Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 3917 del 04/12/2014


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 3917 Anno 2015
Presidente: FIALE ALDO
Relatore: MENGONI ENRICO

SENTENZA

sul ricorso proposto da
Misiti Alfredo, nato a Cinquefrondi il 27/5/1986

avverso la sentenza pronunciata dalla Corte di appello di Reggio Calabria in
data 13/3/2014
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
sentita la relazione svolta dal consigliere Enrico Mengoni;
sentite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto
Procuratore generale Francesco Salzano, che ha chiesto il rigetto del ricorso;

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 13/3/2014, la Corte di appello di Reggio Calabria
confermava la pronuncia emessa il 16/4/2013 dal Giudice per l’udienza
preliminare presso il Tribunale di Palmi, in sede di giudizio abbreviato, con la
quale Alfredo Misiti era stato condannato alla pena di quattro anni di reclusione e
20.000,00 euro di multa in ordine al delitto di cui all’art. 73, commi 1 e 1-bis,

Data Udienza: 04/12/2014

d.P.R. n. 309/1990; lo stesso, infatti, era ritenuto responsabile di aver detenuto
a fine di vendita 4,35 grammi di cocaina, divisi in vari involucri.
2. Propone ricorso per cassazione il Misiti, personalmente, articolando tre
motivi:
– mancanza e manifesta illogicità della motivazione. La Corte di merito,
come in precedenza il G.u.p. avrebbe condannato il ricorrente pur in difetto della
prova dell’avvenuto delitto; ed invero, dalla comunicazione di notizia di reato in
atti non si comprenderebbe chi — tra il Misiti e tale Andrea Forchì — avesse

sentenza impugnata sarebbe manifestamente illogica e contraddittoria;
– violazione dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., con
riferimento al mancato riconoscimento dell’ipotesi di cui all’art. 73, comma 5,
d.P.R. n. 309 del 1990. La Corte, come il primo Giudice, avrebbe negato l’ipotesi
di lieve entità (oggi condotta autonoma di reato) pur in presenza di tutti i
requisiti che, per costante giurisprudenza di legittimità, integrano la medesima
previsione di cui al citato comma 5; del pari, gli elementi valorizzati in sentenza
in senso contrario sarebbero di scarso rilievo (come il quantitativo di danaro
sequestrato), e tali da non eliminare la scarsissima offensività del fatto;
– mancanza e manifesta illogicità della motivazione in ordine all’entità
della pena, la quale sarebbe eccessiva e, per ciò stesso, illogica.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Il ricorso è manifestamente infondato.
Con riguardo al primo motivo, occorre innanzitutto ribadire che il controllo
del giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza
strutturale della decisione di cui si saggia l’oggettiva tenuta sotto il profilo logicoargomentativo, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a
fondamento della decisione e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di
ricostruzione e valutazione dei fatti (tra le varie, Sez. 3, n. 12110 del 19.3.2009,
Campanella, n. 12110, Rv. 243247). Si richiama, sul punto, il costante indirizzo
di questa Corte in forza del quale l’illogicità della motivazione, censurabile a
norma dell’art. 606, comma 1, lett e), cod. proc. pen., è soltanto quella
evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu ocu/i; ciò in quanto
l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte
circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione limitarsi,
per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l’esistenza di un logico
apparato argomentativo, senza possibilità di verifica della rispondenza della

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ceduto e chi avesse acquistato lo stupefacente, e sul punto la motivazione della

motivazione alle acquisizioni processuali (Sez. U., n. 47289 del 24/9/2003,
Petrella, Rv. 226074).
In altri termini, il controllo di legittimità sulla motivazione non attiene né alla
ricostruzione dei fatti né all’apprezzamento del giudice di merito, ma è limitato
alla verifica della rispondenza dell’atto impugnato a due requisiti, che lo rendono
insindacabile: a) l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo
hanno determinato; b) l’assenza di difetto o contraddittorietà della motivazione o
di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine

altri, Rv. 255542; Sez. 2, n. 56 del 7/12/2011, dep. 4/1/2012, Siciliano, Rv,
251760).
Se questa, dunque, è l’ottica ermeneutica nella quale deve svolgersi il
giudizio della Suprema Corte, le censure che il ricorrente rivolge al
provvedimento impugnato si evidenziano come manifestamente infondate. Ed
invero, la Corte ha motivato in modo adeguato, diffuso e privo di vizi logici in
ordine alla responsabilità del Misiti per l’episodio del 5/8/2012, indicando le
ragioni per le quali non si poteva ravvisare alcuna incertezza tra il ruolo dallo
stesso ricoperto e quello del Forchì; in particolare, la sentenza evidenzia che: 1)
il Misiti, alla vista dei Carabinieri, aveva cercato di disfarsi di gran parte dello
stupefacente, gettando l’involucro (un ovetto “Kinder” contenente 12 involucri di
cocaina) dal finestrino della vettura in suo uso; 2) lo stesso, nel corso della
successiva perquisizione, aveva cercato di nascondere un ulteriore quantitativo

