quanto eccepito dal ricorrente, in tale argomentare non
può in nessun modo leggersi l’affermazione del principio secondo il quale la
rivelazione circa l’esistenza di ragioni di acrimonia del collaborante verso il
soggetto chiamato in reità o in correità possa indurre il giudice ad operare una
valutazione meno approfondita sulla credibilità soggettiva del propalante, quasi
che il riferito rancore costituisca esso stesso un elemento di riscontro delle
dichiarazioni.
7.3. A comprova del fatto che mai la Corte distrettuale ha inteso affermare
un principio siffatto, mette conto rilevare che, dopo avere argomentato nei
termini sopra riportati sulla specifica eccezione dell’appellante sul punto, il
giudice d’appello ha proceduto ad una attenta e rigorosa valutazione della
credibilità soggettiva dei collaboratori (oltre che della attendibilità intrinseca ed
estrinseca delle dichiarazioni rese), così da superare qualunque problematicità
connessa alla rappresentata sussistenza di motivi di astio verso i chiamati in
correità/reità.
In ogni caso, i giudici del provvedimento impugnato hanno rilevato – con
motivazione adeguata – che, da un’attenta lettura delle dichiarazioni rese da
Sturiale e da Laudani, non emerge una situazione di particolare acrimonia nei
confronti rispettivamente di Scuto e di Di Giacomo. Il che, a prescindere dalle
precedenti considerazioni, rende priva di fondamento fattuale la dedotta
eccezione.

8. Inammissibili sono i motivi con i quali il ricorrente ha dedotto il vizio di
motivazione della sentenza impugnata in relazione a diverse parti della sentenza,
in particolare nelle parti in cui la Corte:

27

nei confronti della persona verso la quale si abbiano ragioni di contrasto, il modo

:

– ha ritenuto insussistente il ragionevole dubbio che Scuto Sebastiano fosse
soggetto, non intraneo al clan Laudani, bensì vittima di estorsione del clan stesso
(punto 8.4. del ritenuto in fatto);
– ha confermato il giudizio di responsabilità per il reato di 416-bis cod. pen.
sulla base delle inattendibili dichiarazioni di Giuseppe Laudani e di Eugenio
Sturiale, trascurando di considerare i plurimi elementi a favore indicati nell’atto
d’appello (punto 8.5. del ritenuto in fatto);
– ha ritenuto provata l’attività di riciclaggio di denaro e di finanziamento del

delle perizie contabili su Aligrup (punto 8.6. del ritenuto in fatto);
– ha stimato integrato l’elemento soggettivo del reato di associazione
mafiosa, nonostante il collaboratore di giustizia Giuffrida abbia riferito che le
richieste di denaro a Scuto venivano giustificate con la “scusa” di dover pagare
gli onorari degli avvocati, di tal che l’assistito ignorava che le somme erano
destinate all’acquisto di armi per la guerra di mafia con la famiglia Tigna,
circostanza incompatibile con l’affectio societatis (punto 8.8. del ritenuto in
fatto).
8.1. In linea generale, deve essere rilevato come le sopra delineate censure

all’apparato argomentativo svolto dai giudici di primo e di secondo grado
consistano in critiche in merito alla valutazione espressa sulla credibilità
soggettiva dei collaboratori e sulla attendibilità delle relative dichiarazioni, alla
affidabilità dell’apporto conoscitivo acquisito mediante la disposta perizia
contabile nonché alla ricostruzione dei fatti compiuta dai giudicanti sulla base di
tali evidenze dell’istruttoria dibattimentale. Il che, secondo il costante
orientamento di questa Corte, rende inammissibile il ricorso per cassazione, in
quanto fondato su argomentazioni che si pongono in confronto diretto con il
materiale probatorio, e non, invece, sulla denuncia di uno dei vizi logici
tassativamente previsti dall’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen.,
riguardanti la motivazione del giudice di merito in ordine alla ricostruzione del
fatto (Cass. Sez. 6, n. 43963 del 30/09/2013, P.C., Basile e altri, Rv. 258153).
Ed invero, per espressa volontà del legislatore, anche a seguito della novella
operata dalla legge n. 46 del 2006, il sindacato demandato alla Corte di
cassazione essere limitato a riscontrare l’esistenza di un logico apparato
argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di
verificare l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è
avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle
acquisizioni processuali. Esula, infatti, dai poteri della Corte di legittimità quello
di una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui
valutazione è riservata, in via esclusiva, al giudice di merito, senza che possa
28

clan da parte di Scuto e delle sue imprese, sulla base delle errate conclusioni

integrare un vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa – e per il
ricorrente più adeguata – valutazione delle risultanze processuali

(ex plurimis

Cass. Sez. 6, n. 25255 del 14/02/2012, Rv. 253099; Sez. 2, n. 23419 del
23/05/2007, Rv. 236893).
8.2. In ogni caso, va rilevato che – come si è già dato conto nel punto 3. del
ritenuto in fatto – la Corte territoriale ha passato puntualmente in rassegna gli
elementi posti a fondamento della prospettazione accusatoria fatta propria,
secondo cui Scuto Sebastiano, in un primo momento vittima di estorsione da

