Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 38780 del 14/05/2015


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 38780 Anno 2015
Presidente: FRANCO AMEDEO
Relatore: SCARCELLA ALESSIO

SENTENZA

Sul ricorso proposto da:
– BIFFI VINCENZO, n. 31/07/1961 a Bellano

avverso la sentenza della Corte d’Appello di MILANO in data 12/12/2014;
visti gli atti, il provvedimento denunziato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Alessio Scarcella;
udite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. F. Baldi, che ha chiesto l’annullamento con rinvio dell’impugnata
sentenza;
udite, per il ricorrente, le conclusioni dell’Avv. M. Vivenzio, che ha chiesto
accogliersi il ricorso;

Data Udienza: 14/05/2015

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza emessa in data 12/12/2014, depositata in data 18/12/2014, la
Corte d’Appello di MILANO confermava la sentenza emessa in data 22/10/2013,
dal tribunale di MILANO che aveva condannato BIFFI VINCENZO per il reato a lui
ascritto al capo a) della rubrica (artt. 81 cpv., c.p. e 5, d. Igs. n. 74 del 2000:

periodi di imposta 2006, 2007 e 2009, in qualità di rappresentante di fatto della
ditta individuale S.E. IMPEX di Szabò Erika Maria); il medesimo, pertanto, era
stato condannato, con il concorso di attenuanti generiche equivalenti alla recidiva
contestata ed uniti dal vincolo della continuazione i reati ascritti, alla pena di
anni 1 e mesi 4 di reclusione, oltre alle pene accessorie di legge.

2.

Ha proposto ricorso BIFFI VINCENZO a mezzo del difensore fiduciario

cassazionista, impugnando la sentenza predetta con cui deduce due motivi, di
seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173
disp. att. cod. proc. pen.

2.1. Deduce, con il primo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. b), cod. proc.
pen., per inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di ìnutilizzabilità
in relazione alla formazione, all’utilizzo delle dichiarazioni rese nel PVC.
In sintesi, la censura investe l’impugnata sentenza per aver la Corte d’appello
confermato la decisione di condanna del ricorrente attraverso le dichiarazioni
rese da alcuni soggetti nell’ambito di un processo verbale di constatazione, su
cui ha reso dichiarazioni il verbalizzante Basile; sarebbero state violate le
modalità previste dall’art. 220 disp. Att. C.p.p., in quanto erano state svolte
attività ispettive da cui si palesavano indizi di reità, specie in occasione delle
sommarie informazioni assunte in data 16/05/2011, non essendo pertanto state
riconosciute le garanzie di cui all’art. 347 c.p.p.; ciò determinerebbe
l’inutilizzabilità del PVC, vizio che riguarderebbe anche la violazione del divieto di
testimonianza indiretta del verbalizzante sulle dichiarazioni dell’indagato ex art.
62 c.p.p., la cui testimonianza era stata ammessa dal primo giudice, nonostante
l’eccezione sul punto sollevata dalla difesa; il PVC sarebbe poi inutilizzabile per
violazione dell’art. 12 dello Statuto del contribuente, essendo nello specifico stati
superati i limiti dell’autorizzazione concessa per tale accertamento (limitata agli
anni dal 2005 al 2007, ma estesa senza provvedimento anche agli anni 2008 e
2009), nonché per il mancato rispetto dei diritti del soggetto nei cui confronti

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omessa presentazione delle dichiarazioni fiscali IVA e IRPEF relativamente ai

sono successivamente scaturite le indagini, non avendo mail il ricorrente avuto
formale comunicazione dell’espletamento dell’indagine ispettiva né delle ragioni
per cui è stata avviata l’iniziativa, come invece previsto dall’art. 12 citato.