di sostanza sotto la suola della propria scarpa; 3) il Fuorchì aveva rivendicato la
“titolarità” della banconota da 10 euro trovata sotto la vettura del Misiti, così
confermandone la destinazione all’acquisto di cocaina; 4) era stato disposto il
sequestro di una somma di 300,00 euro rinvenuta presso l’abitazione del
ricorrente, per la quale lo stesso non aveva fornito alcuna giustificazione.
Orbene, a fronte di una motivazione siffatta il Misiti reitera le medesime
censure già proposte in appello, senza però in alcun modo argomentare in ordine
alle diffuse considerazioni svolte dalla Corte al riguardo, come testé sintetizzate.
Il ricorso, sul punto, appare peraltro molto generico, atteso che si limita ad
affermare che «non v’è alcun elemento dal quale possa desumersi chi abbia
ceduto e chi abbia acquistato la sostanza stupefacente tra i due soggetti
interessati dalla vicenda»; ciò – si ripete – obliterando del tutto la diffusa
motivazione della Corte sulla medesima censura.
4. Anche il secondo motivo è infondato.
Ed invero, la Corte di appello argomenta in maniera ampia, congrua e priva
di vizi logici in ordine al diniego dell’ipotesi di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. n.
309 del 1990 (oggi fattispecie autonoma, giusta d. I. 20 marzo 2014, n. 36,

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giustificativo del provvedimento. (Sez. 2, n. 21644 del 13/2/2013, Badagliacca e

convertito, con modificazioni, dalla I. 16 maggio 2014, n. 79); in particolare, la
sentenza fa riferimento alla quantità di stupefacente rinvenuto, peraltro già
divisa in complessivi 13 involucri e con peso differenziato, ed alla somma di
danaro sequestrata – e non giustificata – a conferma della «non trascurabile
redditività dell’attività di spaccio posta in essere dall’appellante, non a caso già
gravato da un precedente specifico».
In tal modo, quindi, il Giudice d’appello ha fatto buon governo del principio,
più volte affermato da questa Corte, per il quale, in tema di sostanze

del fatto di lieve entità di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990, il
giudice è tenuto a valutare complessivamente tutti gli elementi dalla norma
indicati, quindi, sia quelli concernenti l’azione (mezzi, modalità e circostanze
della stessa), sia quelli che attengono all’oggetto materiale del reato (quantità e
qualità delle sostanze stupefacenti oggetto della condotta criminosa), dovendo
conseguentemente escludere il riconoscimento dell’attenuante quando anche uno
solo di questi elementi porti ad escludere che la lesione del bene giuridico
protetto sia di lieve entità (per tutte, Sez. U, n. 35737 del 24/6/2010, Rico, Rv.
247911; Sez. 4, n. 6732 del 22/12/2011, dep. 20/2/2012, Sabatino, Rv.
251942).
Orbene, a fronte di questi argomenti, il ricorso – che reiterata la medesima
doglianza già sollevata in appello – si limita a richiamare genericamente le
oggettive emergenze fattuali (quantitativo e danari rinvenuti, condizione di
tossicodipendenza in capo al Misiti), chiedendo invero a questa Corte
un’inammissibile, nuova e diversa valutazione delle stesse, anche alla luce della
citata I. n. 79 del 2014; quel che, però, non è mai consentito in sede di
legittimità, specie a fronte di una motivazione adeguata come quella in oggetto.
5. Il terzo motivo è meramente apparente.
Ed invero, il ricorrente afferma che la pena risulta «assolutamente eccessiva
rispetto alle emergenze ed appare per ciò stesso illogica»; senza però censurare
le considerazioni svolte dalla Corte di appello sul punto (pag. 7).
Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile. Alla luce della
sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella
fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il
ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di
inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a
norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché
quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende,
equitativamente fissata in euro 1.000,00.

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stupefacenti, ai fini della concedibilità o del diniego della circostanza attenuante

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle
ammende.
Così deciso in Roma, il 4/12/2014

Il Presidente

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