Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 3953 del 16/10/2014


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 3953 Anno 2015
Presidente: FIALE ALDO
Relatore: SCARCELLA ALESSIO

SENTENZA

sul ricorso proposto da
– STATUTO IVAN, n. 5/04/1975 a NAPOLI

avverso l’ordinanza tribunale del riesame di NAPOLI in data 14/10/2013;
visti gli atti, il provvedimento denunziato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Alessio Scarcella;
udite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. Fulvio Baldi, che ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso;

Data Udienza: 16/10/2014

RITENUTO IN FATTO

1. Con ordinanza del 14/10/2013, depositata in data 23/01/2014, il tribunale del
riesame di NAPOLI rigettava la richiesta di riesame proposta dall’indagato
STATUTO IVAN avverso il provvedimento emesso dal GIP del medesimo tribunale
in data 10/09/2013 con cui era stato disposto il sequestro preventivo di un corpo

agli artt. 44, lett. c), d.P.R. n. 380/2001 e 181, d. Igs. n. 42/2004, per avere,
nella qualità di titolare della ditta committente EDIL COLFI s.r.I., effettuato lavori
di ristrutturazione edilizia in zona sottoposta a vincolo paesaggistico ambientale,
in assenza di permesso di costruire e di autorizzazione paesaggistica,
trasformandolo da deposito ad unità abitativa.

2. Ha proposto ricorso l’indagato a mezzo di difensore fiduciario cassazionista,
impugnando l’ordinanza predetta, deducendo tre motivi di ricorso, di seguito
enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp.
att. cod. proc. pen.

2.1. Deduce, con il primo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. b) e c), cod.
proc. pen., in relazione agli artt. 44, d.P.R. n. 380/2001 e 125, comma 3, c.p.p.
In sintesi, la censura investe l’impugnata ordinanza in quanto il tribunale del
riesame, nel confermare il decreto di sequestro preventivo, non avrebbe
assolutamente fatto riferimento nella motivazione al titolo abilitativo n. 5856 del
1928, prodotto dalla difesa in udienza ed oggetto di specifica doglianza,
documento prodotto per la prima volta in sede di riesame; né, a giudizio del
ricorrente, potrebbe giustificarsi l’omesso riferimento ricorrendo alla c.d.
motivazione implicita, in quanto dal tenore della motivazione sembrerebbe
palese che il titolo abilitativo non sia stato neppure letto, tanto più che, ove fosse
stato considerato, avrebbe escluso la sussistenza del fumus dei reati ipotizzati, in
quanto il titolo abilitativo prevedeva che l’immobile avesse un uso residenziale
abitativo; l’omessa disamina di un p.d.c. integrerebbe comunque la violazione
dell’art. 125 c.p.p.

2.2. Deduce, con il secondo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. b) cod. proc.
pen., in relazione agli artt. 10, 22 e 44, d.P.R. n. 380/2001 e 146/181, d. Igs. n.
42/2004.
In sintesi, la censura investe l’impugnata ordinanza in quanto il tribunale del
riesame, dopo aver inquadrato gli interventi edilizi in questione nel novero delle
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di fabbrica di superficie di mq. 100 ed altezza di nnt. 6, in relazione ai reati di cui

cc.dd. ristrutturazioni edilizie, avrebbe disatteso le doglianze difensive
fondandole sulla normativa di dettaglio della Regione Campania, la cui violazione
determinerebbe la rilevanza penale del fatto; in particolare, trattandosi di
mutamento di destinazione d’uso, non avendo comportato trasformazioni
dell’aspetto esteriore, di volumi o di superfici, ben avrebbero potuto essere
effettuati con d.i.a. (titolo di cui il ricorrente era munito) sicchè nessuna

da parte del tribunale del riesame.

2.3. Deduce, con il terzo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. b) cod. proc.
pen., in relazione agli artt. 146/181, d. Igs. n. 42/2004.
In sintesi, la censura investe l’impugnata ordinanza in quanto il tribunale del
riesame, dopo aver correttamente svolto in premessa una serie di esatte
considerazioni in ordine alla necessaria offensività degli interventi ai fini della
configurabilità del reato paesaggistico, avrebbero erroneamente ritenuto violate
le norme richiamate sostenendo che solo i lavori interni di ristrutturazione
edilizia, considerati impropriamente di notevole entità, integrerebbero la
violazione

de qua.
CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Il ricorso è inammissibile per manifesta infondatezza.
4.