2.2. Deduce, con il secondo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. b) ed e), cod.
proc. pen., per inosservanza o erronea applicazione dell’art. 5, d. Igs. n. 74 del

cod. civ., e correlati vizi di contraddittorietà e illogicità della motivazione in
relazione alle risultanze istruttorie.
In sintesi, la censura investe l’impugnata sentenza per aver la Corte d’appello
omesso di considerare che il reato di cui all’art. 5, d. Igs. n. 74 del 2000, è reato
proprio che può essere commesso solo da coloro la cui posizione soggettiva è
funzionale rispetto alla realizzazione del presupposto di esigibilità dell’imposta;
tale presupposto, si sostiene in ricorso, difetterebe nel caso me same, venendo
invero omessa la valutazione delle prove dedotte dal ricorrente, utili a
dimostrare che questi non rivestisse alcun ruolo riconducibile a quello di
amministratore di fatto ovvero che eserciti in modo continuativo e significativo i
poteri tipici inerenti la qualifica e la funzione; invero, si sostiene, l’elemento
centrale di prova della decisione impugnata è rappresentato dall’aver il ricorrente
personalmente intrattenuto rapporti commerciali con soggetti terzi; detta
affermazione, tuttavia, sarebbe il frutto di un’assoluta omissione valutativa da
parte dei giudici di merito in ordine agli elementi addotti a discarico, con
conseguente carenza di motivazione; i giudici di appello avrebbero minimizzato
le allegazioni documentali relative all’attività di impresa oggetto di verifica,
sebbene inserite nel PVC nonché le evidenze scaturite nel corso del dibattimento
(si evoca, in particolare la prova testimoniale di tale Casartelli e produzioni
documentali non meglio definite), che avrebbero dato conto di una situazione di
fatto opposta a quella sulla quale il giudice ha fondato la propria sentenza; in
particolare la difesa indica quattro elementi che sarebbero stati trascurati dai
giudici di appello e sui quali, comunque, la confutazione delle loro rilevanza
renderebbe viziata la motivazione (la circostanza che Casartelli confermi di aver
consentito alla Szabò, amministratrice di diritto, l’apertura dell’attività
mettendole a disposizione la propria residenza; l’esistenza agli atti di un’istanza
di iscrizione dell’impresa Con allegata copia del documento di identità della
Szabo; la circostanza che quest’ultima aveva ricevuto merce presso il proprio
domicilio in Ungheria per valutare il campionario; la mancanza di qualsiasi
effettuazione di verifiche sulle movimentazioni bancarie); si sostiene, dunque,
che un rapporto di amicizia non sarebbe sufficiente ad assurgere a criterio per
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2000 e erronea qualificazione giuridica del soggetto autore del reato ex art. 2639

ricondurre al ricorrente la volontà di costituire una società, a dimostrarne la
titolarità di fatto ed a renderlo destinatario degli obblighi fiscali penalmente
sanzionati, soprattutto laddove si consideri che mai risulta essere stata messa in
dubbio la riconducibilità della documentazione per l’apertura dell’attività alla
Szabò né che il Casartelli facesse pervenire direttamente alla Szabò la
documentazione recapitata all’indirizzo di Milano, via Bisnati; in ultima analisi, si

capacità di individuare acquisti in stock, a prezzi scontati, dove era possibile
reperire quella marginalità minima da consentire un guadagno sia alla società
che all’azienda della moglie, senza che tale ruolo potesse tuttavia essere
presupposto di una responsabilità penale, individuabile solo a carico del gestore
di fatto, a fronte di un amministratore di diritto-prestanome; nel caso di specie,
dunque, svolgendo il ricorrente solo il ruolo di mero procacciatore di affari, non
sussisterebbe alcuna responsabilità per il reato proprio contestato, nemmeno
potendo supplire il criterio del “trarne vantaggio”, su cui si focalizza la Corte
d’appello; ciò, si sostiene, esorbita dai contenuti dell’art. 2639 cod. civ., ma
anche e soprattutto perché le operazioni poste in essere dalla società sono
risultate veritiere, tant’è che il ricorrente è stato assolto dal delitto frode fiscale;
la sentenza, poi, sarebbe illogica ed infondata in quanto contrasta con un
principio di logica e ragionevolezza, non essendo chiara la ragione per la quale se
fosse vero che il ricorrente avesse svolto il ruolo di amministratore di fatto, allo
scopo di svolgere attività di intermediazione senza effettuare le dichiarazioni
fiscali, per quale ragione avrebbe dovuto coinvolgere la società della moglie;
conclusivamente, in presenza di elementi che denotano l’esistenza di un
amministratore di diritto e che dimostrino la condizione di presentare le relative
dichiarazioni fiscali relative ad operazioni fiscali realmente intervenute, l’attività
di procacciatore di affari non può essere ricompresa tra le qualifiche soggettive
rilevanti ex art. 2639 cod. civ., sicchè la natura dichiarativa del reato contestato,
confliggerebbe con la funzione e qualifica rivestita dal ricorrente, privo di potere
idoneo ad impegnare la società nel rapporto fiscale esterno.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Il ricorso è infondato e dev’essere rigettato.

