Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 3886 del 11/12/2014


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 3886 Anno 2015
Presidente: VESSICHELLI MARIA
Relatore: MICHELI PAOLO

SENTENZA

sul ricorso proposto nell’interesse di
De Gregorio Emilio, nato a Porto Teresio il 10/04/1949

avverso la sentenza emessa il 24/04/2013 dalla Corte di appello di Napoli

visti gli atti, la sentenza impugnata ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Paolo Micheli;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott.
Enrico Delehaye, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
udito per il ricorrente l’Avv. Maurizio Capozzo, il quale ha concluso chiedendo
l’accoglimento del ricorso e l’annullamento della sentenza impugnata

RITENUTO IN FATTO

1. Il 24/04/2013, la Corte di appello di Napoli riformava agli effetti civili la
sentenza emessa il 17/03/2009 dal Tribunale della stessa città (sezione
distaccata di Portici) nei confronti – anche – di Emilio De Gregorio, che il giudice

Data Udienza: 11/12/2014

di primo grado aveva assolto dai reati di cui agli artt. 610 e 361 cod. pen., in
ipotesi commessi tra il giugno e l’ottobre del 2001: la Corte territoriale, su
impugnazione proposta dalle parti civili Enrico Perillo e Renata Rossi,
condannava invece il De Gregorio al risarcimento dei danni cagionati ai suddetti
per effetto delle condotte contestate, confermando inuete la pronuncia del
Tribunale quanto alla posizione di altro imputato.
I fatti si riferivano ad un sopralluogo che il De Gregorio, Tenente della Polizia
Municipale di Portici, aveva effettuato il 09/06/2001 presso l’abitazione delle

(secondo l’ipotesi accusatoria, segnalazione che era stata effettuata
informalmente da un collega dell’imputato, trattandosi di immobile vicino ad una
casa di proprietà del fratello di costui): nell’occasione, il De Gregorio avrebbe
minacciato il Perillo ed il suo professionista di fiducia che li avrebbe denunciati
alla Procura della Repubblica ove non avessero abbattuto un muretto in corso di
realizzazione su un terrazzo, così costringendoli a determinarsi in tal senso;
quindi, pur avendo rilevato in quello stesso contesto una presunta violazione alla
normativa edilizia, tanto da redigere e far sottoscrivere al Perillo un verbale di
elezione di domicilio, avrebbe omesso di dare corso alla prescritta denuncia,
operando in tal senso soltanto il 31/10/2001, a seguito di una richiesta formulata
dall’avvocatura del Comune di Portici conseguente ad un esposto dello stesso
Pernio.
La Corte di appello, rivalutando il percorso argomentativo adottato dal
giudice di primo grado, osservava fra l’altro che:
– non potevano intendersi decisive le dichiarazioni rese dai soggetti presenti
al sopralluogo (colleghi, o meglio subordinati di grado, del De Gregorio)
circa il clima di tranquillità nel quale si era svolta l’attività dell’imputato,
anche perché vi era stato un momento in cui egli si era trovato
certamente da solo con il Perillo, vale a dire all’atto della sottoscrizione
del verbale di elezione di domicilio, che oltre a quella dell’interessato
recava soltanto la firma del Tenente;
– non erano state fornite spiegazioni plausibili circa il mancato, tempestivo
inoltro della comunicazione di notizia di reato, il che avvalorava l’ipotesi
della consapevolezza del De Gregorio di aver compiuto un abuso;
il Perillo si era evidentemente deciso a presentare ricorso al TAR, nonché
a formalizzare una successiva denuncia-querela, proprio per avere
maturato la consapevolezza dell’arbitrarietà del comportamento del
pubblico ufficiale (non avendo senso, altrimenti, adire il giudice
amministrativo dopo avere già demolito il manufatto, avendolo in ipotesi
fatto spontaneamente).

