Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 3929 del 11/12/2014


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 3929 Anno 2015
Presidente: TERESI ALFREDO
Relatore: MENGONI ENRICO

SENTENZA

sul ricorso proposto da
Randazzo Angela, nata a Caltanissetta il 2/2/1983

avverso la sentenza pronunciata dalla Corte di appello di Caltanissetta in
data 19/11/2013;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
sentita la relazione svolta dal consigliere Enrico Mengoni;
sentite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto
Procuratore generale Umberto De Augustinis, che ha chiesto l’annullamento
senza rinvio della sentenza per prescrizione;
sentite, per il ricorrente, le conclusioni dell’Avv. Pier Maria Carà, che ha
chiesto l’accoglimento del ricorso

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 19/11/2013, la Corte di appello di Caltanissetta
confermava la pronuncia emessa dal Tribunale della stessa città il 29/4/2013,
con la quale Angela Randazzo era stata condannata alla pena di due mesi di

Data Udienza: 11/12/2014

arresto per la violazione dell’art. 28, comma 2, d. Igs. 9 aprile 2008, n. 81; alla
stessa, in particolare, era contestato – nella qualità di amministratore unico della
T.M.R. s.r.l. – di aver adottato un documento valutazione rischi privo dei requisiti
minimi richiesti.
2. Propone ricorso per cassazione la Randazzo, personalmente,
articolando due motivi:
– violazione e falsa applicazione dell’art. 606, comma 1, lett. d), e), cod.
proc. pen., in relazione all’art. 192 cod. proc. pen.; travisamento della prova. La

deposizione – quella del teste Congiu – dalla quale emergeva in modo chiaro che
la Randazzo aveva depositato il documento valutazione rischi in esame presso la
Procura della Repubblica circa un mese prima dell’accertamento, e lo stesso era
stato valutato positivamente dal testimone, quale tecnico della prevenzione, sì
che la ricorrente era stata ammessa al pagamento di una sanzione
amministrativa, poi regolarmente evasa. Questa circostanza sarebbe stata del
tutto obliterata dalla Corte, la quale ha affermato che detto deposito sarebbe
rimasto sprovvisto di prova in sede dibattimentale;
– violazione e falsa applicazione dell’art. 606, comma 1, lett. d), e), cod.
proc. pen., in relazione all’art. 28, comma 2, d. Igs. n. 81 del 2008. La Corte
avrebbe confermato la condanna pur difettando la prova del necessario elemento
psicologico del reato e, anzi, pur risultando evidente la buona fede della
ricorrente; questa, infatti, in occasione del sopralluogo dell’A.s.I., aveva subito
riferito di aver depositato pochi giorni prima, presso la Procura della Repubblica,
il citato documento, sì da fare legittimo affidamento sulla regolarità dello stesso.

CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Il ricorso è manifestamente infondato.
Con riguardo al primo motivo, occorre innanzitutto ribadire che il controllo
del giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza
strutturale della decisione di cui si saggia l’oggettiva tenuta sotto il profilo logicoargomentativo, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a
fondamento della decisione e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di
ricostruzione e valutazione dei fatti (tra le varie, Sez. 3, n. 12110 del 19.3.2009,
Campanella, n. 12110, Rv. 243247). Si richiama, sul punto, il costante indirizzo
di questa Corte in forza del quale l’illogicità della motivazione, censurabile a
norma dell’art. 606, comma 1, lett e), cod. proc. pen., è soltanto quella
evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu °culi; ciò in quanto
l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte

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Corte di appello avrebbe confermato la condanna travisando il contenuto di una

circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione limitarsi,
per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l’esistenza di un logico
apparato argomentativo, senza possibilità di verifica della rispondenza della
motivazione alle acquisizioni processuali (Sez. U., n. 47289 del 24/9/2003,
Petrella, Rv. 226074).
In altri termini, il controllo di legittimità sulla motivazione non attiene né alla
ricostruzione dei fatti né all’apprezzamento del giudice di merito, ma è limitato
alla verifica della rispondenza dell’atto impugnato a due requisiti, che lo rendono