4. Ed infatti, muovendo dall’esame del primo motivo di ricorso, il ricorrente —
come già ampiamente illustrato in precedenza, svolge censure di violazione di
legge in relazione al disposto dell’art. 220 disp. att. cod. proc. pen. e in relazione
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sottolinea, ciò che il ricorrente aveva posto a disposizione era solo la sua

all’art. 12 dello Statuto del contribuente, lamentandosi del fatto che le
dichiarazioni dei testi, appartenenti alla polizia giudiziaria, riguarderebbero il
contenuto di quanto riferito dall’imputato e consacrato in un processo verbale di
constatazione, dichiarazione quindi rese in sede ispettiva da cui emergevano già
indizi di reità; vi sarebbe stata, dunque, violazione dell’art. 62 cod. proc. pen. in
quanto si tratta di un caso di testimonianza indiretta dei verbalizzanti sulle

medesime.

4.1. Sul punto, va preliminarmente precisato che nessuna argomentazione viene
svolta dalla Corte d’appello, trattandosi quindi di doglianza sollevata per la prima
volta davanti a questa Corte di legittimità.
Ritiene il Collegio che la questione sia priva di pregio, soprattutto alla luce di
un’ormai consolidata giurisprudenza di legittimità che distingue tra rilevabilità ex
officio dell’inutilizzabilità ex art. 191 cod. proc. pen. e inesistenza del dovere del
giudice di ricercare, anche d’ufficio, la prova. Questa stessa Sezione, infatti,
pronunciandosi su vicenda sostanzialmente analoga a quella oggi esaminata, ha
infatti affermato che il processo verbale di constatazione redatto dalla Guardia di
finanza, in quanto atto amministrativo extraprocessuale, costituisce prova
documentale anche nei confronti di soggetti non destinatari della verifica fiscale;
tuttavia, qualora emergano indizi di reato, occorre procedere secondo le
modalità previste dall’art. 220 disp. att., giacchè altrimenti la parte del
documento redatta successivamente a detta emersione non può assumere
efficacia probatoria e, quindi, non è utilizzabile (Sez. 3, n. 6881 del 18/11/2008 dep. 18/02/2009, Ceragioli e altri, Rv. 242523).
E tale inutilizzabilità, ai sensi dell’art. 191 c.p.p., è rilevabile anche di ufficio in
ogni stato e grado del procedimento. Altra cosa è invece l’acquisizione della
documentazione da cui debba desumersi la eventuale inutilizzabilità.
Le Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, n. 45189 del 17/11/2004 – dep.
23/11/2004, P.M. in proc. Esposito, Rv. 229245), hanno affermato il condivisibile
principio che “… Il giudice è indiscutibilmente tenuto a rilevare d’ufficio
l’inutilizzabilità che risulti ex actis, ma non è tenuto a ricercarne, d’ufficio la
prova..” e, con riferimento ai decreti di intercettazione, hanno chiarito che
“…l’onere

di

provare

l’illegalità

del

procedimento

di

ammissione

dell’intercettazione incombe su chi formuli l’eccezione di inutilizzabilità che se ne
vuole desumere, perché per i fatti processuali, a differenza per quanto avviene
per i fatti penali, ciascuna parte ha l’onere di provare quelli che adduce, quando
essi non risultino documentati nel fascicolo degli atti di cui il giudice dispone
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dichiarazioni rese dall’allora indagato con conseguente inutilizzabilità delle

