Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 39440 del 29/05/2014


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 39440 Anno 2014
Presidente: TERESI ALFREDO
Relatore: ACETO ALDO

SENTENZA

sul ricorso proposto da
Macchi Mauro, nato a Roma il 10/11/1960

avverso la sentenza del 31/10/2013 della Corte di appello di Torino;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Aldo Aceto;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Paolo
Canevelli, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
udito per l’imputato l’avv. Dario Picciani, sostituto processuale dell’avv. Vittorio
Nizza, che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1.Con sentenza del 31/10/2013, la Corte d’appello di Torino ha confermato
la sentenza del 02/05/2012 con la quale il Tribunale di quello stesso capoluogo
aveva dichiarato il sig. Mauro Macchi colpevole del reato di cui all’art.

10-bis,

d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 (omesso versamento delle ritenute operate sulle
retribuzioni dei lavoratori dipendenti nell’anno 2005 per un ammontare

Data Udienza: 29/05/2014

complessivo di € 65.296,00) e, previa concessione delle circostanze attenuanti
generiche, lo aveva condannato alla pena, condizionalmente sospesa, di mesi 4
di reclusione, oltre statuizioni accessorie.

2.Ricorre per Cassazione il Macchi articolando, per il tramite del proprio
difensore di fiducia, tre motivi di ricorso.
2.1. Con il primo denuncia inosservanza o comunque erronea applicazione
degli artt. 42, 43 e 45 cod. pen., in relazione al supposto «obbligo di
accantonamento» delle somme da versare quale sostituto d’imposta previsto

fattispecie e per il mancato riconoscimento della scriminante della forza
maggiore.
Sulla premessa che l’obbligo di versamento delle somme mensilmente
trattenute alla fonte non comporta alcun loro accantonamento e che il reato
contestato è certamente di natura istantanea, il ricorrente lamenta che la
gravissima crisi di liquidità che lo aveva incolpevolmente afflitto lo aveva posto
nelle condizioni di non poter adempiere alle proprie obbligazioni, alle quali non
poteva certo sottrarsi optando per il mancato pagamento delle retribuzioni ai
lavoratori dipendenti.
2.2. Con il secondo motivo lamenta contraddittorietà e manifesta illogicità
della motivazione in relazione agli artt. 10-bis, d.lgs. 74/2000, 4, comma 6-ter,
d.P.R. 322/98 ed al fatto che la Corte d’appello ha ritenuto provate le
certificazioni delle ritenute operate in base al modello 770/2006.
Il ricorrente lamenta che erroneamente la Corte territoriale ha qualificato
come modello 770/2006 un prospetto dell’Agenzia delle Entrate, dal quale
risultano le ritenute non versate, prodotto in allegato al ricorso. Dunque non v’è
prova, nemmeno sotto il profilo indiziario, dell’esistenza di tale documento nè di
un qualsiasi documento rilasciato ai sensi dell’art. 4, comma

6-ter, d.P.R.

322/1998.
2.3. Con il terzo motivo lamenta falsa interpretazione ed applicazione degli
artt. 58 e 53 I. 689/81 in relazione al diniego di conversione della pena
pecuniaria ingiustamente fondato sul pronosticato inadempimento del relativo
pagamento.

3. Con atto depositato il 14/05/2014, il ricorrente ha proposto di seguenti
due nuovi motivi di ricorso.
3.1. Con il primo eccepisce l’illegittimità dell’art. 10-bis, d.lgs. 74/2000, in
relazione all’art. 10-ter, per violazione dell’art. 3 Cost. in ragione della
irragionevole disparità di trattamento di inadempimenti fiscali aventi la stessa
gravità.

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dalla normativa tributaria, alla conseguente sussistenza del profilo doloso della

3.2. Con il secondo motivo viene eccepita violazione dell’art. 649 cod. proc.
pen., in relazione all’art. 4 del protocollo n. 7 CEDU e all’art. 50 della Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione Europea, in relazione alla violazione del principio
del ne bis in idem a causa dell’esercizio del potere punitivo nell’ambito di un
precedente giudizio amministrativo inerente il medesimo fatto.

