Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 3889 del 20/01/2016


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 3889 Anno 2016
Presidente: DE CRESCIENZO UGO
Relatore: AGOSTINACCHIO LUIGI

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
• DE SANTIS Pasquale nato a Torre Annunziata il 09/02/1961
avverso la sentenza in data 12.02.2014 della Corte di Appello di Bologna
PARTE CIVILE: Coca cola HBC Italia s.r.l.
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita la relazione svolta dal consigliere dr. Luigi Agostinacchio;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale dott.
Delia Cardia, che ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso.

RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza in data 12.02.2014 la Corte di Appello di Bologna, in parziale
riforma della sentenza emessa dal Tribunale di Ravenna il 09/10/2012, appellata
dall’imputato De Santis Pasquale, dichiarava non doversi procedere nei confronti
di quest’ultimo in ordine al reato di cui al capo A) – falsità aggravata in scrittura
privata di sette assegni circolari della Cassa di Risparmio di Forlì – perché estinto
per prescrizione; dichiarava improcedibile l’azione penale per il reato sub B), in
relazione ad uno dei due assegni di cui alla contestata ricettazione, perché già
oggetto di giudicato; escludeva dalla truffa di cui al capo C) l’importo di tale
assegno; confermava la pena inflitta in primo grado (quattro anni, sei mesi di
reclusione e C 1.400,00 di multa, con applicazione della recidiva contestata;

Data Udienza: 20/01/2016

interdizione dai pubblici uffici; dichiarazione di delinquente professionale e
assegnazione, a pena espiata, ad una casa di lavoro per anni tre); confermava
nel resto la sentenza impugnata, con riferimento anche alle statuizioni civili in
favore della Coca Cola HBC Italia s.r.l.
La condanna pertanto risultava circoscritta alla ricettazione degli assegni di cui ai
capi B) – così come delimitato – e D) nonché alla truffa, aggravata dal danno
patrimoniale di rilevante gravità, posta in essere nei confronti della società

pagamento degli assegni di cui ai capi A) e B), nell’ambito di un’attività
commerciale formalmente intestata a Fortunata brio ma effettivamente
esercitata dall’imputato.
2. Avverso la sentenza ha proposto ricorso in cassazione il De Santis, tramite il
difensore di fiducia sulla base di cinque motivi:

mancanza, contraddittorietà, manifesta illogicità della motivazione con
riferimento ai capi sub B), C) e D) ex art. 606 lett. e) cod. proc. pen.
nonché violazione degli artt. 499, 511 e 514 cod. proc. pen. ex art. 606
lett. b) con riferimento al capo D), lamentandosi a riguardo la carenza di
prova circa la consapevolezza che i titoli di cui al capo B), consegnati in
pagamento alla Coca Cola, fossero proventi di furto, in considerazione
altresì delle mansioni svolte, in qualità di dipendente e non già di titolare
dell’attività commerciale, come era dato evincere in particolare dalla
testimonianza di Giovanna Scotti, incaricata della società Coca Cola Italia;
per il capo D) ha eccepito l’inutilizzabilità della testimonianza di Claudio
Vitali – a base dell’affermazione di responsabilità – perché le dichiarazioni
erano state rese mediante lettura del verbale di sommarie informazioni
testimoniali rese in fase d’indagine;

nullità della sentenza impugnata per violazione di legge (artt. 120 e segg.
cod. pen., 336 e 337 cod. proc. pen., 640 cod. pen.) per mancanza della
condizione di procedibilità – valida querela – per il reato di truffa;

nullità della sentenza impugnata per violazione di legge (artt. 640 e 641
cod. pen.) per l’omessa riqualificazione del reato contestato sub C) in
insolvenza fraudolente;

nullità della sentenza impugnata per violazione di legge (art. 99, comma
4 cod. pen.) in ragione dell’omessa esclusione della recidiva, non
obbligatoria nel caso di specie;

erroneo riconoscimento della qualità di delinquente professionale ed
erronea applicazione della misura di sicurezza, in mancanza di

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costituitasi parte civile, a seguito dell’acquisto dì merce con consegna in

motivazione in ordine alla pericolosità sociale, con conseguente violazione
degli artt. 105 e 203 cod. pen.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
2. Il secondo ed il quinto motivo sono inammissibili perché non dedotti in
appello: i rilievi sulla validità della querela sono del tutto estranei all’atto di
impugnazione della sentenza di primo grado, come si rileva dalla lettura di tale