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persone offese, a seguito della segnalazione di lavori edilizi non autorizzati

2. Propone ricorso per cassazione il difensore del De Gregorio, lamentando
con motivo unico inosservanza ed erronea applicazione della legge penale,
nonché manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata.
Secondo la tesi difensiva, la pronuncia della Corte territoriale avrebbe un
sostanziale contenuto di piena riforma della prima decisione assolutoria, a
dispetto dell’intangibilità delle statuizioni penali della medesima sulla
insussistenza del fatto; la parte civile avrebbe avuto peraltro l’obbligo, a pena di

limitarsi a rappresentare che intendeva far affermare la responsabilità
dell’imputato. Inoltre, i giudici dell’appello avrebbero pretermesso ogni esame
circa quella che era da considerare la “prova madre” emersa all’esito
dell’istruttoria dibattimentale, vale a dire le dichiarazioni di coloro che erano stati
presenti all’atto del ricordato sopralluogo, precisando di non avere assistito a
minacce o discussioni di sorta: fra questi, l’agente Ciro Serino aveva financo
precisato di essere stato in compagnia del De Gregorio durante lo svolgimento di
tutte le operazioni, escludendo così la possibilità che il suo contributo potesse
intendersi – come invece avvenuto, nelle valutazioni della Corte di appello proveniente da un soggetto che poteva non avere udito tutte le frasi pronunciate
in quella circostanza.
La difesa richiama i precedenti della giurisprudenza di legittimità secondo cui
una decisione di secondo grado che riformi una sentenza assolutoria, sia pure ai
soli fini civili, deve offrire una confutazione completa degli elementi posti a
sostegno della prima sentenza, senza limitarsi ad offrire una alternativa
interpretazione del medesimo compendio probatorio, tale da potersi
semplicemente ritenere di maggiore plausibilità.
Nel corso dell’odierna discussione, il difensore dell’imputato ha altresì
evidenziato un profilo di violazione di legge processuale, segnalando che le parti
civili non presentarono comunque conclusioni all’esito del giudizio di secondo
grado.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è fondato.
1.1 In vero, non può convenirsi con la difesa dell’imputato circa la presunta
intangibilità del giudicato, anche agli effetti civili, che sarebbe comunque
conseguente alla mancata impugnazione della sentenza di primo grado in punto
di affermazione (esclusa, per insussistenza del fatto) della responsabilità penale

inammissibilità, di formulare specifiche doglianze di carattere civilistico, senza

del De Gregorio. Nel descrivere la portata applicativa del correlato art. 578 cod.
proc. pen., infatti, le Sezioni Unite di questa Corte hanno diffusamente spiegato
che la norma «non è applicabile allorché appellante o ricorrente sia la parte
civile, alla quale l’art. 576 cod. proc. pen. riconosce il diritto ad una decisione
incondizionata sul merito della propria domanda. L’art. 578 cod. proc. pen. si
riferisce invece al caso in cui l’impugnazione sia dell’imputato o del P.M., e solo
in questa ipotesi richiede che, in presenza di una declaratoria di amnistia o di
prescrizione, per decidere agli effetti civili, vi debba essere stata in precedenza