sceleris, avendo piena coscienza e volontà di assicurare, con la propria condotta,
un contributo alla realizzazione del programma criminoso ed alla permanenza in
vita della consorteria criminale. In particolare, la Corte territoriale – richiamata e
fatta propria l’amplissima trattazione nel provvedimento dei giudici di prime cure
– si è soffermata sulle specifiche doglianze mosse nell’atto d’appello in punto di
attendibilità dei collaboratori di giustizia, primi fra tutti Laudani Giuseppe e
Sturiale Eugenio, senza trascurare di considerare gli specifici elementi di segno
contrario posti in luce dall’appellante (nella pagine 47 e seguenti della
sentenza); ha trattato in modo specifico il motivo d’appello con il quale si era
dedotta la natura meramente estorsiva del rapporto tra Scuto ed i Laudani (vedi
pagine 199 e seguenti); ha dedicato un ampio capitolo ai profili economici
(pagine 373 e seguenti della sentenza), non limitandosi a prendere
passivamente atto delle conclusioni delle perizie contabili disposte, ma
argomentando in modo puntuale in merito alle specifiche deduzioni mosse
nell’atto d’appello.
Ritiene il Collegio che la motivazione svolta dal giudice a quo in merito agli
indicati profili sia senza dubbio completa e coerente, aderente alle emergenze
degli atti nonchè conforme a logica e diritto, laddove, nell’addivenire alla
conferma del giudizio di colpevolezza in ordine alla partecipazione di Scuto
Sebastiano all’associazione di stampo mafioso denominata clan Laudani, la Corte
territoriale ha applicato correttamente consolidati principi di diritto e condivisibili
massime d’esperienza.
8.3.

Con specifico riguardo alla doglianza afferente la veste assunta da

Scuto Sebastiano nella vicenda criminosa che ci occupa (di soggetto intraneo
all’associazione criminale piuttosto che di mera vittima in quanto estorto dal
clan), i giudici di merito hanno ricostruito la trama dei rapporti che legavano il
ricorrente con il gruppo criminale Laudani attraverso la ragionata e ben
argomentata valutazione degli apporti conoscitivi forniti dai collaboratori, hanno
preso puntualmente in esame le doglianze dell’appellante e dato conto della
insussistenza di una situazione di incertezza probatoria in relazione alla adesione
29

parte del clan Laudani, era poi diventato a tutti gli effetti intraneo alla societas

dell’imputato all’associazione. Sulla scorta della puntuale, coerente e logica
motivazione svolta sul punto non v’è materia per ritenere che la Corte sia incorsa
nella dedotta violazione del criterio “dell’oltre ogni ragionevole dubbio” codificato
nell’art. 533, comma 1, del codice di rito.
8.4.

D’altra parte, sul punto in oggetto, la Corte ha fatto corretta

applicazione dei principi di dritto espressi da questa Corte, secondo cui, in tema
di partecipazione ad associazione di stampo mafioso, “imprenditore colluso” è
colui che è entrato in rapporto sinallagmatico con l’associazione, tale da produrre

territorio in posizione dominante e per il sodalizio criminoso nell’ottenere risorse,
servizi o utilità (Cass. Sez. 5, n. 39042 del 01/10/2008, Sama’, Rv. 242318).
Correttamente i giudici di merito hanno ritenuto che Scuto Sebastiano non
fosse un “imprenditore vittima” dell’associazione di tipo mafioso, dal momento
che il ricorrente non si limitava a subire passivamente le intimidazioni volte ad
ottenere un contributo economico provenienti di volta dal clan – fra l’altro in
termini economici assai consistenti -, ma veniva a patti con il sodalizio,
rendendosi disponibile non solo a versare somme di denaro, ma anche a
reinvestire capitali e merci di provenienza illecita nelle proprie imprese e, da tale
relazione, traeva indubbi vantaggi, consistiti nella protezione da parte del clan da
rapine ed estorsioni ai propri punti vendita, nella agevolazione negli acquisti e
nella apertura di supermercati e, soprattutto, nel finanziamento dell’attività
mediante gli investimenti compiuti da parte degli stessi membri della famiglia
Laudani nel gruppo societario a lui facente capo. Ciò consentiva all’imprenditore
di espandere notevolmente l’ambito della propria attività, di imporsi sul
territorio in posizione dominante e, quindi, di trarre ingenti guadagni economici
per sé e la propria famiglia.
Il che, secondo i principi affermati da questo giudice di legittimità,
certamente integra la contestata partecipazione ad associazione mafiosa, dal
momento che risulta provato che il ricorrente stabiliva un rapporto
sinallagmatico con l’organizzazione criminale, tale da produrre vantaggi per
entrambe le parti, consistenti – per l’imprenditore – nell’imporsi sul territorio in
posizione dominante e – per il sodalizio criminoso – nell’ottenere risorse, servizi,
utilità (Cass. Sez. 1, 11 ottobre 2005, n. 46552; Cass. Sez. 1, n. 30534 del
30/06/2010, Rv. 248321).
8.5. Né il denunciato vizio di motivazione appare fondato alla luce del fatto
che alcuni punti vendita Despar, riconducibili a Scuto Sebastiano, siano stati
oggetto di rapine da parte di esponenti del clan Laudani e che la rapina al
furgone portavalori dell’istituto Civis avesse ad oggetto anche denaro ed assegni
di un supermercato Despar appartenente all’imputato.
30

vantaggi per entrambi i contraenti, consistenti per l’imprenditore nell’imporsi nel

Come correttamente rilevato dalla Corte d’appello in risposta alle specifiche
doglianze dedotte al riguardo nell’atto d’impugnazione (nelle pagine 295 e
seguenti e, quanto alla rapina al portavalori, nelle pagine 313 e seguenti), tali
circostanze, pur apparentemente disarmoniche col quadro d’accusa, non sono in
effetti suscettibili di porre in dubbio la partecipazione di Scuto all’associazione. In
particolare, i giudici di merito hanno evidenziato come le rapine fossero state
compiute per lo più da soggetti non legati al clan ma da “cani sciolti” e, pertanto,
incontrollabili e che comunque il clan si attivava al fine, se non di prevenire, di