motivi ha sintetizzato (pag. 2 punti da 1 a 6); circa la dichiarazione della qualità
di delinquente professionale – e della conseguente applicazione della misura di
sicurezza detentiva – la corte di appello aveva già dichiarato inammissibile la
relativa richiesta di revoca, a fronte dell’assoluta mancanza di specificità del
motivo di gravame, circostanza che il ricorrente non ha contestato e che peraltro
risulta ex tabulas (l’appellante così si esprimeva: “si chiede inoltre la revoca dei
provvedimenti emessi ex art. 105 cod. pen.”).
Secondo l’orientamento di questa Corte, condiviso dall’odierno Collegio, “in tema
di ricorso per cassazione, la regola ricavabile dal combinato disposto degli artt.
606, comma terzo, e 609, comma secondo, cod. proc. pen. – secondo cui non
possono essere dedotte in cassazione questioni non prospettate nei motivi di
appello, tranne che si tratti di questioni rilevabili di ufficio in ogni stato e grado
del giudizio o di quelle che non sarebbe stato possibile dedurre in grado d’appello
– trova la sua “ratio” nella necessità di evitare che possa sempre essere rilevato
un difetto di motivazione della sentenza di secondo grado con riguardo ad un
punto del ricorso, non investito dal controllo della Corte di appello, perché non
segnalato con i motivi di gravame (Cass. Sez. 4^, sent. n. 10611 del
04/12/2012, dep. 07/03/2013, Rv. 256631).
In particolare – con riferimento al quinto motivo di ricorso – si rileva che
l’obbligo di motivazione da parte del giudice di appello sussiste soltanto in
relazione a quanto dedotto con l’atto di impugnazione e perché sussista tale
l’obbligo è necessario che la richiesta non sia generica ma in qualche modo
giustificata con riferimento a dati di fatto astrattamente idonei all’accoglimento
della richiesta stessa (Cass. Sez. 5^ sent. 1099 del 26.11.1997 dep. 27.01.1998
rv 209683).
3. Il primo, il terzo e il quarto motivo sono inammissibili perché costituiscono
ripetizione dei motivi di appello.
Per consolidata giurisprudenza della Suprema Corte è infatti inammissibile il
ricorso per cassazione fondato su motivi che si risolvono nella pedissequa

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atto e dalle indicazioni contenute nella pronuncia della corte territoriale che tali

reiterazione di quelli già dedotti in appello e motivatamente disattesi dal giudice
di merito, dovendosi gli stessi considerare non specifici ma soltanto apparenti, in
quanto non assolvono la funzione tipica di critica puntuale avverso la sentenza
oggetto di ricorso (tra le tante Sez. 5 n. 25559 del 15 giugno 2012; Sez. 6 n.
22445 del 8 maggio 2009, rv 244181; Sez. 5 n. 11933 del 27 gennaio 2005, rv.
231708). In altri termini, è del tutto evidente che, a fronte di una sentenza di
appello che ha fornito una risposta ai motivi di gravame, la pedissequa

considerata come critica argomentata rispetto a quanto affermato dalla corte
d’appello: in questa ipotesi, pertanto, i motivi sono necessariamente privi dei
requisiti di cui all’art. 581 c.p.p., comma 1, lett. c), che impone la esposizione
delle ragioni di fatto e di diritto a sostegno di ogni richiesta (Cass. Sez. 6, sent.
n. 20377 del 11/03/2009, dep. 14/05/2009, Rv. 243838).
In particolare:
il primo motivo s’incentra sulla dichiarata qualità di dipendente, addetto alla
gestione delle incombenze ordinarie, con richiami alla testimonianza di Giovanna
Scotti – le cui dichiarazioni, peraltro, in violazione al principio dell’autosufficienza
del ricorso, non sono state integralmente trascritte né allegate – questione
ampiamente trattata dal giudice di merito (pag. 3, 4 e 5 della sentenza), con
argomentazioni del tutto trascurate dal ricorrente (la rilevanza della
testimonianza di Carmelina Ciccarelli, che prima lavorò nel negozio e poi lo
rilevò, e di Mengozzi Katiuscia, agente di vendita della Coca Cola Italia; la
dichiarazione testimoniale della Scotti che confermava in sede dibattimentale il
positivo riconoscimento dell’imputato, effettuato senza ombra di dubbio, in fase
di indagini, nella vicinanza temporale dei fatti; gli accertamenti su Fortunata
brio, che solo formalmente risultava titolare dell’esercizio commerciale);
per quanto attiene alla qualificazione del reato di truffa la corte di appello ha
correttamente evidenziato che il fatto non può essere sussumibile nella
fattispecie di insolvenza fraudolenta posto che l’inadempimento contrattuale è
stato l’effetto di un preordinato proposito fraudolento, oltretutto orchestrato nel
tempo, come attestato dal subdolo inganno già perpetrato fin dall’iniziale
stipulazione di una più ridotta fornitura regolarmente pagata, al fine di carpire la
fiducia della controparte per le ulteriori più consistenti commesse che
diversamente, non sarebbero state accettate, proposito attuato con la dazione di
assegni falsificati e rubati (rilievi precisi che trovano riscontro nelle acquisizione
istruttorie e che non vengono considerati dal ricorrente, basandosi la censura sul

riproduzione di essi come motivi di ricorso per cassazione non può essere

mero richiamo a principi di diritto e sulla tautologica affermazione di
dissimulazione di uno stato d’insolvenza);
anche per quanto riguarda l’applicazione della recidiva (oggetto del quarto
motivo), la tesi difensiva insiste su circostanze adeguatamente confutate in
appello (l’irrilevanza della cospicua entità del patrimonio della vittima, la frode
come personale regola di vita in considerazione del pregresso vissuto del
ricorrente costellato da plurime condanne per reati analoghi, l’insensibilità alle

eventuali contraddizioni o carenze del percorso motivazionale ovvero violazioni
dell’art.99 cod. pen.
4. Per tali ragioni, dunque, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
Segue, a norma dell’articolo 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento
delle spese del procedimento e al pagamento a favore della Cassa delle
Ammende, non emergendo ragioni di esonero, della somma ritenuta equa di C
1.000,00 (mille) a titolo di sanzione pecuniaria.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di C 1.000,00 alla Cassa delle ammende.

Così deciso in Roma il giorno 20 gennaio 2016

Il Consigliere estensore

Il Presidente

condanne riportate che non hanno svolto un effetto dissuasivo) senza indicare

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