termini l’art. 576 e l’art. 578 disciplinano situazioni processuali diversificate,
mirando l’art. 578, nonostante la declaratoria della prescrizione, a mantenere, in
assenza di un’impugnazione della parte civile, la cognizione del giudice
dell’impugnazione sulle disposizioni e sui capo della sentenza del precedente
grado che concernono gli interessi civili, mentre l’art. 576 conferisce al giudice
dell’impugnazione il potere di decidere sulla domanda al risarcimento ed alle
restituzioni, pur in mancanza di una precedente statuizione sul punto […]. Il
giudice investito dell’impugnazione della parte civile, contro una sentenza di
assoluzione per gli interessi civili, ripete per intero le sue attribuzioni dall’art.
576 cod. proc. pen.; per la sussistenza di tali attribuzioni […] è irrilevante
un’eventuale simultanea impugnazione ai fini penali, talché una declaratoria di
sopravvenuta prescrizione, esito di questa simultanea impugnazione, in nulla
influisce sulla necessità di pronunziarsi sulla domanda civile. Così il giudice
dell’impugnazione, adito ai sensi dell’art. 576 cod. proc. pen., ha, nei limiti del
devoluto e agli effetti della devoluzione, i poteri che il giudice di primo grado
avrebbe dovuto esercitare. Se si convince che tale giudice ha sbagliato
nell’assolvere l’imputato ben può affermare la responsabilità di costui agli effetti
civili e (come indirettamente conferma il disposto di cui all’art. 622 cod. proc.
pen.) condannarlo al risarcimento o alle restituzioni, in quanto l’accertamento
incidentale equivale virtualmente – oggi per allora – alla condanna di cui all’art.
538 cod. proc. pen., comma 1» (Cass., Sez. U, n. 25083 dell’11/07/2006,
Negri).
1.2 Va parimenti disattesa la doglianza difensiva, espressa solo all’atto della
discussione orale, sul rilievo che le parti civili non avrebbero rassegnato
conclusioni formali all’esito del giudizio di appello: la questione, oltre che tardiva
perché si risolve in un motivo nuovo di censura, del tutto eterogeneo rispetto ai
limiti originari del ricorso, è infatti manifestamente infondata, atteso che «la
mancata presentazione delle conclusioni della parte civile nel giudizio di appello
non integra gli estremi della revoca tacita della costituzione di parte civile di cui
all’art. 82, comma secondo, cod. proc. pen., essendo quest’ultima norma

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una valida pronuncia di condanna alla restituzione o al risarcimento. In altri

applicabile al solo giudizio di primo grado» (Cass., Sez. VI, n. 25012 del
23/05/2013, Leonzio, Rv 257032).
1.3 Deve invece rilevarsi che la Corte di appello di Napoli non risulta avere
tenuto presenti tutti gli elementi posti (dal primo giudice) a fondamento della
decisione assolutoria: J. riguardo, la giurisprudenza di legittimità è oramai
costantemente orientata nel senso che «nel giudizio di appello, per la riforma di
una sentenza assolutoria non basta, in mancanza di elementi sopravvenuti, una
mera e diversa valutazione del materiale probatorio già acquisito in primo grado

caratterizzata da pari o addirittura minore plausibilità rispetto a quella operata
dal primo giudice, occorrendo, invece, una forza persuasiva superiore, tale da far
venir meno ogni ragionevole dubbio» (Cass., Sez. VI, n. 45203 del 22/10/2013,
Paparo, Rv 256869; v. anche Cass., Sez. VI, n. 8705 del 24/01/2013, Farre, Rv
254113, secondo cui «nel giudizio di appello, in assenza di mutamenti del
materiale probatorio acquisito al processo, la riforma della sentenza assolutoria
di primo grado, una volta compiuto il confronto puntuale con la motivazione della
decisione di assoluzione, impone al giudice di argomentare circa la configurabilità
del diverso apprezzamento come l’unico ricostruibile al di là di ogni ragionevole
dubbio, in ragione di evidenti vizi logici o inadeguatezze probatorie che abbiano
minato la permanente sostenibilità del primo giudizio»).
Tanto premesso, deve essere sottolineato che secondo la ricostruzione
offerta dalla Corte territoriale (v. pag. 12 della motivazione della sentenza
impugnata) «le deposizioni dei testi che hanno riferito di “non aver sentito” la
frase minatoria pronunciata dal De Gregorio sono irrilevanti, perché […] tutto si
svolse molto rapidamente, e certamente in qualche momento il Perillo e il De
Gregorio rimasero da soli, tant’è che il secondo gli fece firmare in assenza di altri
il verbale di elezione di domicilio quale persona indagata; del resto appare logico
che chi compie un abuso lo faccia in modo riservato, non alla luce del sole e
platealmente; per altro verso, il fatto che gli altri vigili urbani presenti o il titolare
dell’impresa esecutrice dei lavori non ebbero a percepire alterazione di toni, o
litigi tra i due, dimostra ulteriormente che solo ed esclusivamente il fatto
denunciato e la successiva acquisita consapevolezza di avere subito un abuso
indussero il Perillo a presentare un ricorso al TAR prima, e poi a sporgere
denuncia. Del resto i vigili urbani non hanno nel caso di specie alcuna intrinseca
attendibilità, in quanto se avessero sentito quanto detto dal De Gregorio ne
avrebbero dovuto fare menzione nell’informativa per non incorrere in false
attestazioni per omissione, mentre il De Gregorio era il loro “capo” e quindi si
sono fidati di lui ed hanno firmato l’informativa, disinteressandosi poi del