Deve, preliminarmente, ricordarsi, che in sede di ricorso per cassazione

proposto avverso provvedimenti cautelari reali, l’art. 325 cod. proc. pen.
ammette il sindacato di legittimità solo per motivi attinenti alla violazione di
legge. Nella nozione di “violazione di legge” rientrano, in particolare, la
mancanza assoluta di motivazione o la presenza di motivazione meramente
apparente, in quanto correlate all’inosservanza di precise norme processuali, ma
non l’illogicità manifesta, la quale può denunciarsi nel giudizio di legittimità
soltanto tramite lo specifico e autonomo motivo di ricorso di cui alla lett. e)
dell’art. 606 stesso codice (v., per tutte: Sez. U, n. 5876 del 28/01/2004 – dep.
13/02/2004, P.C. Ferazzi in proc.Bevilacqua, Rv. 226710; Sez. U, n. 25080 del
28/05/2003 – dep. 10/06/2003, Pellegrino S., Rv. 224611).
Allo stesso modo, il travisamento del fatto da cui sarebbe derivata l’asserita falsa
interpretazione della norma, non è censurabile in sede di legittimità, essendo
pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che in tema di ricorso per
cassazione, non è possibile dedurre come motivo il “travisamento del fatto”,
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sanzione penale era applicabile, con conseguente violazione della legge penale

giacchè è preclusa la possibilità per il giudice di legittimità di sovrapporre la
propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti
gradi di merito. Mentre è consentito, (art. 606 lett. e cod.proc.pen.), dedurre il
“travisamento della prova”, che ricorre nei casi in cui si sostiene che il giudice di
merito abbia fondato il suo convincimento su una prova che non esiste o su un
risultato di prova incontestabilmente diverso da quello reale. In quest’ultimo
caso, infatti, non si tratta di reinterpretare gli elementi di prova valutati dal

esistano (v., tra le tante: Sez. 4, sentenza n. 4675 del 17/05/2006 – dep.
06/02/2007, P.G. in proc. Bartalini e altri, Rv. 235656).

5. Tanto premesso sui limiti del sindacato di questa Corte, può quindi procedersi
all’esame dei singoli motivi di ricorso che, stante l’omogeneità dei profili di
doglianza sollevati, possono essere oggetto di trattazione congiunta.
La manifesta infondatezza dei motivi di ricorso emerge dalla stessa lettura
dell’impugnata ordinanza.
Ed invero, emergono dall’impugnata ordinanza sia il fumus che il periculum in
relazione ai reati per cui si procede; gli agenti accertatori, in particolare, recatisi
il 5 settembre 2013 presso la proprietà della società EDIL COFI s.r.I., all’interno
di un corpo di fabbrica della consistenza descritta nell’imputazione provvisoria
cautelare, riscontrarono l’esecuzione di lavori di ristrutturazione edilizia consistiti
nella realizzazione di un angolo cottura, servizi igienici, impianti elettrico ed
idrico, posa in opera di una scala di collegamento con un’area soppalcata di circa
mq. 40, implicanti la trasformazione della destinazione d’uso da originario
deposito ad unità abitativa; in relazione ai predetti lavori, la proprietà esibiva
una d.i.a. rilasciata nel 2012; si era tuttavia rilevato che, in difformità da quanto
riportato nei grafici di progetto, un intervento di tompagnatura di un vano
finestra al piano intermedio e l’apertura di un vano finestra al servizi di un vano
WC al piano terra, integrante modifica di prospetto; inoltre, sull’area
pertinenziale scoperta dello stabile e sulla facciata prospiciente il panorama, si
accertava la realizzazione di lavori di intonacatura della facciata, apposizione di
gronda verticale ed orizzontale, installazione di infissi in alluminio, apposizione di
ringhiera protettiva, pavimentazione del balcone al servizio del piano soppalco,
pavimentazione di tutta l’area scoperta, originariamente adibita a terreno
vegetale, con apposizione di ringhiera protettiva; in relazione ai lavori esterni,
veniva esibita una richiesta di p.d.c. con accertamento di conformità e richiesta
di compatibilità paesaggistica del 2013, non esitata. Gli accertamenti
successivamente svolti consentivano di appurare che i lavori di ristrutturazione
4

giudice di merito ai fini della decisione, ma di verificare se questi elementi

edilizia finalizzati alla trasformazione dell’immobile da deposito ad abitazione,
non potevano essere eseguiti con d.i.a. in quanto nella zona, classificata come A
(insediamenti di interesse storico), sono consentiti interventi unicamente di
restauro e risanamento conservativo secondo quanto prescritto dall’art. 63 NTA
alla variante al PRG. L’opera,. Peraltro, risultava realizzata in area ricadente nel
perimetro del Parco della Colline di Napoli, zona definita A tutela integrale,
istituita ai sensi della Legge reg. Campania n. 17/2003 e n. 22/1993, nonché