(Cass. sez. 6″, 4 febbraio 1998, Ripa, m. 210378; Cass. sez. 6″, 16 ottobre
1995, Pulvirenti m. 203740)”.
Non c’è dubbio, quindi, che anche in relazione alle questioni rilevabili d’ufficio il
giudice abbia il potere di riconoscere gli “effetti giuridici dei fatti”, ma che
incomba alle parti l’onere di allegazione da esercitare nei tempi e nei modi

4.2. Orbene, come anticipato, secondo la giurisprudenza di questa Corte il
processo verbale di constatazione rientra nella categoria dei documenti
extraprocessuali ricognitivi di natura amministrativa e può, quindi, essere
acquisito ex art. 234 c.p.p. Non è infatti un atto processuale poiché non è
previsto dal codice di rito o dalle norme di attuazione (art. 207); ne’ può essere
qualificato quale “particolare modalità di inoltro della notizia di reato” (art. 221
disp. att.), in quanto i connotati di quest’ultima sono diversi (Sez. 3, n. 4432 del
10/04/1997 – dep. 13/05/1997, Cosentini, Rv. 208030). Correttamente pertanto
i giudici di merito hanno acquisito i processi verbali di constatazione redatti dalla
G.d.F., “trattandosi di documenti acquisibili al dibattimento quali prove
documentali ex art. 234 c.p.p.” ed utilizzabili, in quanto atti amministrativi
extraprocessuali, anche nei confronti di soggetti non destinatari della verifica
fiscale.
È indubitabile che, a norma dell’art. 220 disp. att. c.p.p., quando nel corso di
attività ispettive o di vigilanza previste da leggi o decreti emergano indizi di
reato, gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro
possa servire per l’applicazione della legge penale sono compiuti con
l’osservanza delle disposizioni del codice. Ne deriva, quindi, che la parte di
documento compilata prima dell’insorgere degli indizi, ha sempre efficacia
probatoria ed è utilizzabile, mentre non è tale quella redatta successivamente,
qualora non siano state rispettate le disposizioni del codice di rito (cfr. Cass. sez.
3″ n. 4432/1997 cit.).
Il ricorrente si è limitato, nel caso in esame, ad una generica contestazione in
ordine alla acquisibilità dei verbali di constatazione, senza precisare quali parti di
detti verbali siano state redatte dopo l’insorgere degli indizi di reato; ne’ risulta
(non essendo stato neppure dedotto) che tali parti siano state utilizzate a fini
probatori. È pacifico, invero, che le deduzioni debbano essere specifiche,
altrimenti si versa nella generiCità, con conseguente inammissibilità del motivo.
Infine, neppure è stata dedotta la rilevanza, sull’economia della decisione, del
verbale di constatazione nella parte eventualmente inutilizzabile.

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previsti dal codice di rito.

La “prova di resistenza” deve, comunque ritenersi ampiamente superata sol che
si consideri che i giudici di merito per pervenire all’affermazione di responsabilità
hanno utilizzato, in particolare, la documentazione acquisita, il contenuto delle
dichiarazioni rese al verbalizzante dai clienti e fornitori, le stesse ammissioni
dell’imputato, la testimonianza del M.Ilo Basile.

4.3. Quanto, poi, alla presunta mancata attivazione delle garanzie previste nei
confronti dell’indagato, si richiama quanto già affermato da questa Corte nel
senso che il processo verbale di constatazione redatto dal personale della
Agenzia delle Entrate, per la sua natura di atto amministrativo extraprocessuale,
non presuppone l’obbligo di avvisare il soggetto sottoposto a verifica fiscale della
facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia (Sez. 3, n. 7930 del
30/01/2015 – dep. 23/02/2015, Marchetti e altro, Rv. 262518).