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ed ivi ritenuto inidoneo a giustificare una pronuncia di colpevolezza, che sia

prosieguo della vicenda (trasmissione degli atti in Procura, mancato sequestro)
agendo su disposizioni del responsabile».
Tali osservazioni, siano o meno plausibili sul piano logico, non tengono conto
di quanto evidenziato poco prima dalla stessa Corte a proposito di uno dei
suddetti testi, vale a dire l’Agente Ciro Senno, indicato a pag. 8 come colui che
non solo aveva sostenuto di avere «un vivido ricordo della natura dei lavori e del
loro stato», ma financo «dichiarato di essere stato sempre a fianco al Ten. De
Gregorio, e di non avere assistito ad alcun tipo di discussione “nella maniera più

assoluta”, anzi tutta l’operazione è avvenuta in serenità che in interventi di
questo tipo è anche piuttosto insolita»; a pag. 10 si ribadisce che «delle persone
presenti al sopralluogo del 9 giugno solo il Serino riferisce di essere stato sempre
insieme al De Gregorio, mentre gli altri si sono limitati a riferire di “non aver
visto o assistito”».

Ergo,

i giudici di appello si palesano chiaramente

consapevoli che almeno uno dei testimoni appartenenti allo stesso ufficio del De
Gregorio non poteva considerarsi un mero astante, ma era stato assai preciso
nel descrivere gli accadimenti di quel giorno e nel rappresentare di essere
rimasto costantemente in compagnia dell’imputato: contributo ricordato in
premessa, ma sostanzialmente dimenticato all’atto della valutazione delle
complessive risultanze dibattimentali.
Nel contempo, la Corte di appello non dà contezza del narrato del teste
Salvatore Costabile (evidenziato invece dal giudice di primo grado): questi,
imprenditore edile che aveva ricevuto l’incarico per i lavori in argomento, riferì
che «il De Gregorio in quell’occasione non proferì alcuna minaccia nei confronti
del proprio committente Perillo Enrico», come scrive il Tribunale, e nei suoi
riguardi non era certamente ipotizzabile quella generica situazione di
condizionamento psicologico adombrata nella sentenza impugnata quanto agli
altri dichiaranti.
Da ultimo, è necessario rilevare che secondo la Corte napoletana la
posizione del coimputato Francesco Crispino (nei cui riguardi la sentenza
assolutoria risulta confermata) sarebbe diversa perché «nel suo caso, a
differenza di quanto registrato per il De Gregorio, non vi è alcun riscontro alla
dichiarazione del Perillo»: tuttavia, dall’esame della motivazione sviluppata
quanto alla posizione precedente non sembra sia dato rinvenire riscontri di sorta
agli assunti della parte civile, salvo avere i giudici dell’appello riconosciuto sul
piano logico al Perillo un’attendibilità negatagli invece dal Tribunale.

2. La sentenza in epigrafe deve pertanto essere annullata, nei termini di cui
al dispositivo, in quanto i principi sopra ricordati – in punto di necessaria
completezza della disamina del giudice di appello sui motivi posti a fondamento
“li
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ali

della decisione riformata – debbono trovare applicazione anche nel caso di
impugnazioni della sola parte civile, essendosi precisato che «è illegittima la
sentenza d’appello che in riforma di quella assolutoria affermi la responsabilità
dell’imputato, sia pure ai soli fini civili, sulla base di una alternativa e non
maggiormente persuasiva interpretazione del medesimo compendio probatorio
utilizzato nel primo grado di giudizio» (Cass., Sez. VI, n. 1514 del 19/12/2012,

P. Q. M.

Annulla la sentenza impugnata, e rinvia al giudice civile competente per valore in
grado di appello.

Così deciso 1’11/12/2014.

Crispi, Rv 253940).

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