CONSIDERATO IN DIRITTO

5.Gran parte delle questioni sollevate con il ricorso e con i motivi aggiunti
trovano risposta negli approdi ermeneutici di Sez. U., n. 37425 del 28/03/2103,
Favellato, secondo la quale:
a) il reato di omesso versamento delle ritenute certificate (art. 10-bis d.lgs
n. 74 del 2000), che si consuma con il mancato versamento per un ammontare
superiore ad euro cinquantamila delle ritenute complessivamente risultanti dalla
certificazione rilasciata ai sostituiti entro la scadenza del termine finale per la
presentazione della dichiarazione annuale, non si pone in rapporto di specialità
ma di progressione illecita con l’art. 13, comma primo, D.Lgs. n. 471 del 1997,
che punisce con la sanzione amministrativa l’omesso versamento periodico delle
ritenute alla data delle singole scadenze mensili, con la conseguenza che al
trasgressore devono essere applicate entrambe le sanzioni;
b)nell’illecito amministrativo di cui al comma 1 dell’art. 13 d.lgs. 18
dicembre 1997, n. 471, infatti, il presupposto è costituito dalla erogazione di
somme comportanti l’obbligo di effettuazione della ritenuta alla fonte (artt. 23 ss.
d.P.R. n. 600 del 1973) e di versamento della stessa all’Erario con le modalità
stabilite (art. 3 d.P.R. n. 602 del 1973), la condotta omissiva si concretizza nel
mancato versamento della ritenuta mensile e il termine per l’adempimento è
fissato al giorno quindici (poi passato al sedici) del mese successivo a quello di
effettuazione della ritenuta (art. 8 d.P.R. n. 602 del 1973); viceversa, nell’illecito
penale di cui all’art. 10-bis d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, il presupposto è
costituito sia dalla erogazione di somme comportanti l’obbligo di effettuazione
delle ritenute alla fonte (artt. 23 ss. d.P.R. n. 600 del 1973) e di versamento
delle stesse all’Erario con le modalità stabilite (art. 3 d.P.R. n. 602 del 1973), sia
dal rilascio al soggetto sostituito di una certificazione attestante l’ammontare
complessivo delle somme corrisposte e delle ritenute operate nell’anno
precedente (v. art. 4, commi 6-ter e 6-quater, d.P.R. 22 luglio 1998, n. 322); la
condotta omissiva si concretizza nel mancato versamento, per un ammontare
superiore a Euro cinquantamila, delle ritenute complessivamente operate
nell’anno di imposta e risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti; il

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4. Il ricorso è infondato

termine per l’adempimento è individuato in quello previsto (in riferimento
all’epoca dei fatti, 30 settembre ovvero 31 ottobre, a seconda dell’utilizzo del
Modello 770 semplificato o – come avvenuto nel caso di specie – del Modello 770
ordinario: art. 4 d.P.R. n. 332 del 1998) per la presentazione della dichiarazione
annuale di sostituto di imposta relativa all’anno precedente. Pur nella comunanza
di una parte dei presupposti (erogazione di somme comportanti l’obbligo di
effettuazione delle ritenute alla fonte e di versamento delle stesse all’Erario con
le modalità stabilite) e della condotta (omissione di uno o più dei versamenti

componenti essenziali, rappresentate in particolare: dal requisito della
“certificazione” delle ritenute, richiesto per il solo illecito penale; dalla soglia
minima dell’omissione, richiesta per il solo illecito penale; dal termine di
riferimento per l’assunzione di rilevanza dell’omissione, fissato, per l’illecito
amministrativo, al giorno quindici (poi passato al sedici) del mese successivo a
quello di effettuazione delle ritenute, e coincidente, per l’illecito penale, con
quello previsto per la presentazione (entro le date del 30 settembre ovvero del
31 ottobre) della dichiarazione annuale di sostituto di imposta relativa al
precedente periodo d’imposta.
c) La conclusione assunta in ordine al rapporto sussistente, in via generale,
fra le disposizioni in discorso non si pone in contrasto con l’art. 4 del Protocollo
n. 7 della CEDU, né con l’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
europea, che sanciscono il principio del ne bis in idem

in materia penale.