dislocati in varie parti del territorio e non tutti riconducibili a Scuto (essendovi
anche punti vendita gestiti dagli affiliati Despar), era plausibile che
l’organizzazione non fosse in grado di esercitare un controllo costante sui propri
affiliati tale da impedire le spoliazioni in danno del ricorrente; che le rapine ai
furgoni Despar erano state del tutto sporadiche (sei in venti anni) e che l’assalto
al furgone della società Civis aveva quale vittima la stessa società portavalori e
non il ricorrente, il quale non avrebbe subito alcun danno essendo coperto da
assicurazione, così come anche riferito da Platania, ragioniere della società
Aligroup S.p.A.; che gli autori della rapina si preoccuparono comunque di far
restituire a Scuto gli assegni rapinati – cioè la parte più cospicua del bottino -,
circostanza oltremodo sintomatica dei peculiari rapporti del ricorrente con la
consorteria criminale.
Ritiene il Collegio che nessun vizio logico sia rinvenibile nel sopra delineato
iter argomentativo. Da un lato, la Corte ha ben spiegato – con argomentazioni
insindacabili in questa sede in quanto immuni da censure logiche -, come il
numero delle rapine commesse dagli affiliati al clan Laudani in danno di
supermercati Despar riferibili a Scuto (e non ad affiliati Despar) siano
numericamente limitate e come l’assalto al portavalori Civis non possa ritenersi
diretto allo stesso Scuto. Dall’altro lato, il ragionamento svolto dalla Corte
appare corretto sotto il profilo giuridico, laddove ai fini della partecipazione
all’associazione per delinquere – in special modo quella mafiosa che prevede
particolari regole e rituali di adesione, rispetto assoluto del vincolo gerarchico e
soprattutto la segretezza del vincolo associativo – non è in alcun modo
necessaria la conoscenza reciproca di tutti gli associati, di tal che, considerato il
numero limitato di rapine commesse dagli affiliati al clan in danno degli esercizi
commerciali di Scuto Sebastiano, è del tutto plausibile che gli autori dei delitti
non fossero a conoscenza della adesione del ricorrente alla consorteria criminale.
Circostanza dalla quale non può pertanto inferirsi l’estraneità del medesimo alla
societas, a fronte della mole di elementi a carico evidenziati dai giudici di merito.

31

contenere gli illeciti; che, atteso l’enorme numero di punti vendita Despar,

8.6. Insindacabili nella sede di legittimità sono le ampie considerazioni
svolte in sentenza in merito ai profili economici rilevanti ai fini della prova della
partecipazione di Scuto all’associazione per delinquere alla luce delle perizie
contabili disposte (nelle pagine 373 e seguenti della sentenza).
La sentenza impugnata non può, d’altra parte, ritenersi affetta da vizio di
motivazione laddove la Corte, da un lato, ha dato conto delle ragioni per le quali
ha ritenuto di fare proprie le conclusioni tecniche cui sono pervenuti i periti
d’ufficio sulla base di dati obbiettivi, processualmente non controvertibili;
dall’altro lato, ha puntualmente argomentato – disattendendole – in merito alle
opposte osservazioni e deduzioni di parte svolte nell’atto d’appello.

9. Il ricorso è di contro fondato nella parte in cui si deduce il vizio di
motivazione in relazione alla condanna con riguardo al punto 2 bis del capo A).
Il ricorrente ha eccepito la violazione del principio “dell’oltre ogni ragionevole
dubbio” sul presupposto che la Corte d’appello sarebbe pervenuta ad una
conclusione opposta a quella assolutoria del Tribunale, sottovalutando gli
elementi probatori di segno contrario, operando una lettura delle emergenze
dibattimentali alternativa a quella compiuta dal giudice di primo grado e,
soprattutto, omettendo di rinnovare innanzi a sé l’esame del collaboratore
Franzese Francesco, ritenendolo pienamente attendibile, contrariamente a
quanto deciso dal giudice di primo grado, e così contravvenendo ai principi
affermati dalla Corte Europea per di Diritti dell’Uomo (nella pronuncia 5 luglio
2011 Dan c/Moldovia) e dalla Corte di cassazione (Cass. Sez. 6, n. 16566 del
26/2/2013, Caboni Rv. 254623).
9.1. In via preliminare, devono essere ricordati i principi espressi da questa
Corte, anche a Sezioni Unite, con riguardo ai requisiti della motivazione della
sentenza che ribalti la decisione assolutoria oggetto d’appello. In particolare,
questo giudice di legittimità ha affermato che il giudice di appello che riformi
totalmente la decisione di primo grado ha l’obbligo di delineare le linee portanti
del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i
più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle
ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma
del provvedimento impugnato (Cass. Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Rv.
231679). Ancora, si è chiarito che la sentenza di appello di riforma totale del
giudizio assolutorio di primo grado deve confutare specificamente, pena
altrimenti il vizio di motivazione, le ragioni poste dal primo giudice a sostegno
della decisione assolutoria, dimostrando puntualmente l’insostenibilità sul piano
logico e giuridico degli argomenti più rilevanti della sentenza di primo grado,
anche avuto riguardo ai contributi eventualmente offerti dalla difesa nel giudizio
32

