Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 3906 del 02/12/2014


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 3906 Anno 2015
Presidente: MANNINO SAVERIO FELICE
Relatore: GRAZIOSI CHIARA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
FILLA MATTEO N. IL 14/04/1973
avverso la sentenza n. 163/2012 CORTE APPELLO di TRENTO, del
06/03/2013
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 02/12/2014 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. CHIARA GRAZIOSI
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott.
che ha concluso per e,
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Udito, per la parte civile, l’Avv
Uditi difensor Avv.

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Data Udienza: 02/12/2014

’ 28705/2013

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 6 marzo 2013 la Corte d’appello di Trento, quale giudice di rinvio a
seguito di sentenza della IV sezione di questa Suprema Corte del 24 gennaio 2012 n. 161 che
aveva annullato con rinvio una precedente sentenza del 18 febbraio 2011 della stessa corte
territoriale – la quale, in riforma di sentenza del 15 dicembre 2009 con cui il G.u.p. del
Tribunale di Rovereto lo aveva condannato alla pena di due anni di reclusione e € 2000 di
multa per il reato di cui all’articolo 82 d.p.r. 309/1990 per aver istigato all’uso di stupefacenti

parziale riforma della sentenza di primo grado concedeva la sospensione condizionale della
pena detentiva.
2. Ha presentato ricorso il difensore, sulla base di tre motivi. Il primo motivo denuncia
violazione degli articoli 624, comma 1, e ss. c.p.p. in ordine alla presunta formazione del
giudicato sul fatto e sulla sua qualificazione giuridica così come ritenuto nella sentenza
impugnata. Il secondo motivo denuncia la stessa violazione di legge sempre quanto alla
presunta formazione del giudicato, in relazione alla sopravvenuta declaratoria di insussistenza
del reato da parte delle Sezioni Unite. Il terzo motivo denuncia vizio motivazionale quanto alla
esclusione della scriminante di cui all’articolo 5 c.p. e quindi alla affermazione della
responsabilità dell’imputato per il reato a lui ascritto.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Il ricorso è infondato.
3.1 II primo motivo denuncia violazione di legge in relazione alla pretesa formazione del
giudicato sul fatto e sulla sua qualificazione giuridica, in quanto erroneamente avrebbe ritenuto
il giudice di rinvio che gli fosse stato devoluto esclusivamente il punto di diritto attinente alla
operatività dell’articolo 5 c.p., essendosi così preclusa al giudicante ogni altra valutazione
estranea all’elemento soggettivo, e così violando l’articolo 624, comma 1, c.p.p.
Ricordando che l’invocata norma circoscrive l’oggetto della cognizione del giudice di rinvio in
caso di annullamento parziale, stabilendo che le parti della sentenza che non hanno
connessione con la parte annullata della sentenza oggetto di annullamento parziale assumono
autorità di cosa giudicata, dalla mera lettura della sentenza impugnata emerge l’infondatezza
del motivo. Invero, la sentenza d’appello del 18 febbraio 2011 aveva assolto il Filla del reato a
lui ascritto perché il fatto non costituisce reato, sull’assunto – come sintetizza la sentenza
impugnata – che la sua assoluzione precedente per un’analoga vicenda potesse averlo convinto
della liceità delle condotte mantenute, facendo così venir meno l’elemento psicologico del
reato. Ma la sentenza di annullamento con rinvio pronunciata a seguito di ricorso del
Procuratore Generale ha ritenuto che il giudice d’appello fosse incorso in erronea
interpretazione dell’articolo 5 c.p., che, pur non espressamente menzionato, aveva fondato la

in domini e siti Internet, aveva assolto Filla Matteo perché il fatto non costituisce reato -, in

decisione del giudice d’appello, tra l’altro neppure riportando i dati fattuali relativi alla
precedente decisione per verificarne l’identità con le condotte oggetto dell’attuale processo; e
soprattutto l’erronea interpretazione era emersa dal fatto che, in palese contraddittorietà con
l’avere ritenuto in buona fede l’imputato, il giudice d’appello aveva riconosciuto che questo “si
era premurato di mettere in guardia i destinatari circa l’illiceità della condotta di coltivazione di
stupefacenti ed aveva realizzato l’illecito commercio ponendo in essere accorgimenti volti a
evitare l’incriminazione” (così ben sintetizza la sentenza impugnata a pagina 3). Dunque

