Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 3893 del 16/12/2014


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 3893 Anno 2015
Presidente: LOMBARDI ALFREDO MARIA
Relatore: FUMO MAURIZIO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
MASCETTI ANDREA N. IL 10/08/1971
nei confronti di:
SANTORO MICHELE N. IL 02/07/1951
avverso la sentenza n. 3902/2008 CORTE APPELLO di MILANO, del
21/01/2014
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 16/12/2014 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. MAURIZIO FUMO
enerale in sersona del D

Data Udienza: 16/12/2014

udito il Pg in persona del sost. proc. gen. dott. U. De Augustinis che ha chiesto dichiararsi
inammissibile il ricorso,
udito il difensore della parte civile avv. GF. Orelli, che ha illustrato il ricorso, ne ha chiesto
l’accoglimento e ha depositato conclusioni scritte e nota spese.

1. Santoro Michele, conduttore, all’epoca, della trasmissione televisiva IL RAGGIO
VERDE, settimanalmente in onda su RAI 2, è imputato di diffamazione aggravata nei confronti
di Mascetti Andrea e Oneto Gilberto, per avere, nella trasmissione del giorno 3.11.2000,
offeso la reputazione dei due predetti, consentendo l’improprio accostamento tra due “servizi”
televisivi, accostamento dal quale derivava l’indiretta attribuzione alla associazione
riconducibile alle due predette persone offese (“terra insubre”) di una ideologia razzista e
xenofoba, riferibile – viceversa – ad altre associazioni (“holy waru, “trincea Europa”).
2. In primo grado, i collaboratori del Santoro (Torrealta Maurizio e Moldani Paolo)
furono assolti con la formula “il fatto non costituisce reato”; il Santoro, viceversa, fu
condannato a pena di giustizia, oltre al risarcimento dei danni nei confronti delle costituite parti
civili.
3. La corte di appello di Milano, investita della impugnazione dell’imputato e delle parti
civili, con la sentenza di cui in epigrafe, in riforma della pronunzia di primo grado, ha assolto
(anche) il Santoro, ancora con la formula “il fatto non costituisce reato”.
3.1. Hanno ritenuto i giudici di secondo grado che l’accostamento tra i due servizi fu
casuale, in quanto la imprevista interruzione del primo, aveva determinato la immediata messa
in onda del secondo; ciò in quanto la scansione dei tempi televisivi doveva comunque essere
rispettata; né, d’altra parte, era ipotizzabile che il Santoro, nel giro di pochi secondi (quelli
necessari per assumere “in diretta” una decisione in grado di tamponare gli effetti
dell’incidente verificatosi), avesse – scientemente e volontariamente – dato il via libera al
secondo servizio, rappresentandosene l’effetto diffamatorio nei confronti di Mascetti e Oneto.
3.2. La corte milanese ha inoltre affermato che la condotta del Santoro doveva in ogni
caso ritenersi scriminata in ragione del legittimo esercizio del diritto di cronaca e di quello di
critica, atteso che – comunque – tutte le associazioni oggetto della trasmissione televisiva
erano espressive del medesimo “fermento etnonazionalistico”, cui non è estranea, peraltro,
nemmeno la linea politica del partito lega nord, presente in Parlamento.
4. Ricorre per cassazione il difensore del solo Mascetti e deduce, innanzitutto,
travisamento della prova e carenza dell’apparato motivazionale.
4.1. Integra un’affermazione riconoscibilmente non rispondente al vero quella in base
alla quale il Santoro fosse all’oscuro del contenuto dei servizi del Torrealta e del Moldani.
Trattavasi invero di servizi pre-registrati e Santoro, in quanto conduttore e coordinatore
dell’intera trasmissione, non poteva ignorarne il contenuto; di talché rappresenta una evidente
assurdità la affermazione in base alla quale egli non poteva rendersi conto che l’accostamento
tra i due servizi (conseguente alla necessitata interruzione – per motivi tecnici – del primo)
avrebbe comportato l’accostamento dei suoi protagonisti ai contenuti del secondo.
4.2. Quanto all’esercizio di un diritto (il ricorrente individua – in astratto – gli estremi del
solo diritto di cronaca), esso, ad evidenza, non sussiste, in quanto, nel caso in esame, non è
stato rispettato il requisito della verità della notizia. Il giudice di appello ha dunque violato la
norma penale, ritenendo erroneamente che l’accostamento tra alcune associazioni, definite
delinquenziali (ad es.: holy war) e quella denominata “terra insubre” fosse un fatto penalmente
irrilevante. Neanche è stato rispettato il principio di continenza, essendo state assimilate
realtà, culturalmente e politicamente, diverse.
5. Il 2.12.2014 sono pervenute note difensive, redatte dall’avv. C. Malavenda
nell’interesse del Santoro. Con esse si sostiene la inammissibilità del ricorso del Mascetti e si

RITENUTO IN FATTO

segnala che dagli atti e dalla sentenza di primo grado emerge con chiarezza che l’imputato era
nell’impossibilità di accorgersi delle potenzialità lesive dell’accostamento tra i due servizi
televisivi, atteso che solo il secondo era registrato (e non anche quello curato dal Torrealta). Si
sostiene inoltre la aspecificità della censura con la quale si è negata (da parte della ricorrente
parte civile) la sussistenza della scriminante ex art. 51 cp e comunque la irrilevanza della
censura stessa, una volta accertata la mancanza di dolo in capo al Santoro.

