Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 3920 del 04/12/2014


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 3920 Anno 2015
Presidente: FIALE ALDO
Relatore: MENGONI ENRICO

SENTENZA

sul ricorso proposto da
Mingoia Salvatore Domenico, nato a San Cataldo il 15/3/1965

avverso la sentenza pronunciata dalla Corte di appello di Catanzaro in data
2/7/2014;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
sentita la relazione svolta dal consigliere Enrico Mengoni;
sentite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto
Procuratore generale Francesco Salzano, che ha chiesto il rigetto del ricorso;
sentite, per il ricorrente, le conclusioni dell’Avv. Pietro Asta, in sostituzione
dell’Avv. Pietro Chiodo, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 1°/10/2013, il Tribunale di Castrovillari giudicava
Salvatore Domenico Mingoia colpevole del reato di cui all’art. 73, commi 1 e 1bis, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, e lo condannava alla pena di quattro anni di
reclusione e 18.000,00 euro di multa, oltre le spese; al soggetto era ascritto di

Data Udienza: 04/12/2014

aver detenuto a fine di vendita circa 10,7 grammi di stupefacente del tipo eroina,
tale da consentire di ricavare 64 dosi medie.
2. Con sentenza del 2/7/2014, la Corte di appello di Catanzaro, in parziale
riforma della precedente, riconosceva l’ipotesi più lieve di cui all’art. 73, comma
5, d.P.R. n. 309 del 1990, rideterminando la pena nella misura di due anni di
reclusione e duemila euro di multa.
3. Propone ricorso per cassazione il Mingoia, a mezzo del proprio difensore,
articolando un unico motivo:

mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, anche sotto
il profilo del travisamento della prova. La Corte di merito avrebbe confermato la
condanna pur non sussistendo la prova certa della destinazione allo spaccio della
sostanza stupefacente; in particolare, e data la pacifica condizione di assuntore
in capo al Mingoia, i parametri utilizzati per ritenere l’eroina non in toto detenuta
per uso personale sarebbero errati, meramente apparenti e contrastanti con le
risultanze dibattimentali.

CONSIDERATO IN DIRITTO

4. Il ricorso è manifestamente infoli&ato.
Al riguardo, occorre innanzitutto ribadire che il controllo del giudice di
legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale della
decisione di cui si saggia l’oggettiva tenuta sotto il profilo logico-argornentativo,
restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della
decisione e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e
valutazione dei fatti (tra le varie, Sez. 3, n. 12110 del 19.3.2009, Campanella, n.
12110, Rv. 243247). Si richiama, sul punto, il costante indirizzo di questa Corte
in forza del quale l’illogicità della motivazione, censurabile a norma dell’art. 606,
comma 1, lett e), cod. proc. pen., è soltanto quella evidente, cioè di spessore
tale da risultare percepibile ictu ocu/i; ciò in quanto l’indagine di legittimità sul
discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il
sindacato demandato alla Corte di cassazione limitarsi, per espressa volontà del
legislatore, a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo, senza
possibilità di verifica della rispondenza della motivazione alle acquisizioni
processuali (Sez. U., n. 47289 del 24/9/2003, Petrella, Rv. 226074).
In altri termini, il controllo di legittimità sulla motivazione non attiene né alla
ricostruzione dei fatti né all’apprezzamento del giudice di merito, ma è limitato
alla verifica della rispondenza dell’atto impugnato a due requisiti, che lo rendono
insindacabile: a) l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo

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– violazione di legge penale con riguardo all’art. 192 cod. proc. pen.;

hanno determinato; b) l’assenza di difetto o contraddittorietà della motivazione o
di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine
giustificativo del provvedimento. (Sez. 2, n. 21644 del 13/2/2013, Badagliacca e
altri, Rv. 255542; Sez. 2, n. 56 del 7/12/2011, dep. 4/1/2012, Siciliano, Rv,
251760).
Questa conclusione, peraltro, non muta a fronte del vigente testo dell’art.
606, comma 1, lett. e) cod. proc. peri., come modificato dalla I. 20.2.2006 n. 46,
che invero non ha trasformato il ruolo e i compiti di questa Corte, che rimane