4.4. Quanto, ancora, alla presunta violazione dell’art. 62 cod. proc. pen., si
tratta di eccezione irrilevante nel caso in esame, in quanto se è pur vero che il
divieto di testimonianza sulle dichiarazioni dell’imputato o dell’indagato ed il
connesso divieto di utilizzazione possono trovare applicazione alla testimonianza
resa da un appartenente alla Guardia di Finanza su quanto a lui riferito da
persona nei cui confronti siano emersi, nel corso dell’attività ispettiva, anche
semplici dati indicativi di un fatto apprezzabile come reato e le cui dichiarazioni,
ciononostante, siano state assunte in violazione delle norme poste a garanzia del
diritto di difesa, atteso che il significato dell’espressione

“quando… emergano

indizi di reato” – contenuta nell’art.220 disp. att. cod. proc. pen. e tesa a fissare
il momento a partire dal quale, nell’ipotesi di svolgimento di ispezioni o di attività
di vigilanza, sorge l’obbligo di osservare le disposizioni del codice di procedura
penale per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire ai
fini dell’applicazione della legge penale – deve intendersi nel senso che
presupposto dell’operatività della norma sia non l’insorgenza di una prova
indiretta quale indicata dall’art.192 cod. proc. pen., bensì la sussistenza della
mera possibilità di attribuire comunque rilevanza penale al fatto che emerge
dall’inchiesta amministrativa e nel momento in cui emerge, a prescindere dalla
circostanza che esso possa essere riferito ad una persona determinata (Sez. U,
n. 45477 del 28/11/2001 – dep. 20/12/2001, Raineri, Rv. 220291), è tuttavia
altrettanto vero che nessun divieto sussiste per l’agente accertatore di riferire su
quanto dichiarato da terzi (e non anche dall’indagato, valendo il divieto ex art.
62 cod. proc. pen. solo per chi tale qualità rivesta, anche potenzialmente) nel
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Il motivo si appalesa, dunque, infondato.

corso dell’attività ispettiva, non essendovi dunque alcuna violazione al disposto
dell’art. 195 cod. proc. pen. (e, nel caso in esame, il verbalizzante Basile ha
riferito su quanto dichiaratogli dai clienti e fornitori che nel periodo 2006/2007
avevano intrattenuto rapporti commerciali con l’impresa sottoposta a verifica, i
quali avevano tutti confermato di aver sì avuto rapporti commerciali con detta
impresa, ma di non aver mai conosciuto la Szabò, avendo trattato solo con il

E’ stato, infatti, già affermato da questa Corte che non sussiste il divieto di
testimonianza indiretta degli ufficiali ed agenti di P.G. di cui all’art. 195, comma
quarto, cod. proc. pen. con riguardo alle dichiarazioni ricevute dal pubblico
ufficiale durante l’inchiesta amministrativa dallo stesso effettuata anteriormente
al procedimento penale, difettando in tal caso il necessario presupposto
soggettivo della qualifica di agente od ufficiale di polizia giudiziaria (Sez. 3, n.
3050 del 14/11/2007 – dep. 21/01/2008, Di Girolamo e altri, Rv. 238562).