Anzitutto, nella specie, come si è visto, non si può parlare di identità del
fatto; in ogni caso, poi, il principio suddetto si riferisce solo ai procedimenti
penali e non può, quindi, riguardare l’ipotesi dell’applicazione congiunta di
sanzione penale e sanzione amministrativa tributaria (in tal senso,
espressamente, Corte di giustizia U.E., 26/02/2013, Aklagaren c. Hans Akerberg
Franssen) (principio ribadito da questa Corte anche successivamente alla
pronuncia della Corte E.D.U. nel procedimento Grande Stevens c/Italia; cfr., sul
punto, Sez. 3, n. 20266 del 08/04/2014, Zanchi);
d)l’applicazione del reato anche agli omessi versamenti relativi al periodo di
imposta 2004 non contrasta con gli artt. 3 e 27, comma 1, Cost., né con l’art. 7,
C.E.D.U. (cfr. sul punto anche le ordinanze della Corte Costituzionale,
rispettivamente n. 25 del 13 febbraio 2012 e 224 del 19 luglio 2011, che hanno
dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale
dell’art. 10-ter del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 sollevata, in
riferimento all’art. 3 della Costituzione);
e)il reato in esame è punibile a titolo di dolo generico e consiste nella
coscienza e volontà di non versare all’Erario le ritenute effettuate nel periodo

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mensili dovuti), gli elementi costitutivi dei due illeciti divergono in alcune

considerato, non essendo richiesto che il comportamento illecito sia dettato dallo
scopo specifico di evadere le imposte;
f)la prova del dolo è insita in genere nella presentazione della dichiarazione
annuale, dalla quale emerge quanto è dovuto a titolo di imposta, e che deve,
quindi, essere saldato o almeno contenuto non oltre la soglia, entro il termine
lungo previsto;
g) il debito verso il fisco è collegato al pagamento delle retribuzioni. Ogni
qualvolta il sostituto d’imposta effettua tali pagamenti insorge a suo carico

disponibili in modo da poter adempiere all’obbligazione tributaria. L’introduzione
della norma penale, stabilendo nuove condizioni e un nuovo termine per la
propria applicazione, estende evidentemente la detta esigenza di organizzazione
su scala annuale. Non può, quindi, essere invocata, per escludere la
colpevolezza, la crisi di liquidità del soggetto attivo al momento della scadenza
del termine lungo, ove non si dimostri che la stessa non dipenda dalla scelta
(protrattasi, in sede di prima applicazione della norma, nel 2005) di non far
debitamente fronte alla esigenza predetta.

5. Sviluppando e riprendendo il tema della «crisi di liquidità>> d’impresa
quale fattore in grado di escludere la colpevolezza, tema solo accennato nella
citata sentenza delle Sezioni Unite, questa Corte ha ulteriormente precisato che
è necessario che siano assolti, sul punto, precisi oneri di allegazione che devono
investire non solo l’aspetto della non imputabilità al contribuente della crisi
economica che improvvisamente avrebbe investito l’azienda, ma anche la
circostanza che detta crisi non potesse essere adeguatamente fronteggiata
tramite il ricorso ad idonee misure da valutarsi in concreto.
6.0ccorre cioè la prova che non sia stato altrimenti possibile per il
contribuente reperire le risorse economiche e finanziarie necessarie a
consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur
avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo
patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare, in presenza di
un’improvvisa crisi di liquidità, quelle somme necessarie ad assolvere il debito
erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e ad egli
non imputabili (Sez. 3, 9 ottobre 2013, n. 5905/2014; Sez. 3, n. 15416 del
08/01/2014, Tonti Sauro; Sez. 3, n. 5467 del 05/12/2013, Mercutello, Rv.
258055).
7.Tanto premesso, si osserva che nel caso di specie le allegazioni difensive
sono del tutto generiche e non riescono a supportare le eccezioni di inesigibilità
della condotta o comunque di sussistenza della forza maggiore derivante dalla

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l’obbligo di accantonare le somme dovute all’Erario, organizzando le risorse

crisi di liquidità che lo aveva posto, secondo la prospettazione difensiva,
nell’alternativa tra il pagare le retribuzioni o non pagarle.
7.1.0ccorre però sgombrare preliminarmente il campo da un equivoco di
fondo che rischia di alterare la corretta impostazione dogmatica del problema:
per la sussistenza del reato in questione non è richiesto il fine di evasione,
tantomeno l’intima adesione del soggetto alla volontà di violare il precetto.
7.2.Quando il legislatore ha voluto attribuire all’elemento soggettivo del
reato il compito di concorrere a tipizzare la condotta e/o quello di individuare il