5.1. Così descritta la consistenza delle opere e degli interventi edilizi realizzati,
nonché i titoli abilitativi esistenti alla data dell’accertamento, non v’è dubbio che
le attività edilizie in corso rientrassero nella ristrutturazione edilizia, non
realizzabili dunque mediante semplice denuncia di inizio attività.
Pacifico è, infatti, nella giurisprudenza di questa Corte che il mutamento di
destinazione d’uso di un immobile (tale è quello in esame, in quanto gli
interventi edilizi tendevano a trasformare l’immobile da deposito ad abitazione,
con modifica parziale dei prospetti) attuato attraverso l’esecuzione di opere
edilizie e realizzato dopo la sua ultimazione configura un’ipotesi di
ristrutturazione edilizia che integra il reato di esecuzione di lavori in assenza di
permesso di costruire (art. 44, lett. b), d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380), in quanto
l’esecuzione di lavori, anche se di modesta entità, porta alla creazione di un
organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente (v., tra le tante:
Sez. 3, n. 9894 del 20/01/2009 – dep. 05/03/2009, Tarallo, Rv. 243101).
Sul punto, peraltro, va aggiunto che tutti gli interventi di ristrutturazione edilizia,
sia se eseguibili mediante “semplice” denuncia di inizio attività ai sensi dell’art.
22, commi primo e secondo, del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, sia se eseguibili in
base alla cosiddetta super DIA, prevista dal comma terzo della citata
disposizione, necessitano del preventivo rilascio dell’autorizzazione paesaggistica
da parte dell’autorità preposta alla tutela del vincolo (Sez. 3, n. 8739 del
21/01/2010 – dep. 04/03/2010, Perna, Rv. 246218, in cui si chiarisce che solo
per gli interventi di restauro e risanamento conservativo e per quelli di
manutenzione straordinaria non comportanti alterazione dello stato dei luoghi o
dell’aspetto esteriore degli edifici, la D.I.A. non deve essere preceduta
dall’autorizzazione paesaggistica). E, nella specie, gli interventi riguardavano
manufatto insistente in zona vincolata paesaggisticamente, con conseguente
configurabilità non solo dell’illecito edilizio, ma anche del delitto paesaggistico,
trattandosi di intervento ricadente in area dichiarata di notevole interesse
pubblico, non rilevando la circostanza che si trattasse di opere interne (Sez. F, n.
5

tutelata ex d. Igs. n. 42/2004.

43885 del 30/08/2012 – dep. 13/11/2012, Moscatelli, Rv. 253585) né la
presentazione della richiesta di accertamento di compatibilità paesaggistica, non
determinando il venir meno del c.d. delitto paesaggistico (Sez. 3, n. 7216 del
17/11/2010 – dep. 25/02/2011, Zolesio e altro, Rv. 249526).

5.1.1. Deve, peraltro, osservarsi che, sulla questione della configurabilità del

operata dal d.l. 12 settembre 2014, n. 133, recante “Misure urgenti per
l’apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione
del Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico
e per la ripresa delle attività produttive” (GU n.212 del 12 settembre 2014),
entrato in vigore il 13 settembre 2014 che, all’art. 17, nel modificare l’art. 3 del
d.P.R. n. 380/2001, ha esteso la categoria degli interventi di manutenzione
straordinaria ricomprendendovi anche quelli consistenti nel frazionamento o
accorpamento delle unità immobiliari con esecuzione di opere anche se
comportanti la variazione delle superfici delle singole unità immobiliari nonché
del carico urbanistico, a condizione, tuttavia, che non sia modificata la
volumetria complessiva degli edifici e si mantenga l’originaria destinazione d’uso.
Nel caso di specie, infatti, escluso in fatto che si trattasse di mero frazionamento
od accorpamento, in ogni caso sarebbe difettata proprio la seconda di queste
condizioni, atteso il mutamento di destinazione d’uso che l’intervento era
finalizzato ad attuare. E, del resto, che si tratti di mutamento di destinazione
d’uso rilevante, è confermato, anche attualmente, dal disposto del nuovo art. 23
ter del d.P.R. n. 380/2001 (introdotto dalla legge di conversione del predetto
d.I., ossia dalla L. 11 novembre 2014, n. 164), che, sul punto, chiarisce come
“costituisce mutamento rilevante della destinazione d’uso ogni forma di utilizzo
dell’immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria,
ancorché non accompagnata dall’esecuzione di opere edilizie, purché tale da
comportare l’assegnazione dell’immobile o dell’unita’ immobiliare considerati ad
una diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate: a) residenziale; a-bis)
turistico-ricettiva; b) produttiva e direzionale; c) commerciale; d) rurale”.
Dunque, la trasformazione da deposito ad uso residenziale, come nel caso di
specie, costituisce oggi ex lege, un mutamento rilevante della destinazione
d’uso.