..-

di appello, e deve quindi corredarsi di una motivazione che, sovrapponendosi
pienamente a quella della decisione riformata, dia ragione delle scelte operate e
della maggiore considerazione accordata ad elementi di prova diversi o
diversamente valutati (Cass. Sez. 6, n. 6221 del 20/04/2005, Rv. 233083; Sez.
5, n. 8361 del 17/01/2013, Rv. 254638).
Di recente, questa Corte ha ribadito che il principio dell'”oltre ogni
ragionevole dubbio”, codificato nella norma di cui all’art. 533 cod. proc. pen.,
“presuppone che, in mancanza di elementi sopravvenuti, l’eventuale rivisitazione

acquisito in primo grado e ivi ritenuto inidoneo a giustificare una pronuncia di
colpevolezza, sia sorretta da argomenti dirimenti e tali da evidenziare oggettive
carenze o insufficienze della decisione assolutoria, che deve, quindi, rivelarsi, a
fronte di quella riformatrice, non più sostenibile, neppure nel senso di lasciare in
piedi residui ragionevoli dubbi sull’affermazione di colpevolezza. Non basta,
insomma, per la riforma caducatrice di un’assoluzione, una mera diversa
valutazione caratterizzata da pari o addirittura minore plausibilità rispetto a
quella operata dal primo giudice, occorrendo invece, come detto, una forza
persuasiva superiore, tale da far cadere “ogni ragionevole dubbio”, in qualche
modo intrinseco alla stessa situazione di contrasto. La condanna, invero,
presuppone la certezza della colpevolezza, mentre l’assoluzione non presuppone
la certezza dell’innocenza ma la mera non certezza della colpevolezza” (Cass.
Sez. 6, n. 40159 del 3/11/2011, Galante, Rv. 251066; Sez. 6 n. 1266 del
10/10/2012, Andrini, Rv. 254024).
In un caso consimile a quello di specie, questa Corte ha affermato che,
per la riforma di una sentenza assolutoria non basta, in mancanza di elementi
sopravvenuti, una mera e diversa valutazione del materiale probatorio già
acquisito in primo grado ed ivi ritenuto inidoneo a giustificare una pronuncia di
colpevolezza, che sia caratterizzata da pari o addirittura minore plausibilità
rispetto a quella operata dal primo giudice, occorrendo, invece, una forza
persuasiva superiore, tale da far venir meno ogni ragionevole dubbio (Nella
specie, la Corte ha annullato la sentenza di condanna del giudice di appello che
aveva riformato una sentenza di assoluzione in ordine al delitto di partecipazione
ad associazione di tipo mafioso limitandosi a valutare diversamente i medesimi
dati probatori esaminati in prime cure) (Cass. Sez. 6, n. 45203 del 22/10/2013,
Paparo e altri, Rv. 256869)
Con particolare riguardo al caso in cui si tratti di prova fondata sulle
dichiarazioni di imputati dello stesso reato o di reato connesso (come appunto
nella specie), questa Corte ha precisato che, nel caso di riforma da parte del
giudice di appello di una decisione assolutoria emessa dal primo giudice, il
33

in senso peggiorativo compiuta in appello sullo stesso materiale probatorio già

secondo giudice ha l’obbligo di dimostrare specificamente l’insostenibilità sul
piano logico e giuridico degli argomenti più rilevanti della sentenza di primo
grado, con rigorosa e penetrante analisi critica seguita da completa e
convincente motivazione che, sovrapponendosi a tutto campo a quella del primo
giudice, dia ragione delle scelte operate e della maggiore considerazione
accordata ad elementi di prova diversi o diversamente valutati, trova
applicazione anche in caso di radicale rovesciamento di una valutazione
essenziale nell’economia della motivazione, in un processo nel quale siano

correità, non essendo sufficiente la manifestazione generica di una differente
valutazione ed essendo, per contro, necessario il riferimento a dati fattuali che
conducano univocamente al convincimento opposto rispetto a quello del giudice
la cui decisione non si condivida (Cass. Sez. 5, n. 35762 del 05/05/2008, P.G. in
proc. Aleksi e altri, Rv. 241169).
9.2. Ritiene il Collegio che la Corte territoriale non abbia fatto buon governo
degli indicati principi di diritto.
Mette conto evidenziare come il Tribunale avesse assolto Scuto Sebastiano
dalla imputazione – oggetto di contestazione suppletiva – di cui al punto 2 bis del
capo A) (avente ad oggetto il cosiddetto Grande Progetto di espansione delle
attività commerciali dello Scuto a Palermo e provincia, attraverso l’apporto di
diversi clan mafiosi, non più soltanto i Laudani ma anche i Santapaola, Madonia e
Provenzano), ritenendo che, sulla base delle dichiarazioni rese dai collaboratori di
giustizia Malvagna, Pattarino e Pulci – pur ritenute credibili (in quanto dotate
ciascuna di coerenza interna, convergenti tra loro e con il quadro probatorio
acquisito in ordine al ruolo economico dello Scuto nell’ambito del clan
Laudani) -, potesse ritenersi pienamente dimostrata soltanto la fase ideativa
dell’operazione e che, di contro, non potesse ritenersi raggiunta la prova della
realizzazione del progetto di espansione palermitana delle attività di Scuto – nei
termini e con le modalità contestati -, stante il “vuoto probatorio” in relazione al
periodo successivo al 1992.
La Corte d’appello, ribadita la ricorrenza di tutti i requisiti per affermare
l’attendibilità dei suddetti collaboranti e per conferire alle loro dichiarazioni pieno
valore probatorio, è pervenuta ad una diversa conclusione al riguardo ed, in
particolare, ha ritenuto provata l’effettiva realizzazione del “Grande Progetto”
sulla scorta di una serie di elementi di fatto, quali:
1) la circostanza – provata – che l’espansione palermitana fosse frutto di un
accordo con i clan e rientrasse, dunque, nel programma associativo;
2) il fatto che, nel periodo di riferimento, Scuto fosse inserito nel clan
Laudani;
34

determinanti i contributi dichiarativi di alcuni soggetti chiamanti in reità o in

:

3) la circostanza che Scuto avesse effettivamente aperto centri Despar a
Palermo e provincia, assumendo una serie di partecipazioni in società che
vedevano la presenza di soggetti legati a vario titolo ad ambienti mafiosi.
9.3. Ritiene il Collegio che la Corte d’appello, nell’addivenire a tale

conclusione, non abbia adeguatamente motivato in relazione alle ragioni per le
quali le argomentazioni svolte dal primo giudice a sostegno della decisione
assolutoria dovessero ritenersi errate da un punto di vista fattuale, logico o
giuridico, né ha compiutamente considerato i contributi offerti dalla difesa nel

a quelle compiute dal giudice di prime cure, senza dare adeguata ragione delle
scelte operate e della maggiore considerazione accordata alla propria
ricostruzione della vicenda.
In primo luogo, deve essere posto in risalto come la contestazione di cui
al punto 2 bis del capo A) concerna una condotta che si innesta nella condotta di
partecipazione all’associazione di tipo mafioso (il clan Laudani) delineata nel capo
A) della rubrica. Nella contestazione suppletiva rimangono invero intatte le
modalità del contributo offerto dall’imputato alle cosche mafiose ed identici il
centro criminale di riferimento (il clan Laudani) ed il quadro delle alleanze tra lo
stesso clan ed altre organizzazioni criminali, prevedendosi quale unico elemento
di novità una più ampia articolazione territoriale delle condotte incriminate.
Ebbene, dopo avere dato atto del fatto che le dichiarazioni dei
collaboratori Malvagna, Pattarino e Pulci – ritenute credibili e pertanto
pienamente utilizzabili, in linea con le valutazioni del Tribunale – concernono fatti
avvenuti sino al 1992 e quindi la sola fase di programmazione del”Grande
Progetto” , il giudice di secondo grado ha stimato di poter superare il “vuoto
probatorio”, delineato dal primo giudice quanto alla fase esecutiva,
sostanzialmente valorizzando la (sola) circostanza che Scuto, provatamente
inserito nel clan Laudani, avesse in effetti aperto dei supermercati Despar nel
territorio della Sicilia occidentale ed ha pertanto ritenuto provata – secondo un
ragionamento di inferenza logica – la contestata attuazione del programma di
espansione imprenditoriale.
Se non che, nel pervenire a tale conclusione, la Corte territoriale non ha
tenuto in adeguato conto le deduzioni ed i contributi probatori evidenziati nella
memoria prodotta allo stesso giudice d’appello dalla difesa di Scuto Sebastiano,
che il Collegio avrebbe invece dovuto valutare. Ed invero, come affermato da
questa Corte a Sezioni Unite, l’imputato, per quanto carente di interesse
all’appello, ha comunque la possibilità di prospettare al giudice di tale grado,
mediante memorie, atti, dichiarazioni verbalizzate, l’avvenuta acquisizione
dibattimentale di altre e diverse prove, favorevoli e nel contempo decisive,
35

giudizio di appello, nella sostanza limitandosi a sovrapporre le proprie valutazioni

pretermesse dal giudice di primo grado nell’economia di quel giudizio, oltre
quelle apprezzate e utilizzate per fondare la decisione assolutoria. In tale ipotesi,
al giudice di legittimità spetta verificare, senza possibilità di accesso agli atti, ma
attraverso il raffronto tra la richiesta di valutazione della prova e il
provvedimento impugnato che abbia omesso di dare ad essa risposta, se la
prova, in tesi risolutiva, assunta sia effettivamente tale, e se quindi la
denunciata omissione sia idonea a inficiare la decisione di merito (Cass. Sez. U,
n. 45276 del 30/10/2003, P.G., Andreotti e altro, Rv. 226093).

contributi conoscitivi forniti dai collaboratori di giustizia e da alcuni esponenti
delle forze dell’ordine circa l’assenza di evidenze di un’espansione imprenditoriale
del clan Laudani nella Sicilia Occidentale. Il giudice d’appello non ha
adeguatamente considerato – né argomentato sul punto – che i collaboratori
Giuffrida e Laudani avevano escluso che il clan Laudani avesse contatti con i clan
palermitani per l’espansione imprenditoriale nella Sicilia occidentale. Tale
circostanza avrebbe dovuto, di contro, essere attentamente vagliata dalla Corte,
laddove si consideri che, come già evidenziato, la realizzazione del”Grande
Progetto” aveva ad oggetto l’espansione degli interessi del clan Laudani nella
parte occidentale dell’isola, tale essendo l’ipotesi accusatoria recepita nella
contestazione. La Corte avrebbe dunque dovuto spiegare in modo adeguato e
puntuale – con “motivazione rafforzata”, dal momento che ribaltava il giudizio
assolutorio di primo grado – le ragioni per le quali un esponente di rilievo dello
stesso clan avesse escluso la concretezza di tale sviluppo imprenditoriale, che
secondo l’ipotesi d’accusa veniva portato in esecuzione proprio dall’imprenditore
“di riferimento” dello stesso clan Laudani, id est da Scuto.
Ancora, la Corte non ha adeguatamente delibato le dichiarazioni rese dal
M.Ilo Grasso, quanto all’assenza di emergenze nel senso di attività economiche
comuni fra il clan Laudani e la mafia nissena.
Il giudice d’appello non ha ben spiegato come l’effettiva realizzazione del
“Grande Progetto” di espansione del clan Laudani verso la Sicilia occidentale con
il diretto coinvolgimento dei clan mafiosi operanti in tale parte dell’isola possa
conciliarsi con la circostanza che, in uno dei “pizzini” sequestrati nel covo del
capomafia Provenzano Bernardo (alcuni dei quali obbiettivamente attestanti
l’interesse di Cosa Nostra siciliana verso i supermercati a insegna “Despar”), il
capo storico di Cosa Nostra affermasse in modo netto di non avere “agganci” con
Catania.
9.4. Soprattutto, la Corte territoriale ha valorizzato ai fini del giudizio di
colpevolezza le dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia Franzese
Francesco in merito alla riconducibilità di tutti i supermercati Despar agli
36