espresso, escludendo, per esempio, dall’area della penale rilevanza le condotte
solo eventualmente (e dunque non intenzionalmente) volte a cagionare l’evento
(art. 323, cod. pen., artt. 2621, 2622, 2634, cod. civ., art. 27, comma 1, d.lgs.
27 gennaio 2010, n. 39), incriminando, invece, quelle ispirate da un’intenzione
che va oltre la condotta tipizzata (i reati a dolo specifico), attribuendo rilevanza
allo scopo immediatamente soddisfatto con la condotta incriminata (per es., art.
424 cod. pen.), assegnando al momento finalistico della condotta stessa il
compito di individuare il bene offeso (artt. 393 e 629 cod. pen., 416, 270, 270bis, 305, cod. pen., 289-bis, 630, 605, cod. pen.).
7.3.11 dolo del reato in questione è integrato, dunque, dalla condotta
omissiva posta in essere nella consapevolezza della sua illiceità, non richiedendo
la norma, quale ulteriore requisito, un atteggiamento antidoveroso di volontario
contrasto con il precetto violato.
7.4.Gli argomenti utilizzati ricorrente a sostegno della fondatezza della
oggettiva impossibilità di adempiere appaiono, alla luce della considerazioni che
precedono, frutto di un’operazione dogmaticamente errata che tende ad attrarre
nell’orbita del dolo generico requisiti che, per definizione, non gli appartengono e
che si collocano piuttosto nell’ambito dei motivi a delinquere o che ne misurano
l’intensità (art. 133 cod. pen.).
7.5.La scelta di non pagare prova il dolo; i motivi della scelta non lo
escludono.
7.62oggettiva impossibilità di adempiere può avere rilevanza solo se
integra causa di forza maggiore, la cui applicabilità è chiaramente rivendicata dal
ricorrente.
7.7.La forza maggiore, come noto, esclude la suitas della condotta. Secondo
l’impostazione tradizionale, è la «vis cui resisti non potest», a causa della
quale l’uomo «non agit sed agitur» (Sez. 1, n. 900 del 26/10/1965, Sacca,
Rv. 100042; Sez. 2, n. 3205 del 20/1271972, Pilla, Rv. 123904; Sez. 4, n. 8826
del 21/0471980, Ruggieri, Rv. 145855).
7.8.Per questa ragione, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte,
la forza maggiore rileva come causa esclusiva dell’evento, mai quale causa

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bene/valore/interesse con essa leso o messo in pericolo, lo ha fatto in modo

concorrente di esso (Sez. 4, n. 1492 del 23/11/1982, Chessa, Rv. 157495; Sez.
4, n. 1966 del 06/12/1966, Incerti, Rv. 104018; Sez. 4 n. 2138 del 05/12/1980,
Biagini, Rv. 148018); essa sussiste solo e in tutti quei casi in cui la realizzazione
dell’evento stesso o la consumazione della condotta antigiuridica è dovuta
all’assoluta ed incolpevole impossibilità dell’agente di uniformarsi al comando,
mai quando egli si trovi già in condizioni di illegittimità (Sez 4, n. 8089 del
13/0571982, Galasso, Rv. 155131; Sez. 5, n. 5313 del 26/03/1979, Geiser, Rv.
142213; Sez. 4, n. 1621 del 19/01/1981, Sodano, Rv. 147858; Sez. 4 n. 284 del

7.9.Poiché la forza maggiore postula la individuazione di un fatto
imponderabile, imprevisto ed imprevedibile, che esula del tutto dalla condotta
dell’agente, sì da rendere ineluttabile il verificarsi dell’evento, non potendo
ricollegarsi in alcun modo ad un’azione od omissione cosciente e volontaria
dell’agente, questa Suprema Corte ha sempre escluso, quando la specifica
questione è stata posta, che le difficoltà economiche in cui versa il soggetto
agente possano integrare la forza maggiore penalmente rilevante. (Sez. 3, n.
4529 del 04/12/2007, Cairone, Rv. 238986; Sez. 1, n. 18402 del 05/04/2013,
Giro, Rv. 255880; Sez 3, n. 24410 del 05/04/2011, Bolognini, Rv. 250805; Sez.
3, n. 9041 del 18/09/1997, Chiappa, Rv. 209232; Sez. 3, n. 643 del
22/10/1984, Bottura, Rv. 167495; Sez. 3, n. 7779 del 07/05/1984, Anderi, Rv.
165822).
7.10.Costituisce corollario di queste affermazioni il fatto che nei reati
omissivi integra la causa di forza maggiore l’assoluta impossibilità, non la
semplice difficoltà di porre in essere il comportamento omesso (Sez. 6, n. 10116
del 23/03/1990, Iannone, Rv. 184856).
7.11.Ne consegue che: a) il margine di scelta esclude sempre la forza
maggiore perché non esclude la

suitas della condotta;