CONSIDERATO IN DIRITTO

2. Va innanzitutto ricordato come la giurisprudenza di questa corte di legittimità abbia
costantemente ritenuto (ASN 200319804- RV 224531; ASN 199902842- RV 212698; ASN
199503236- RV 201051) che è certamente consentito al giornalista (della carta stampata,
come della TV) operare accostamenti tra notizie vere, a condizione che essi non producano
ulteriore significato che trascenda la notizia stessa, acquisendo autonoma valenza lesiva.
Occorre dunque fare riferimento al risultato che il detto accostamento determina: se esso
consiste in un mero dato logico, in un corollario, per quanto insinuante e suggestivo, l’effetto
denigratorio è da escludere. Viceversa, se l’effetto consiste, sostanzialmente in una notizia
nuova, ovvero in una specificazione di notizia già fornita, sarà onere del giornalista accertarne
la rispondenza al vero.
2.1. Orbene, nel caso in scrutinio, è rimasto accertato in punto di fatto che detto
accostamento vi fu e che da esso scaturì una notizia “nuova” e “diversa” (rispetto a quella che
sarebbe stata veicolata dal servizio televisivo, come originariamente impostato e predisposto).
La equiparazione della organizzazione “terra insubre” ad altre, diversamente caratterizzate sul
piano politico (“trincea Europa”, “holy war”), infatti, rappresenta indubbiamente un novum
informativo e, data la connotazione – a quanto si apprende – razzistica, delinquenziale, se non
apertamente ispirata alla ideologia nazista, di tali ultimi raggruppamenti, un novum dal
contenuto indubbiamente denigratorio (per chi condivide i valori della nostra Carta
fondamentale).
2.2. La corte milanese, mutuando – evidentemente – i vocaboli dal servizio televisivo,
scrive di un “fermento etnonazionalistico” comune (a tutte e tre le strutture associative sopra
ricordate), ma, a parte la vaghezza semantica di tale espressione, resta il fatto che, se pure,
come sembrano sostenere i giudici di secondo grado, i seguaci di “terra insubre” fossero
espressione politica di un provincialismo sottoculturale con riconoscibili venature xenofobe
(non lontane dalla linea politica di partiti pur presenti in Parlamento), nondimeno
l’accostamento non sarebbe lecito, atteso che l’assimilazione alla ideologia nazista costituisce
un qualificante quid pluris negativo che non ha equivalenti (ASN 201019449-RV 247132);
peraltro, se è vero che non si può essere nazisti (o neonazisti) senza essere razzisti e xenofobi,
non è vero il contrario, in quanto, come è ovvio, è il più che contiene il meno e non viceversa.
2.3. Né vale sostenere che l’appartenenza a una associazione che ha comunque cattiva
reputazione (tale ritengono i giudici di appello quella in cui milita il Mascetti) consenta ulteriori
addebiti denigratori. Invero, è stato chiarito (ASN 200835032- RV 241183 e,
precedentemente, sez. 5 sent. 22869 del 2003, ric. Leone, non massimata sul punto) che la
attribuzione a un soggetto dalla reputazione già compromessa di fatti non veri – che integrino
un autonomo reato – è comunque repressa dall’ordinamento, in quanto anche la reputazione
per alcuni aspetti compromessa può formare oggetto di ulteriori, illecite lesioni, irrilevante
essendo, con riguardo all’affermazione dell’an della responsabilità, la quantità ovvero la gravità
dell’ulteriore lesione in concreto apprezzabile (essa sarà valutabile, semmai, ai fini della
determinazione della pena e della quantificazione del danno risarcibile). Ed è poi ovvio che,
anche se i fatti nuovi (e non veri) non integrino reato, ma siano, comunque, sintomatici di
condotte riprovevoli, il principio appena citato non perde certo di pertinenza.
3. Ebbene, la sentenza di appello, non solo sembra ignorare del tutto la problematica
appena illustrata (e i principi che se ne traggono), ma, nel riformare radicalmente la pronunzia
di primo grado, da un lato, non ha cura di fornire adeguata confutazione delle ragioni poste a