5.2. Evidente, dunque, che la presunta omessa disamina del titolo abilitativo
edilizio (peraltro assai risalente nel tempo da parte del tribunale del riesame),
lungi dal configurare un’ipotesi di omessa valutazione da parte del tribunale del
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reato edilizio, nessuna concreta incidenza esplica la recente modifica normativa

riesame, non necessitava invece di un’espressa confutazione della sua rilevanza,
attese le risultanze istruttorie e il percorso logico – argomentativo dell’impugnata
decisione.
Deve, infatti, essere qui ribadito che in tema di difetto di motivazione, il giudice
di merito non ha l’obbligo di soffermarsi a dare conto di ogni singolo elemento
indiziario o probatorio acquisito in atti, potendo egli invece limitarsi a porre in
luce quelli che, in base al giudizio effettuato, risultano gli elementi essenziali ai

profilo, dunque, la censura di non aver preso in esame tutti i singoli elementi
risultanti in atti, costituisce una censura del merito della decisione, in quanto
tende, implicitamente, a far valere una differente interpretazione del quadro
indiziario, sulla base di una diversa valorizzazione di alcuni elementi rispetto ad
altri (v., tra le tante: Sez. 5, n. 2459 del 17/04/2000 – dep. 08/06/2000, PM in
proc. Garasto L, Rv. 216367).

5.3. Analogamente prive di qualsiasi spessore argomentativo risultano le
doglianze difensive attinenti il periculum, atteso che il tribunale del riesame ha
ritenuto sussistenti in concreto le esigenze preventive atte a giustificare
l’imposizione del vincolo reale, risultando ancora in corso, all’atto dell’intervento
della polizia municipale, i lavori abusivi inerenti alla scala di accesso all’area
soppalcata che si presentava priva di gradini nonché a tre pareti esterne, ancora
al rustico. Tale situazione fattuale, come correttamente rilevato dal tribunale dle
riesame, era oggettivamente idonea a concretizzare il pericolo di aggravamento
del reato e/o di protrazione delle sue conseguenze, derivanti dalla libera
disponibilità delle opere abusive in capo all’indagato o dall’uso delle stesse,
concretamente incidente sull’equilibrio urbanistico, sull’ordinato assetto e
sviluppo del territorio. In tal senso, dunque, correttamente il tribunale ha
motivato la sussistenza del periculum evidenziando come la modificazione del
territorio e l’utilizzo del manufatto, con l’insediamento di nuovi abitanti,
determinerebbero un aggravamento del carico urbanistico non programmato
dalla P.A. ed ulteriori effetti lesivi dell’equilibrio ambientale.
Infine, non va dimenticato che, essendo stato contestato anche il reato
paesaggistico, per pacifica giurisprudenza di questa Corte, la sola esistenza di
una struttura abusiva integra il requisito dell’attualità del pericolo
indipendentemente dall’essere l’edificazione ultimata o meno, in quanto il rischio
di offesa al territorio e all’equilibrio ambientale, a prescindere dall’effettivo danno
al paesaggio e dall’incremento del carico urbanistico, perdura in stretta

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fini del decidere, purché tale valutazione risulti logicamente coerente. Sotto tale

connessione con l’utilizzazione della costruzione ultimata (v., da ultimo: Sez. 3,
n. 42363 del 18/09/2013 – dep. 15/10/2013, Colicchio, Rv. 257526)

6. Il ricorso deve essere, dunque, dichiarato inammissibile. Segue, a norma
dell’articolo 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del
procedimento e, non emergendo ragioni di esonero, al pagamento a favore della
Cassa delle ammende, a titolo di sanzione pecuniaria, di somma che si stima

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di C 1.000,00 in favore della Cassa delle
ammende.
Così deciso in Roma, il 16 ottobre 2014

Il Co

l’ere st.

Il Presidente

equo fissare, in euro 1.000,00 (mille/00).

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