Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 39800 del 17/04/2014


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 39800 Anno 2014
Presidente: PALLA STEFANO
Relatore: BRUNO PAOLO ANTONIO

SENTENZA

Sul ricorso proposto da

FERRANDI Luigi, nato a Piacenza i102/02/1968
SCALA Marco, nato a Codogno il 24./10/1961

avverso la sentenza della Corte d’appello di Milano del 6 giugno 2012;

visti gli atti, la sentenza impugnata ed il ricorso;
udita la relazione del consigliere dr. Paolo Antonio BRUNO;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Giuseppe
Volpe, che ha chiesto l’inammissibilità dei ricorsi;
sentita l’avv. Emanuela Lini, difensore del ricorrente Scala, che ha chiesto
l’annullamento della sentenza per intervenuta prescrizione;
sentito l’avv. Paolo Colagrande, difensore del Ferrandi, che ha chiesto anch’egli
l’annullamento per prescrizione.

RITENUTO IN FATTO

Data Udienza: 17/04/2014

1. Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte d’appello di Milano confermava
la sentenza dell’Il ottobre 2007, con la quale il Tribunale di Lodi aveva dichiarato
Marco Scala e Luigi Ferrandi colpevoli del reato di bancarotta fraudolenta
patrimoniale, con riferimento al fallimento della srl Dalnic, dichiarato con sentenza
dello stesso Tribunale del 22 settembre 1999. In particolare, era contestato agli
imputati (allo Scala in qualità di amministratore unico dal 24.2.94 al 29.1.99 ed
amministratore di fatto fino al fallimento, unitamente al Ferrandi sia pure con ruolo

riferimento ai crediti riscossi nell’anno 1998 e non versati nelle casse sociali per
oltre 200 milioni delle vecchie lire; costi sostenuti per spese non inerenti alla
gestione per 240 milioni delle vecchie lire; ed i corrispettivi della cessione di merci.
Gli imputati erano stati condannati alle seguenti pene: lo Scala a quella di anni tre
di reclusione; il Ferrandi a due anni di reclusione, con concessione delle attenuanti
generiche e consequenziali statuizioni per entrambi.

2. Avverso la sentenza anzidetta il difensore del Ferrandi, avv. Paolo
Colagrande, e lo Scala personalmente, hanno proposto distinti ricorsi per
cassazione, ciascuno affidato alle ragioni di censura di seguito indicate.
Con il primo motivo del ricorso in favore del Ferrandi si denuncia mancanza di
motivazione, posto che il giudice di appello si era, pedissequamente, richiamato alle
motivazioni della sentenza di primo grado, senza farsi carico di rispondere
adeguatamente alle censure difensive, espresse nei motivi di appello, in specie con
riferimento alle condotte nient’affatto significative ascritte all’imputato.
Con il secondo motivo si eccepisce violazione delle norme penali in materia di
concorso nel reato, con riferimento all’asserito intervento dell’imputato nei rapporti
esterni con “clienti” o altri soggetti comunque collegati alla società fallita.
Con il primo motivo dei ricorso proposto dallo Scala si eccepisce nullità del
dibattimento di primo grado e della sentenza del Tribunale di Lodi in quanto il primo
giudice non si era pronunciato sulla richiesta di escussione del curatore fallimentare
e di espletamento di perizia tecnica.
Con il secondo motivo si denuncia inosservanza od erronea applicazione degli
artt. 157 e 160 cod. peri., ai sensi dell’art. 606 lett. b), per mancato rilievo della
prescrizione.
Con il terzo motivo si eccepisce insussistenza del reato contestato e la
mancanza di motivazione sul punto, anche alla luce di erronea lettura delle
risultanze processuali, segnatamente delle dichiarazioni del curatore di cui veniva
allegata copia.
Con il quarto motivo si lamenta la mancata assoluzione dell’imputato con
formula ampiamente liberatoria, ancora una volta sotto il profilo del travisamento

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marginale rispetto all’altro) la distrazione di tutti i beni della società, con particolare

od erronea valutazione delle risultanze processuali, segnatamente delle
dichiarazioni dei testi escussi.
Con il quinto motivo si censura il trattamento sanzionatorio, ai sensi dell’art.
606 lett. anche con riferimento all’art. 37 cod. pen. per irrogazione di pene
accessorie in misura fissa e non già in proporzione all’entità della pena principale.