1. Il ricorso è fondato e merita accoglimento.

4. La sentenza impugnata non scioglie il dilemma; anzi: lo crea e, pertanto, come
premesso, essa appare illogica e gravemente contraddittoria e, in quanto tale, meritevole di
annullamento.
5. Conseguentemente, la pronunzia della corte di appello di Milano va annullata con
rinvio, ovviamente ai soli effetti civili. Il rinvio deve avvenire innanzi al giudice civile,
competente per valore in grado di appello (come ultimamente – sia pure indirettamente confermato da SS.UU: sent. n. 40109 del 2013, ric. Sciortino).
6. Le eventuali spettanze della parte civile verranno valutate (e liquidate, se del caso)
“al definitivo”.

base di quest’ultima (cfr. ASN 201126810-RV 250470, principio che, logicamente, non può
valere solo quando la riforma sia in malam partem, come superficialmente potrebbe credersi in
base a SS.UU. sent. n. 33748 del 2005, ric. Mannino e poi ASN 200835762 – RV 241169; ASN
200842033 – RV 242330; ASN 200922120 – RV 243946), dall’altro, evidenzia una patente
contraddizione.
3.1. Sotto il primo aspetto (mancata confutazione), non viene chiarito per qual motivo il
Santoro, pacificamente dominus della trasmissione, non avrebbe avuto (contrariamente a
quanto ritenuto dal primo giudice) contezza del contenuto dei due servizi che dovevano andare
in onda nella “sua” trasmissione. E se pure, come si sostiene nelle note difensive in favore
dell’imputato, solo il servizio del Moldani era registrato, non resta chiarito perché non fosse
sufficiente la conoscenza del contenuto di tale servizio a evitare la fallace attribuzione al
Mascetti e all’Oneto di idee e posizioni politiche non loro.
La difesa del Santoro, nel suo scritto, ribadendo un argomentazione già presente nella
sentenza di appello, sostiene che l’imputato dovette, per ragioni tecniche, interrompere il
servizio del Torrealta e mandare in onda, senza soluzione di continuità, quello del Moldani.
Ebbene, se pure ciò rispondesse al vero, sta di fatto che la sentenza di appello non chiarisce
per qual motivo il conduttore non abbia specificato ai telespettatori – come i canoni di una
corretta informazione imponevano – che i due servizi riguardavano due realtà politicoassociative distinte (sia pure, come si sostiene, con alcuni “valori” comuni).
3.2. Sotto il secondo aspetto (patente contraddizione), la sentenza, prima, afferma che
l’accostamento fu casuale e involontario e che comunque il conduttore non si rese per tempo
conto che esso avrebbe prodotto un effetto denigratorio nei confronti di Mascetti e Oneto (i
quali, evidentemente, ha riconosciuto per implicito il giudicante, nulla avevano a che fare con
“trincea Europa e “holy war”), poi, tuttavia, assume che la condotta dell’imputato resta
comunque scriminata perché egli ha legittimamente esercitato il diritto di cronaca.
Il fatto è che, se al Mascetti e all’Oneto sono state riferite erroneamente (con dolo diretto o
eventuale, oppure per una svista, per mancanza del tempo necessario ad esercitare un
accurato controllo, per la concitazione che la diretta televisiva può determinare ecc.) notizie e
valutazioni che, in realtà, sono relative ad altri soggetti, non si vede come si possa, al pari,
sostenere che quelle stesse notizie e quelle medesime valutazioni siano conformi al principio di
verità (una sorta di “verità random”, per così dire), attesa, appunto, la casualità
dell’accostamento, a meno che non si voglia paradossalmente sostenere che, pur sbagliando,
si è detto il vero. Dunque, delle due, l’una: o l’effetto diffamatorio fu voluto perché è stato
esercitato legittimamente il diritto di critica/cronaca, in quanto “terra insubre”, “holy war” e
“trincea Europa” sono (state considerate) realtà equivalenti o comunque assimilabili; ovvero si
è trattato di un errore che ha determinato “l’accavallamento” delle predette notizie e
valutazioni, di talché le poco lusinghiere considerazioni, originariamente riservate a “holy war”
e “trincea Europa” (associazioni delinquenziali), sono state impropriamente attribuite a “terra
insubre” e dunque a Mascetti (e a Oneto).
Nel primo caso, si sarebbe dovuto valutare se il diritto di critica/cronaca è stato esercitato
legittimamente, vale a dire entro i limiti che la giurisprudenza di legittimità ha – ormai da non
pochi anni – enucleato; nel secondo caso, si sarebbe dovuto accertare (e chiarire) se
effettivamente di errore si sia trattato o di una condotta sostenuta da dolo (diretto o
eventuale).

PQM

annulla la sentenza impugnata agli effetti civili, con rinvio per nuovo esame al giudice civile
competente per valore in grado di appello.

Così deciso in Roma in data 16. XII. 2014.-

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