4.5. Quanto, infine, all’invocata inutilizzabilità per violazione del disposto dell’art.
12 dello Statuto del contribuente (legge n. 212 del 2000), si osserva che tale
ultima disposizione prevede “diritti e garanzie del contribuente sottoposto a
verifiche fiscali”; trattasi di norma, pertanto, applicabile esclusivamente in detta
sede. L’inutilizzabilità cui invece si riferisce l’art. 191 cod. proc. pen. riguarda
l’inutilizzabilità delle prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge
(s’intende, processuale penale). Ed è pacifico che agli elementi raccolti in sede di
accessi ispettivi della Guardia di Finanza non è mai applicabile la disciplina
sull’inutilizzabilità.
Sulla questione, si ricorda infatti che già questa stessa Sezione ha avuto modo di
pronunciarsi affermando che in materia di illeciti tributari gli elementi raccolti
durante gli accessi, le ispezioni e le verifiche compite dalla Guardia di Finanza
per l’accertamento dell’IVA e delle imposte dirette ai sensi dell’art. 52 d.P.R. 26
ottobre 1972 n. 633 e dell’art. 33 del d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600 sono
sempre utilizzabili quale “notitia criminis”. Infatti, a tali accessi non è applicabile
la disciplina prevista dal codice di rito per l’attività di polizia giudiziaria e,
trattandosi di atti amministrativi e non giudiziari, la mancanza o la irregolarità
formale dell’autorizzazione può essere considerata causa di invalidità
dell’accertamento fiscale, ma non riverbera i suoi effetti sull’accertamento penale
(Sez. 3, n. 11307 del 11/10/1995 – dep. 22/11/1995, Pariani, Rv. 202943; v., in
senso conforme: Sez. 3, n. 12017 del 07/02/2007 – dep. 22/03/2007, Monni,
Rv. 235927; Sez. 3, n. 1668 del 03/12/1997 – dep. 11/02/1998, Riberti, Rv.
209572).

Biffi: v., dichiarazioni rese da Gingillo, Brega e Valsecchi).

5. Non miglior sorte merita il secondo motivo di ricorso, con cui vengono svolte
censure di violazione di legge e vizio motivazionale con riferimento all’art. 5, d.
Igs. n. 74 del 2000 e all’art. 2639 cod. civ.

5.1. La Corte d’appello, sul punto, chiarisce le ragioni per le quali il ricorrente

elementi indiziari a sostegno, costituiti dalle dichiarazioni dei testi (Basile,
Gingillo, Valsecchi e Raimondi) nonché dei documenti acquisiti e, soprattutto,
delle dichiarazioni rese in dibattimento dall’imputato che aveva ammesso di aver
sostanzialmente gestito personalmente l’impresa in questione; non rileva, sul
punto, la circostanza — anche perché costituisce una labiale affermazione del
ricorrente, oltre che comportando un apprezzamento di fatto inibito a questo
giudice di legittimità — di essersi limitato ad avvisare la Szabò degli obblighi
fiscali, indicandole il proprio commercialista, atteso che, essendo questi il
dominus della società ed essendo palese la fittizietà dell’intestazione a soggetto
straniero della società medesima, era evidentemente attribuibile al ricorrente in
via esclusiva la responsabilità per il mancato adempimento degli obblighi
tributari sub a); del resto, si osserva, la giurisprudenza di questa Corte ammette
pacificamente la responsabilità per il delitto di cui all’art. 5, d. Igs. n. 74 del 2000
anche nei confronti dell’amministratore di fatto.
Si è, infatti, affermato che il reato di omessa presentazione della dichiarazione ai
fini delle imposte dirette o IVA (art. 5, D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74) è
configurabile nei confronti dell’amministratore di diritto di una società e
l’amministratore di fatto, quale mero prestanome, risponde a titolo di concorso
per omesso impedimento dell’evento (artt. 40, comma secondo, cod. pen. e
2932 cod. civ.), a condizione che ricorra l’elemento soggettivo richiesto dalla
norma incriminatrice (Sez. 3, n. 23425 del 28/04/2011 – dep. 10/06/2011,
Ceravolo, Rv. 250962).