rinnovata valutazione dei fatti, ovvero ad una rivalutazione del contenuto delle
prove acquisite, trattandosi di apprezzamenti riservati in via esclusiva al giudice
del merito. Del pari, il ricorrente non può limitarsi a fornire una versione
alternativa del fatto, ma deve indicare specificamente quale sia il punto della
motivazione che appare viziato dalla supposta manifesta illogicità e, in concreto,
da cosa tale illogicità vada desunta. Al riguardo, avere introdotto la possibilità di
valutare i vizi della motivazione anche attraverso gli “atti del processo”
costituisce il riconoscimento normativo della possibilità di dedurre in sede di
legittimità il cosiddetto “travisamento della prova”, che è quel vizio in forza del
quale il giudice di legittimità, lungi dal procedere ad una (inammissibile)
rivalutazione del fatto (e del contenuto delle prove), prende in esame gli
elementi di prova risultanti dagli atti per verificare se il relativo contenuto è stato
o meno trasfuso e valutato, senza travisamenti, all’interno della decisione. In
altri termini, vi è “travisamento della prova” quando il giudice di merito abbia
fondato il suo convincimento su una prova che non esiste o su un risultato di
prova incontestabilmente diverso da quello reale (alla disposta perizia è risultato
che lo stupefacente non fosse tale ovvero che la firma apocrifa fosse
dell’imputato); del pari, può essere valutato se vi erano altri elementi di prova
inopinatamente o ingiustamente trascurati o fraintesi. In sintesi, detto
travisamento è configurabile quando si introduce nella motivazione una
informazione rilevante che non esiste nel processo o quando si omette la
valutazione di una prova decisiva ai fini della pronuncia (Sez. 2, n. 47035 del
3/10/2013, Giugliano, Rv. 257499; Sez. 5, n. 18542 del 21/1/2011, Carone, Rv.
250168). Fermo però restando – occorre ancora ribadirlo — che non spetta
comunque a questa Corte Suprema “rivalutare” il modo con cui quello specifico
mezzo di prova è stato apprezzato dal giudice di merito (in questi termini, tra le
molte, Sez. 3, n. 5478 del 05/12/2013, Ferraris, Rv. 258693; Sez. 5, n. 9338 del
12/12/2012, dep. 27/2/2013, Maggio, Rv. 255087).

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giudice della motivazione; la stessa, pertanto, non può procedere ad una

Se questa, dunque, è l’ottica ermeneutica nella quale deve svolgersi il
giudizio della Suprema Corte, le censure che il ricorrente rivolge al
provvedimento impugnato si evidenziano come manifestamente infondate, non
ravvisandosi alcun travisamento della prova nei termini suddetti.
Ed invero, il giudice di appello ha steso una motivazione ampia,
argomentata e priva di vizi logici per concludere che l’eroina sequestrata al
Mingoia doveva ritenersi – quantomeno in parte – destinata allo spaccio; in
particolare, sono state sottolineate, tra le altre, la quantità e le modalità di

contenuti in due bustine di cellophane), le modeste condizioni economiche del
ricorrente (che difficilmente gli avrebbero consentito un tale acquisto per uso
personale), le dubbie modalità con le quali lo stesso si sarebbe procurato il
danaro occorrente a tal fine, la somma erogata, la scarsa utilità – in termini
economici – di un viaggio dalla Calabria a Napoli per rifornirsi soltanto per uso
personale.
Orbene, a fronte di una motivazione siffatta, il Mingoia chiede a questa
Corte una inammissibile, nuova valutazione delle medesime emergenze
istruttorie già compiutamente esaminate in sede di appello (ad esempio, le
dichiarazioni della suocera e del datore di lavoro, la propria condizione di
tossicodipendente), senza peraltro procedere ad alcuna analisi critica dei diffusi
argomenti – indici di detenzione al fine di spaccio – spesi dal medesimo collegio
di secondo grado per affrontare le medesime questioni oggi sottoposte al giudizio
di legittimità.
Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile. Alla luce della
sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella
fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il
ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di
inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a
norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché
quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende,
equitativamente fissata in euro 1.000,00.

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confezionamento della sostanza (60 involucri singoli con chiusura ermetica,

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle
ammende.
Così deciso in Roma, il 4/12/2014

Il Presidente

liere estensore

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