riferimento alla sussistenza o meno della scriminante di cui all’articolo 5 c.p., avendo proprio
su tale sussistenza, in sostanza, assolto il giudice d’appello l’imputato. Non condivisibile è
pertanto la prospettazione del ricorrente che siano rimasti oggetto di cognizione per il giudice
di rinvio il fatto di per sé e la sua qualificazione giuridica, essendo chiaro, visto il contenuto
dell’assoluzione di secondo grado e il conseguente contenuto della sentenza di annullamento
del giudice di legittimità, che esclusivamente l’elemento soggettivo, in particolare relazione con
la scriminante suddetta, era residuato, ovvero non era ancora passato in giudicato.
3.2 II secondo motivo ancora denuncia violazione dell’articolo 624, comma 1, e ss. c.p.p.
quanto alla formazione del giudicato, in relazione all’intervento nelle more delle Sezioni Unite.
Invero, con sentenza del 18 ottobre-7 dicembre 2012 n. n. 47604, le Sezioni Unite si
sarebbero pronunciate sulla questione in esame, laddove hanno affermato che

“l’offerta in

vendita di semi di piante dalle quali è ricavabile una sostanza drogante, accompagnata da
precise indicazioni botaniche sulla coltivazione delle stesse, non integra il reato di cui all’art. 82
d.p.r. N. 309 del 1990”, precisando che “la predetta condotta può integrare, ricorrendone i
presupposti, il reato di istigazione alla coltivazione di sostanze stupefacenti”

ai sensi

dell’articolo 414 c.p.; e secondo il ricorrente il giudice di rinvio avrebbe errato nel non
“prendere atto dell’efficacia e della decisiva incidenza di tale decisione, in quanto essa modifica
in radice la prospettiva applicativa della norma”, per cui avrebbe dovuto applicare i principi
dalla sentenza affermati, che sarebbero stati adeguati alla fattispecie concreta, ciò peraltro
riconducendo anche alla tematica della qualificazione giuridica del fatto, che, negando
l’applicabilità dell’articolo 414 c.p., il giudice di rinvio avrebbe in realtà effettuato,
contraddicendo quanto affermato in ordine alla formazione del giudicato.
Anche questo motivo non ha consistenza. Si tratta di una questione che era già stata
sottoposta al giudice di rinvio, e che ne è stata respinta proprio sulla base delle argomentazioni
già richiamate a proposito del motivo precedente, e cioè per l’essersi formato il giudicato sul
fatto e sulla sua qualificazione giuridica. In tal modo, peraltro, da un lato il giudice di rinvio
non si è contraddetto come prospetta il ricorrente, in quanto ha mantenuto la qualificazione
giuridica che era fino ad allora stata attribuita al fatto contestato, e che appunto ha accertato
essere passata in giudicato (il giudice si sarebbe contraddetto ledendo il giudicato se avesse
fatto il contrario, cioè qualificato il reato come istigazione ex articolo 414 c.p.); dall’altro, il
giudice di rinvio non è incorso in violazione dell’articolo 624 c.p.p. poichè, ancora una volta al

l’annullamento parziale ha investito effettivamente soltanto l’elemento soggettivo, in

contrario di quanto affermato dal ricorrente, l’avrebbe commessa proprio se avesse applicato il
principio delle Sezioni Unite, dato che i principi affermati dalle Sezioni Unite non possono
incidere, logicamente, su ciò che già ha assunto l’autorità di cosa giudicata (v. per un caso
affine, avendo le Sezioni Unite affermato la non configurabilità del reato contestato, Cass. sez.
I, 13 luglio 2006 n. 27858: “La sentenza di condanna passata in giudicato non può essere
revocata dal giudice dell’esecuzione in ragione della sopravvenienza di un intervento delle
Sezioni unite della Corte di cassazione, che, nel dirimere un contrasto giurisprudenziale,