hanno determinato; b) l’assenza di difetto o contraddittorietà della motivazione o
di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine
giustificativo del provvedimento. (Sez. 2, n. 21644 del 13/2/2013, Badagliacca e
altri, Rv. 255542; Sez. 2, n. 56 del 7/12/2011, dep. 4/1/2012, Siciliano, Rv,
251760).
Questa conclusione, peraltro, non muta a fronte del vigente testo dell’art.
606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., come modificato dalla I. 20.2.2006 n. 46,
che invero non ha trasformato il ruolo e i compiti di questa Corte, che rimane
giudice della motivazione; la stessa, pertanto, non può procedere ad una
rinnovata valutazione dei fatti, ovvero ad una rivalutazione del contenuto delle
prove acquisite, trattandosi di apprezzamenti riservati in via esclusiva al giudice
del merito. Del pari, il ricorrente non può limitarsi a fornire una versione
alternativa del fatto, ma deve indicare specificamente quale sia il punto della
motivazione che appare viziato dalla supposta manifesta illogicità e, in concreto,
da cosa tale illogicità vada desunta. Al riguardo, avere introdotto la possibilità di
valutare i vizi della motivazione anche attraverso gli “atti del processo”
costituisce il riconoscimento normativo della possibilità di dedurre in sede di
legittimità il cosiddetto “travisamento della prova”, che è quel vizio in forza del
quale il giudice di legittimità, lungi dal procedere ad una (inammissibile)
rivalutazione del fatto (e del contenuto delle prove), prende in esame gli
elementi di prova risultanti dagli atti per verificare se il relativo contenuto è stato
o meno trasfuso e valutato, senza travisamenti, all’interno della decisione. In
altri termini, vi è “travisamento della prova” quando il giudice di merito abbia
fondato il suo convincimento su una prova che non esiste o su un risultato di
prova incontestabilmente diverso da quello reale (alla disposta perizia è risultato
che lo stupefacente non fosse tale ovvero che la firma apocrifa fosse
dell’imputato); del pari, può essere valutato se vi erano altri elementi di prova
inopinatamente o ingiustamente trascurati o fraintesi. In sintesi, detto
travisamento è configurabile quando si introduce nella motivazione una
informazione rilevante che non esiste nel processo o quando si omette la

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insindacabile: a) l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo

valutazione di una prova decisiva ai fini della pronuncia (Sez. 2, n. 47035 del
3/10/2013, Giugliano, Rv. 257499; Sez. 5, n. 18542 del 21/1/2011, Carone, Rv.
250168). Fermo però restando – occorre ancora ribadirlo – che non spetta
comunque a questa Corte Suprema “rivalutare” il modo con cui quello specifico
mezzo di prova è stato apprezzato dal giudice di merito (in questi termini, tra le
molte, Sez. 3, n. 5478 del 05/12/2013, Ferraris, Rv. 258693; Sez. 5, n. 9338 del
12/12/2012, dep. 27/2/2013, Maggio, Rv. 255087).
Se questa, dunque, è l’ottica ermeneutica nella quale deve svolgersi il

provvedimento impugnato si evidenziano come infondate.
Ed invero, la Corte di appello non ha compiuto alcun travisamento della
prova nei termini suddetti, pervenendo ad un giudizio di responsabilità in forza di
una motivazione ampia, argomentata e priva di vizi logici; fondata, in
particolare, sulla deposizione del teste Virzì (non contestata nel presente
ricorso), il quale aveva riconosciuto nel documento in esame specifici profili di
inadeguatezza, tali da integrare il reato contestato. La stessa Corte di merito,
ancora, ha valutato la doglianza difensiva per cui la ricorrente avrebbe, prima
dell’accertamento, depositato presso l’autorità il documento di cui trattasi, in
adempimento ad un obbligo di legge (sebbene abbia ritenuto non raggiunta la
prova sul punto); cionondimeno, la sentenza ha concluso per l’irrilevanza della
circostanza, atteso che la successiva verifica dell’A.s.l. aveva comunque
ravvisato una «adozione meramente formale e non effettiva di un D.V.R.», al
pari della «mancata effettuazione di una valutazione dei rischi lavorativi
realmente presenti nell’ambito della realtà lavorativa diretta dall’imputata».
Nessun elemento di prova inopinatamente o ingiustamente trascurato o
frainteso, dunque.
Ne deriva l’insussistenza del vizio denunciato, con il quale – invero – il
ricorso sollecita in questa sede un’inammissibile, nuova valutazione delle
medesime risultanze istruttorie già esaminate dalla Corte di merito, e sulle quali
al Collegio non è consentito pronunciarsi, pervenendo ad una diversa
elaborazione critica delle stesse; ciò, peraltro, soprattutto nell’ottica che il
gravame individua, quale la presunta, palese incongruenza tra il narrato del
Congiu (secondo il quale il documento prodotto dalla Randazzo nell’agosto 2008
avrebbe rispettato tutti i criteri contenutistici di cui al d. Igs. n. 81 del 2008) e
quello del Virzì (che, per contro, aveva rilevato la contestata violazione in data
8/9/2008), che il ricorrente vorrebbe chiarita da questa Corte.
4. Anche il secondo motivo è infondato.
Osserva il Collegio, infatti, che il profilo soggettivo della contravvenzione
non è stato contestato nell’atto di appello, sì che di esso non vi è traccia nella

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giudizio della Suprema Corte, le censure che la ricorrente rivolge al

sentenza impugnata; ne deriva l’applicazione del principio di diritto per cui non
possono essere dedotte con il ricorso per cassazione questioni sulle quali il
giudice di appello abbia correttamente omesso di pronunziarsi perché non
devolute alla sua cognizione (per tutte, Sez. 2, n. 22362 del 19/4/2013, Di
Domenica, Rv. 255940).
Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile. Alla luce della
sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella
fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il

inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a
norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché
quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende,
equitativamente fissata in euro 1.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle
ammende.
Così deciso in Roma, 1’11 dicembre 2014

Il

nsigliere estensore

Il Presidente

ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di

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