In particolare, la Corte territoriale ha omesso di tenere in adeguato conto i

:

interessi di “Cosa Nostra” siciliana, operando una valutazione di attendibilità del
propalante diversa da quella compiuta dal giudice di primo grado: in particolare,
la Corte ha ritenuto che nessuno dei profili di criticità evidenziati dal Tribunale
potesse ritenersi fondato ed ha, quindi, attribuito “rassicurante valenza
probatoria” alle dichiarazioni accusatorie rese dal predetto.
Il che, oltre a integrare il vizio di motivazione sopra delineato al punto 9.3.,
si pone in contrasto anche con i principi di diritto affermati dalla Corte Europea
per i Diritti dell’Uomo e da questo giudice di legittimità.

dell’imputato assolto in primo grado fondata sulla diversa valutazione in punto di
attendibilità delle dichiarazioni dei testimoni dell’accusa, è necessario, secondo le
regole dell’equo processo, che la Corte d’appello proceda ad una nuova audizione
dei testimoni in modo da poter udire i medesimi personalmente e valutare la loro
attendibilità, non operabile mediante una semplice lettura delle parole
verbalizzate (provvedimento del 5 luglio 2011 nel caso Dan c/ Moldova).
Questa Corte ha quindi chiarito che il giudice di appello per riformare “in
peius” una sentenza assolutoria è obbligato – in base all’art. 6 CEDU, così come
interpretato dalla sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo del 5 luglio
2011, nel caso Dan c/Moldavia – alla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale
solo quando intende operare un diverso apprezzamento di attendibilità di una
prova orale, ritenuta in primo grado non attendibile (Cass. Sez. 6, n. 16566 del
26/02/2013, Caboni ed altro, Rv. 254623; Sez. 6, n. 8654 del 11/02/2014,
Costa Rv. 259107). Il principio affermato dalla Corte europea sulla scorta del
principio all'”equo processo” sancito dall’art. 6 CEDU ha, del resto, un solido
fondamento costituzionale nel disposto nell’art. 111 Cost., laddove sancisce il
principio del giusto processo, con piena coerenza dei sistemi interno e europeo
sul tema dei diritti e delle garanzie dell’imputato.
E’ del tutto ovvio che si dovrà procedere alla rinnovazione della prova
dichiarativa solo ed in quanto, avuto riguardo al complessivo apparato
argomentativo svolto nella sentenza d’appello, la prova risulti essere stata
ritenuta decisiva ai fini del ribaltamento del giudizio di penale responsabilità
dell’imputato, non essendovi – di contro – materia per far valere nessuna lesione
del diritto al giusto, o all’equo, processo.
9.5. Nel caso di specie, non è revocabile in dubbio che la Corte d’appello di
Catania sia pervenuta ad una valutazione in ordine alla attendibilità di Franzese
Francesco diversa da quella compiuta dal Tribunale e che il contributo
dichiarativo del collaboratore sia stato ritenuto determinante – seppure non
l’unico – ai fini del ribaltamento del giudizio di penale responsabilità

37

La Corte Europea ha invero affermato che, in caso di condanna in appello

dell’imputato. Nell’economia della decisione, si tratta dunque di una prova
decisiva.
Ne discende che, in ossequio ai principi sopra delineati, il giudice di secondo
grado avrebbe dovuto procedere ad una nuova audizione del collaboratore di
giustizia innanzi a sè.
La sentenza deve pertanto essere annullata in ordine a tale imputazione,
con rinvio al giudice d’appello per nuovo giudizio sul punto.
9.6. Dall’annullamento di tale punto della sentenza discende l’assorbimento

il dedotto vizio di motivazione in relazione alla mancata esclusione della

circostanza aggravante di cui all’art. 416-bis, comma 6, cod. pen. (punto 8.9. del
ritenuto in fatto);
– il vizio di motivazione in relazione alla esclusione delle circostanze
attenuanti generiche (punto 8.10. del ritenuto in fatto);
– la violazione di legge ed il vizio di motivazione in relazione alla mancata
applicazione del trattamento sanzionatorio previsto dall’originaria disciplina
dell’art. 416-bis cod. pen. (punto 8.11 del ritenuto in fatto);
– la dedotta violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla
applicazione della misura di sicurezza della libertà vigilata in mancanza del
presupposto della pericolosità sociale (punto 8.14. del ritenuto in fatto).
Soltanto all’esito della valutazione in ordine alla integrazione o meno del
segmento di partecipazione alla consorteria criminale di cui al punto 2 bis del
capo A), la Corte potrà e dovrà procedere a rivalutare la meritevolezza delle
circostanze attenuanti generiche in ragione della evidenziata condizione di
incensuratezza e della posizione di soggetto già vittima di estorsione da parte del
clan mafioso, l’esatto momento finale della contestazione di partecipazione ad
associazione e la sussistenza della pericolosità sociale.

10. Fondati sono anche i motivi concernenti la riforma della sentenza di

primo grado in punto di confisca (punti 8.12 e 8.13. e 9.3. del ritenuto in fatto),
di tal che il provvedimento impugnato deve essere annullato senza rinvio quanto
alla confisca ex art. 12 sexies legge del 7 agosto 1992, n. 356, ed annullato con

rinvio quanto alla confisca ex art. 416-bis, comma 7, cod. pen.
10.1. Quanto al primo motivo di doglianza, giova porre in risalto come, in

sentenza, il Tribunale abbia disposto la confisca soltanto ai sensi dell’art. 416bis, comma 7, cod. pen., escludendo la sussistenza dei presupposti della confisca
ai sensi dell’art. 12-sexies L. n. 356/1992.
Nel proporre appello avverso la sentenza di primo grado, il Procuratore
generale non ha mosso alcun rilievo avverso la decisione assunta dal giudice di
38

dei motivi di ricorso concernenti:

:

primo grado sullo specifico punto concernente la mancata adozione del
provvedimento ablatorio in relazione al citato art.