b) la mancanza di

provvista necessaria all’adempimento dell’obbligazione tributaria penalmente
rilevante non può pertanto essere addotta a sostegno della forza maggiore
quando sia comunque il frutto di una scelta/politica imprenditoriale volta a
fronteggiare una crisi di liquidità; c) non si può invocare la forza maggiore
quando l’inadempimento penalmente sanzionato sia stato con-causato dal
mancato pagamento alla singole scadenze mensili e dunque da una situazione di
illegittimità; d) l’inadempimento tributario penalmente rilevante può essere
attribuito a forza maggiore solo quando derivi da fatti non imputabili
all’imprenditore che non ha potuto tempestivamente porvi rimedio per cause
indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono al suo dominio finalistico.
7.12.Alla luce delle considerazioni che precedono, appare in tutta la sua
fragilità la tesi difensiva.

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18/02/1964, Acchiardi, Rv. 099191).

7.13. Il ricorrente afferma con chiarezza di aver optato per il mancato
versamento mensile delle ritenute effettivamente operate sulle retribuzioni dei
dipendenti in base ad una scelta imprenditoriale che gli appartiene, ammettendo,
così, la suitas della condotta e di versare in una delle condizioni che la
giurisprudenza di questa Corte ha sempre ritenuto inidonea a integrare la causa
di forza maggiore. La politica della sistematica perpetrazione dell’illecito
amministrativo-tributario, quale strumento di gestione della crisi di liquidità, non
può giustificare la forza maggiore che s’invoca al momento della scadenza del

radici in una situazione di persistente illegittimità, derivante dalla scelta di
distrarre la parte di retribuzione dei lavoratori destinata all’Erario ad altri scopi.

8.E’ manifestamente infondata l’eccezione di illegittimità costituzionale
dell’art. 10-bis, d.lgs. 74/2000, in relazione all’art.

10-ter, stesso d.lgs., per

violazione dell’art. 3 Costituzione, in ragione della ritenuta irragionevole diversità
di trattamento di inadempimenti fiscali aventi la stessa gravità.
8.1.La Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art.
10-ter del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 nella parte in cui, con
riferimento ai fatti commessi sino al 17 settembre 2011, punisce l’omesso
versamento dell’imposta sul valore aggiunto, dovuta in base alla relativa
dichiarazione annuale, per importi non superiori, per ciascun periodo di imposta,
ad euro 103.291,38.
7.9.0ccorre riportare i passaggi della sentenza per comprendere le ragioni
della manifesta infondatezza dell’eccezione proposta: «emerge, peraltro, un
evidente difetto di coordinamento tra la soglia di punibilità inerente al delitto che
interessa e quelle relative ai delitti in materia di dichiarazione di cui agli artt. 4 e
5 del d.lgs. n. 74 del 2000 (dichiarazione infedele e omessa dichiarazione):
difetto di coordinamento foriero di sperequazioni sanzionatorie che, per la loro
manifesta irragionevolezza, rendono censurabile l’esercizio della discrezionalità
pure spettante al legislatore in materia di configurazione delle fattispecie astratte
di reato (ex plurimis, sentenze n. 68 del 2012, n. 273 e n. 47 del 2010).
Anteriormente alle modifiche legislative (…), l’art. 5 del d.lgs. n. 74 del 2000
richiedeva, per la punibilità dell’omessa dichiarazione (consistente nel fatto di
chi, «al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, non presenta,
essendovi obbligato, una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte»),
che l’imposta evasa fosse superiore, con riferimento a taluna delle singole
imposte, ad euro 77.468,53. Ciò comportava una conseguenza palesemente
illogica, nel caso in cui l’IVA dovuta dal contribuente si situasse nell’intervallo tra
le due soglie (eccedesse, cioè, i 50.000 euro, ma non i 77.468,53 euro). In tale
evenienza, infatti, veniva trattato in modo deteriore chi avesse presentato
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termine cd. lungo, come se essa vivesse di vita propria e non affondasse le sue

regolarmente la dichiarazione IVA, senza versare l’imposta dovuta in base ad
essa, rispetto a chi non avesse presentato la dichiarazione, evadendo del pari
l’imposta. Nel primo caso, il contribuente avrebbe dovuto rispondere del reato di
omesso versamento dell’IVA, stante il superamento della relativa soglia di
punibilità; nel secondo sarebbe rimasto invece esente da pena, non risultando
attinto il limite di rilevanza penale dell’omessa dichiarazione. Analoga discrasia
era ravvisabile in rapporto alla dichiarazione infedele (consistente nel fatto di chi,
fuori dei casi previsti dagli artt. 2 e 3 del d.lgs. n. 74 del 2000, «al fine di

dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare
inferiore a quello effettivo od elementi passivi fittizi»), la cui punibilità
presupponeva, ai sensi dell’art. 4, che l’imposta evasa risultasse superiore, con
riferimento a taluna delle singole imposte, ad euro 103.291,38. Laddove, infatti,
VIVA da versare si collocasse tra l’uno e l’altro limite di rilevanza (50.000 e
103.291,38 euro), fruiva di un miglior trattamento il contribuente che
presentasse una dichiarazione inveritiera (non punibile per mancato
superamento della relativa soglia), rispetto al contribuente che esponesse invece
fedelmente la propria situazione in dichiarazione, salvo poi a non versare
l’imposta di cui si era riconosciuto debitore. La lesione del principio di
eguaglianza insita in tale assetto è resa manifesta dal fatto che l’omessa
dichiarazione e la dichiarazione infedele costituiscono illeciti incontestabilmente
più gravi, sul piano dell’attitudine lesiva degli interessi del fisco, rispetto
all’omesso versamento dell’IVA: e ciò, nella stessa considerazione del legislatore,
come emerge dal raffronto delle rispettive pene edittali (reclusione da uno a tre
anni, per i primi due reati; da sei mesi a due anni, per il terzo). Il contribuente
che, al fine di evadere VIVA, presenta una dichiarazione infedele, tesa ad
occultare la materia imponibile, o non presenta affatto la dichiarazione, tiene una
condotta certamente più “insidiosa” per l’amministrazione finanziaria – in quanto
idonea ad ostacolare l’accertamento dell’evasione (e, nel secondo caso, a celare
la stessa esistenza di un soggetto di imposta) – rispetto a quella del contribuente
che, dopo aver presentato la dichiarazione, omette di versare l’imposta da lui
stesso autoliquidata (omissione che può essere dovuta alle più varie ragioni,
anche indipendenti da uno specifico intento evasivo, essendo il delitto di cui
all’art. 10-ter a dolo generico). In questo modo, infatti, il contribuente rende la
propria inadempienza tributaria palese e immediatamente percepibile dagli
organi accertatori: sicché, in sostanza, finisce per essere trattato in modo
deteriore chi – coeteris paribus – ha tenuto il comportamento maggiormente
meno trasgressivo».
7.10.Appare evidente l’insostenibilità del termine di paragone; diversamente
dal reato di cui all’art. 10-ter, d.lgs. 74/2000, il reato di cui all’art. 10-bis, d. Igs.,
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evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, indica in una delle

cit., fa riferimento alle ritenute che risultano dalle certificazioni rilasciate ai
sostituiti, venendo ii4rilievo la dichiarazione annuale di sostituto di imposta solo
per l’indicazione del termine entro il quale adempiere.

8. E’ infondato anche il secondo motivo del ricorso originario.
8.1. Il ricorrente pone sullo stesso piano l’elemento costitutivo del reato (la
certificazione rilasciata al sostituito) con la prova della sua sussistenza che può
essere fornita con ogni mezzo, non necessariamente attraverso la relativa,

259182; Sez. 3, n. 33187 del 12/06/2013, Buzi, Rv. 256429; Sez. 3, n. 1443 del
15/11/2012, Salmistrano, Rv. 254152).
8.2.Nel caso in esame, la prova è stata fornita attraverso la testimonianza
del direttore dell’Agenzia delle Entrate, non contrastata dall’imputato che non ha
mai dedotto, nemmeno con l’odierno ricorso, di non aver mai rilasciato le
certificazioni ai lavoratori dipendenti.

9.E’ infondato l’ultimo motivo di ricorso.
9.1. Va premesso che il ricorrente non aveva posto, come specifico motivo
d’appello, la sostituzione della pena detentiva con la corrispondente pena
pecuniaria, ma aveva chiesto, in subordine, in caso di mancato accoglimento
dell’appello per la parte relativa alla sussistenza del reato, la pura e semplice
riduzione della pena nei limiti editali e la sua conversione.
9.2.La richiesta di conversione era dunque posta come mera conseguenza
della riduzione della pena che la Corte territoriale ha ritenuto di non diminuire.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
Così deciso il 29/05/2014

specifica produzione documentale (Sez. 3, n. 20778 del 06/03/2014, Leucci, Rv.

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