del reato affermando invece la sussistenza del mero illecito amministrativo”; sulla stessa linea
quanto alla non incidenza delle pronunce delle Sezioni Unite sul giudicato Cass. sez. I, 11 luglio
2006 n. 27121, Cass. sez. I, 21 febbraio 2013 n. 13411 e da ultimo Cass. sez. I, 24 aprile
2014 n. 20476).
3.3 n terzo motivo denuncia vizio motivazionale quanto alla esclusione della scriminante di
cui all’articolo 5 c.p. e alla conseguente affermazione della responsabilità penale dell’imputato.
La motivazione della sentenza impugnata sarebbe assertiva, se non addirittura congetturale, e
non spiegherebbe quale sarebbe il criterio di collegamento dimostrativo del “rapporto di
strumentalità dell’opzione adottata dal ricorrente di creare materialmente più siti, rispetto alla
presunta volontà allo stesso attribuita…di operare per diffondere la coltivazione – non l’uso della canapa”: in ultima analisi non sarebbe stato spiegato dalla corte territoriale “quale
sarebbe il concreto e decisivo artifizio illecito, in base al quale si realizzerebbe la violazione
della fattispecie penale”.
Questa conformazione del motivo già ne dimostra la manifesta infondatezza, poiché,
chiedendo al giudice di merito di identificare quello che il ricorrente definisce “artifizio illecito”
con cui si sarebbe realizzata la violazione della norma significa, a ben guardare, identificare
non l’elemento soggettivo, bensì l’elemento oggettivo del reato, sul quale già si è maturato il
giudicato, come si è visto esaminando il primo motivo. Peraltro, la sentenza impugnata offre
una motivazione non apparente, bensì congrua, ed esente da manifeste illogicità, evidenziando
che, come già emergeva dalla sentenza di primo grado, ma anche, contraddittoriamente con
l’assoluzione, dalla sentenza annullata, non è configurabile nel caso in esame alcuna “buona
fede”, avendo agito l’imputato “con astuzia, frazionando in diversi siti Internet la
commercializzazione dei semi, la vendita di attrezzature ed i consigli”, per fare in modo che
ogni sito apparisse commercialmente asettico, salvo che “con un semplice link
predisposto…appariva evidente lo scopo realmente perseguito, e cioè quello di diffondere la
coltivazione della canapa indiana”; ulteriore elemento dimostrativo dell’elemento soggettivo,
osserva la corte territoriale, è identificabile nel fatto che lo stesso imputato si premurava di
“avvertire gli acquirenti della illiceità della condotta di sostanze stupefacenti, con ciò
dimostrando di avere piena consapevolezza del rilievo penale della sua condotta”. Né, infine,
osserva ancora la corte territoriale, la pregressa assoluzione poteva generare l’applicabilità
della scriminante dell’ignoranza della legge penale, poiché, osserva logicamente il giudice di

escludano, in una vicenda identica a quella coperta dal giudicato di condanna, la sussistenza

merito, la scriminante deve avere il carattere della inevitabilità (in tal senso, da ultimo, Cass.
sez. III, 10 giugno 2014 n. 36852, per cui la buona fede deve integrare, ai fini della
scriminante, una condizione soggettiva di ignoranza inevitabile della legge penale, così come
dichiarato dalla nota sentenza della Corte Costituzionale 364/1988; e, sempre tra gli arresti più
recenti, particolarmente significativa, in riferimento anche a incertezze giurisprudenziali, è
Cass. sez. II, 23 novembre 2011 n. 46669, per cui, in sostanza, se vi è dubbio non vi è
inevitabilità, perché

“il dubbio sulla liceità o meno deve indurre il soggetto ad un

della Corte Costituzionale, all’astensione dall’azione se, nonostante tutte le informazioni
assunte, permanga l’incertezza sulla liceità o meno dell’azione stessa, dato che il dubbio, non
essendo equiparabile allo stato d’inevitabile ed invincibile ignoranza, è inidoneo ad escludere la
consapevolezza dell’illiceità”) e sussiste obbligo, soprattutto per un operatore professionale, di
informarsi sulla liceità della sua condotta (in tal senso v. p. es. Cass. sez. III, 5 aprile 2011 n.
35694 per cui

“la scusabilità dell’ignoranza della legge penale, può essere invocata

dall’operatore professionale di un determinato settore solo ove dimostri, da un lato, di aver
fatto tutto il possibile per richiedere alle autorità competenti i chiarimenti necessari e,
dall’altro, di essersi informato in proprio, ricorrendo ad esperti giuridici, così adempiendo il
dovere di informazione”). Anche il terzo motivo, pertanto, risulta privo di pregio.
In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile per manifesta infondatezza,
con conseguente condanna del ricorrente, ai sensi dell’art.616 c.p.p., al pagamento delle spese
del presente grado di giudizio. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale
emessa in data 13 giugno 2000, n.186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il
ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di
inammissibilità”, si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di
Euro 1000,00 in favore della Cassa delle ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali
e della somma di €1000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso in Roma il 2 dicembre 2014

Il Consigliere Estensor

Il Presidente

atteggiamento più attento, fino cioè, secondo quanto emerge dalla sentenza 364 del 1988

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