12-sexies,

di tal che in

relazione ad esso si è formato il giudicato parziale implicito insuperabile da parte
della Corte d’appello in sede di sentenza.
Costituisce invero principio assolutamente pacifico nella giurisprudenza di
questa Corte quello secondo il quale, in tema di misure di prevenzione di natura
patrimoniale, il sequestro adottato ai fini della confisca obbligatoria a norma
dell’art. 12-sexies decreto legge dell’8 giugno 1992, n. 306 (poi convertito con la

dei beni rispetto ai redditi posseduti e della mancata giustificazione della loro
provenienza.
Ne consegue che, qualora il giudizio di primo grado si sia concluso senza
l’applicazione della predetta misura, in mancanza di impugnazione del pubblico
ministero, al giudice d’appello non è consentito disporre il sequestro preventivo
di cui all’art.

12-sexies,

comma 4, D.L. n. 306 del 1992, in quanto ciò

avverrebbe in violazione del principio devolutivo e del divieto di “reformatio in
peius” (Cass. Sez. 6, n. 10346 del 07/02/2008, Rv. 239087).
La sentenza sul punto deve pertanto essere annullata senza rinvio.
10.2. Quanto alle doglianze afferenti la confisca ai sensi dell’art. 416-bis,
comma 7, c.p., giova premettere come il giudice di prime cure avesse delimitato
l’ambito della ablazione al solo 15% delle quote societarie in sequestro
appartenenti all’imputato ed a società di cui egli è socio e, nella stessa misura
percentuale, di tutti i beni appartenenti alle società predette e come il giudice di
secondo grado sia addivenuto ad una diversa determinazione sul punto – in
senso gravemente peggiorativo -, disponendo la confisca su tutti i beni oggetto
del provvedimento di sequestro del Gip di Catania del 28 settembre 2001,
avente ad oggetto l’integralità delle quote societarie, in Aligroup S.p.A. ed in
altre società, riferibili all’appellante.
10.3. Ritiene il Collegio che la motivazione svolta sul punto non possa
ritenersi adeguata e che pertanto la sentenza debba essere annullata in relazione
ad esso.
In primo luogo, va ribadito quanto già osservato supra sub paragrafo 9.1., e
cioè che, nell’ipotesi in cui si tratti di sentenza che riformi la decisione oggetto
d’impugnazione, il giudice di appello ha l’obbligo di delineare le linee portanti del
proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più
rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle
ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma
del provvedimento impugnato (Cass. Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Rv.
231679).
39

legge n. 356/1992), è subordinato all’accertamento di merito della sproporzione

La Corte avrebbe pertanto dovuto motivare in modo puntuale e approfondito
sulle ragioni per le quali, contrariamente a quanto deciso dal primo giudice, la
confisca ex art. 416-bis, comma 7, cod. pen. dovesse estendersi all’intero
patrimonio societario facente capo al ricorrente.
10.4. Sotto diverso aspetto, deve essere rimarcato come il giudice d’appello
non abbia spiegato in modo convincente, logico e giuridicamente corretto, le
ragioni per le quali, dopo avere ricostruito la “storia” dell’ingresso di Scuto
Sebastiano nella consorteria criminale e dato atto che lo stesso, prima di tale

sistematiche richieste estorsive da parte del clan mafioso), abbia poi disposto la
confisca dell’intero patrimonio sociale facente capo all’imputato, così ritenendolo
– nella sostanza – integralmente strumentale alla realizzazione del delitto
associativo o, comunque, integralmente provento dell’attività delittuosa o
reimpiego della stessa. Con una motivazione che si appalesa contraddittoria o
comunque carente in quanto apodittica.
10.5. Ritiene il Collegio che, ferma la legittimità del provvedimento di
confisca ai sensi dell’art. 416-bis, comma 7, cod. pen. – non essendo revocabile
in dubbio la sussistenza dei presupposti dell’an dell’ablazione, che appunto
consegue de jure in caso di condanna per partecipazione ad associazione mafiosa
con riguardo ai beni strumentali rispetto alla realizzazione del delitto ed ai beni
che costituiscono prezzo, prodotto, profitto o loro reimpiego -, il giudice di
secondo grado avrebbe dovuto fornire puntuale ed adeguata motivazione in
relazione allo specifico aspetto concernente il quantum da sottoporre a confisca.
Secondo il consolidato insegnamento di questo giudice di legittimità
(espresso in tema di sequestro funzionale alla confisca ex art. 416-bis, comma 7,
cod. pen.) ai fini dell’adozione del provvedimento ablatorio in via cautelare del
patrimonio di un’azienda amministrata da un soggetto indagato del delitto di
partecipazione ad associazione di tipo mafioso, occorre dimostrare una
correlazione, specifica e concreta, tra la gestione dell’impresa alla quale
appartengono i beni da sequestrare e le attività riconducibili all’ipotizzato
sodalizio criminale, non essendo sufficiente, di per sé, il riferimento alla sola
circostanza che il soggetto eserciti le funzioni di amministrazione della società
(Cass. Sez. 6, n. 6766 del 24/01/2014, S.D. Costruzioni S.r.l., Rv. 259073). Ai
fini del sequestro funzionale alla confisca dei beni di un’azienda amministrata da
un soggetto indagato del delitto di partecipazione ad associazione di tipo
mafioso, occorre dimostrare una correlazione tra i cespiti e l’ipotizzata attività
illecita del soggetto agente (Cass. Sez. 6, n. 47080 del 24/10/2013, Guerrera e
altro, Rv. 257709).

40

affiliazione, era comunque un imprenditore affermato (tanto da essere oggetto di

.:.
A maggior ragione i suddetti principi devono trovare applicazione in caso di
,– confisca adottata in sentenza, suscettibile di divenire cosa giudicata e di
comportare l’ablazione in via definitiva del bene sottopostovi.
10.6.