1. Il primo motivo del ricorso in favore del Ferrandi è palesemente infondato,
posto che i giudici di appello non hanno reso una più analitica giustificazione in
ragione della rilevata genericità del gravame, che consisteva nella mera
riproposizione di questioni già agitate in primo grado, senza apprezzabile
valutazione critica delle ragioni che avevano indotto il primo giudice a rigettarle,
sulla base di argomentazioni giudicate congrue e pertinenti alle risultanze di causa.
La seconda censura è pur essa manifestamente infondata in quanto
dall’esame della motivazione della sentenza impugnata – integrata per quanto di
ragione da quella di primo grado, con la quale, stante la convergenza in punto di
penale responsabilità, forma una sola entità giuridica – risultano sufficientemente
indicate le ragioni del ritenuto coinvolgimento dell’imputato e della sussistenza a
suo carico dell’addebito in contestazione.
Il primo motivo del ricorso in favore dello Scala è del tutto infondato, posto che
dall’insieme motivazionale della pronuncia impugnata emergono, implicitamente ma non per questo meno chiaramente – le ragioni per le quali era stata disattesa la
richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in appello. Ed infatti, la Corte
distrettuale ha ritenuto completo e sufficiente il materiale probatorio in atti,
reputando così insussistente la condizione della non decidibilità allo stato degli atti
alla quale l’art. 603, comma 1, subordina l’integrazione probatoria in appello.
Quanto al mancato espletamento di perizia contabile, il ricorrente non può, sotto
alcun profilo, dolersi del diniego, posto che la perizia è, notoriamente, mezzo di
prova

neutro,

sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso al prudente

apprezzamento del giudice, di talché il mancato espletamento non può mai non può
assumere rilievo in termini di mancanza di prova decisiva.
Il secondo motivo, riguardante il diniego della prescrizione, la doglianza è
palesemente infondata in quanto, avuto riguardo al tempo del commesso reato ed
al complessivo periodo di sospensione, pari a mesi sei e giorni sette, il termine di
prescrizione è venuto a scadere il 29.9.2012, dunque successivamente alla
pronuncia impugnata.
Manifestamente infondati sono il terzo e quarto motivo di ricorso, afferenti al
profilo di penale responsabilità, posto che con motivazione congrua e formalmente
corretta il giudice di appello ha indicato le ragioni del ribadito giudizio di
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CONSIDERATO IN DIRITTO

colpevolezza a carico dello Scala, motivatamente ritenuto amministratore di fatto
sulla base delle risultanze di causa ritenute congrue allo scopo. E’ appena il caso di
osservare che si tratta di apprezzamento squisitamente di merito, insuscettibile di
sindacato di legittimità siccome adeguatamente motivato.
Identico è il giudizio in ordine al trattamento sanzionatorio, con particolare
riferimento alla determinazione della pena accessoria dell’inabilitazione all’esercizio
di attività imprenditoriale e l’incapacità all’esercizio di uffici direttivi presso qualsiasi

della pena principale, come prescritto dal menzionato art. 37 cod. pen. Ed infatti, in
materia di bancarotta fraudolenta, è erroneo il riferimento alla menzionata norma
sostanziale, posto che la pena accessoria, prevista dall’art. 216, u.c., I. fall., non è
indeterminata, ma fissata in materia fissa ed inderogabile e si sottrae, pertanto, alla
disciplina del citato art. 37 cod. pen.., a differenza di quanto previsto in tema di
bancarotta semplice documentale (cfr. Cass. Sez. 5, n. 17690 del 18/02/2010, Rv.
247319). Questo Collegio reputa, quindi, di aderire alla prevalente interpretazione
giurisprudenziale, secondo cui in tema di bancarotta fraudolenta, la pena accessoria
dell’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e dell’incapacità di
esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa ha la durata fissa ed inderogabile
di dieci anni (cfr., tra le altre, Sez. 5, Sentenza n. 628 del 18/10/2013, rv. 25794.
E’ noto, del resto, che la Corte Costituzionale ha di recente dichiarato inammissibile
la questione di legittimità costituzionale dell’art. 216, ultimo comma, del r.d. 16
marzo 1942, n. 267, in riferimento agli artt. 3, 4, 27, terzo comma, 41 e 111 Cost.,
nella parte in cui stabilisce la durata della misura della pena accessoria in misura
fissa e non modulata sulla base della pena principale (Corte Cost. n. 134 del
04/04/2012).

3. Per quanto precede, entrambi i ricorsi sono inammissibili e tali vanno,
dunque, dichiarati, con le consequenziali statuizioni indicate in dispositivo.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti, singolarmente, al
pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma di euro 1.000,00
in favore della Cassa delle ammende.

impresa per la durata di anni diecie e non già in misura ragguagliata alla durata

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