Non condivisibile si appalesa, d’altra parte, il principio di diritto

affermato dai giudici di secondo grado allorchè hanno giustificato l’ablazione
dell’intero pacchetto societario facente capo a Scuto sul presupposto che, da un
lato, la società ha costituito lo strumento operativo attraverso il quale è stato
attuato il reimpiego di profitto dell’attività delittuosa dell’associazione mafiosa, e

criminale in una società commerciale – dunque in un’attività dinamica e non
statica – impedisce di seguire l’impostazione pro quota del Tribunale.
Ribadito che la motivazione svolta dalla Corte sul punto avrebbe dovuto
essere particolarmente attenta – atteso che si procedeva ad un ribaltamento
della impostazione della sentenza di primo grado -, devono essere riaffermati i
principi già sopra esposti nel paragrafo 12.3., alla stregua dei quali la confisca ex
art. dell’art. 416-bis, comma 7, cod. pen. può avere ad esclusivo oggetto i beni
rispetto ai quali sia dimostrata l’esistenza di una stretta correlazione rispetto
all’ipotizzata attività illecita del soggetto, in termini sia di strumentalità rispetto
alla realizzazione del programma criminoso, sia di derivazione dall’attività
delittuosa (quale prezzo, prodotto, profitto o loro reimpiego).
Se ne inferisce che, in tutti i casi in cui non ci si trovi in presenza di una
“impresa mafiosa” – nella quale vi sia cioè totale sovrapposizione fra la
compagine associativa e la consorteria criminale o, comunque, l’intera attività
d’impresa sia “inquinata” dall’ingresso nelle casse dell’azienda di risorse
economiche provento di delitto, di tal che risulti impossibile distinguere tra
capitali illeciti e capitali leciti -, il giudice è tenuto a motivare in modo puntuale
in ordine alla sussistenza del nesso di pertinenza fra cespiti oggetto di vincolo
reale e attività illecita e, specificamente, in ordine alla strumentalità di parte o di
tutta l’azienda rispetto alla realizzazione degli scopi della consorteria criminale
ovvero di investimento – e quindi di reimpiego – dei capitali illeciti nel circuito
imprenditoriale. La natura obbligatoria del provvedimento ablatorio previsto
dall’art. 416-bis, comma 7, cod. pen. impone invero una rigorosa determinazione
del quantum confiscabile.
Motivazione rigorosa sul punto che, nel caso di specie, risultava tanto più
necessaria in considerazione del fatto che la Corte territoriale, da un lato, aveva
dato atto, nei precedenti passaggi dell’ampia motivazione svolta, che il gruppo
societario facente capo a Scuto Sebastiano non costituisce una “impresa
mafiosa” in senso tecnico; dall’altro lato, procedeva ad una riforma in senso
gravemente peggiorativo della sentenza del giudice di primo grado proprio in
41

che, dall’altro lato, l’impiego occulto di denaro proveniente dall’associazione

relazione alla decisione sulla confisca, di tal che avrebbe dovuto illustrare con
particolare cura le specifiche ragioni a giustificazione dell’ablazione integrale dei
beni facenti capo all’imputato.

11. Manifestamente infondato è invece il motivo aggiunto di cui al punto
9.1. del ritenuto in fatto, con il quale il ricorrente deduce la violazione del
combinato disposto degli artt. 521 e 522 cod. proc. pen. in relazione al fatto
oggetto del punto 2 bis capo A) della rubrica, in quanto – ad avviso del
ricorrente – si tratterebbe di fatto, non diverso, ma nuovo.
Al riguardo si deve invero rilevare come questa Corte sia già stata investita
della questione de qua, nell’ambito di questo stesso procedimento, in sede di
ricorso avverso l’ordinanza del 16 luglio 2008, con la quale il Tribunale di Catania
riteneva inammissibile la contestazione suppletiva in oggetto (disponendo la
trasmissione degli atti al P.M. in sede ex art. 521 c.p.p.) e respingeva le richieste
probatorie del requirente concernenti la suddetta contestazione suppletiva (Cass.
Sez. 2, 14/01/2009, n. 8054). Nell’annullare senza rinvio l’ordinanza impugnata,
questo giudice di legittimità ha chiarito, in modo del tutto esplicito, che si tratta
di “fatto diverso, invero, e non fatto nuovo, come abilmente suggerisce l’attenta
difesa dell’imputato, dal momento che i termini della modifica dell’imputazione
lasciano intatte le modalità del contributo offerto dall’imputato alle cosche
mafiose e l’identità del centro criminale di riferimento (il clan Laudani), senza
innovare nemmeno in ordine al quadro delle alleanze tra lo stesso clan e altre
organizzazioni criminali, solo genericamente delineato alla stregua della
contestazione originaria, l’unico elemento di novità essendo quindi costituito
dalla più ampia articolazione territoriale delle condotte incriminate”.
Considerazioni, queste, che mantengono validità e vanno ribadite anche in
questa sede, laddove, all’esito della celebrazione del giudizio di primo e di
secondo grado, i termini – formali e sostanziali – della contestazione di cui al
punto 2 bis del capo A) sono rimasti del tutto invariati, così come il contesto
associativo in cui, anche a tenor di imputazione, la condotta in oggetto si
inserisce.

42

1r

..
P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla confisca ex
art. 12-sexies L. n. 356/1992.
Annulla la stessa sentenza limitatamente al punto 2-bis del capo A) della
imputazione nonché alla confisca ex art. 416-bis 1 comma 7 1 cod. pen. e rinvia ad
altra sezione della Corte d’Appello di Catania sui predetti punti.
Rigetta il ricorso dello Scuto nel resto.
Dichiara inammissibile il ricorso del P.G.

Così deciso in Roma il 4 giugno 2014

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