5.2. Tale questione merita un approfondimento.
La tesi difensiva, infatti, è giuridicamente erronea perché non tiene conto sia del
consolidato indirizzo di questa Corte in materia di amministratore di fatto che
degli orientamenti della dottrina nonché di esplicite disposizioni normative.
Invero la dottrina e la giurisprudenza, in presenza di situazioni come quella in
esame ossia in presenza di prestanomi, hanno sempre ritenuto irrilevante
l’etichetta per privilegiare il concreto espletamento della funzione. Tale
orientamento costituisce il recepimento sul piano positivo del cosiddetto criterio
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era da considerarsi l’amministratore di fatto della società, illustrando una serie di

funzionalistico o dell’effettività in forza del quale il dato fattuale della gestione
sociale deve prevalere sulla qualifica formalmente rivestita ovviamente quando
alla qualifica non corrisponda l’effettivo svolgimento delle funzioni proprie della
qualifica, come avvenuto nella fattispecie.
L’equiparazione degli amministratori di fatto a quelli formalmente investiti è
stato affermata da questa Corte sia nella materia civile che in quella penale e

marzo 2008, n. 6719; Sez. un. civile 18 ottobre 2005 n. 2013; in quella penale,
per tutte: Cass. 7203 del 2008, Cass. n. 9097 del 1993 e, per le violazioni
tributarie, cfr. Cass. Sez. trib., n. 21757 del 2005 nonchè Cass. pen. n. 2485 del
1995).
Limitando l’indagine alla responsabilità dell’amministratore di fatto nei reati
omissivi propri formalmente imputabili al prestanome, la prospettiva dalla quale
muove il ricorrente deve essere capovolta nel senso che, in base ai principi dianzi
esposti, il vero soggetto qualificato non è il prestanome ma colui il quale
effettivamente gestisce la società perché solo lui è in condizione di compiere
l’azione dovuta, mentre l’estraneo è il prestanome. A quest’ultimo una
corresponsabilità può essere imputata solo in base alla posizione di garanzia di
cui all’art. 2392 cod. civ., in forza della quale l’amministratore deve conservare il
patrimonio sociale ed impedire che si verifichino danni per la società e per i terzi.
Nelle occasioni in cui questa Corte si è occupata di reati, anche omissivi,
commessi in nome e per conto della società, ha individuato nell’amministratore
di fatto il soggetto attivo del reato e nel prestanome il concorrente per non avere
impedito l’evento che in base alla norma citata aveva il dovere di impedire.
Proprio perché il più delle volte il prestanome non ha alcun potere d’ingerenza
nella gestione della società per addebitargli il concorso, questa Corte ha fatto
ricorso alla figura del dolo eventuale; si è sostenuto cioè che il prestanome
accettando la carica ha anche accettato i rischi connessi a tale carica (cfr. Cass.
26 gennaio 2006, n. 7208; Cass. 6 aprile 2006, n. 22919, Cass. 26 novembre
1999, Dragomir, Rv 215199). Si può discutere se ed entro quali limiti la mera
assunzione della carica possa giustificare l’affermazione di responsabilità anche
del prestanome, ma è fuori discussione che l’autore principale è colui che, sia
pure di fatto, ha l’amministrazione della società. Con specifico riferimento al
reato in esame, si deve rilevare che, a norma del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 1 i
soggetti obbligati alla presentazione della dichiarazione sono tutti i soggetti che
possiedono redditi anche se non consegue alcun debito d’imposta e coloro che
sono obbligati alla tenuta delle scritture contabili. In base al D.P.R. n. 322 del
1998, art. 1, comma 4, la dichiarazione dei soggetti diversi dalle persone fisiche
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tributaria (Cfr., nella materia civile: Cass. 5 dicembre del 2008 n. 28819; 12

è sottoscritta a pena di nullità dal rappresentante legale e, in mancanza, da chi
ne ha l’amministrazione, anche di fatto, o da un rappresentante negoziale. Il
rappresentante legale si deve considerare mancante, non solo quando manca la
nomina, ma anche in presenza di un prestanome che non ha alcun potere o
ingerenza nella gestione della società e, quindi, non è in condizione di presentare
la dichiarazione perché non dispone dei documenti contabili detenuti

fatto, ha l’amministrazione della società mentre al prestanome il fatto potrebbe
essergli addebitato a titolo di concorso a norma dell’art. 2392 c.c. e art. 40 cpv.
c.p. a condizione che ricorra l’elemento soggettivo proprio del singolo reato.
Tale principio si riscontra anche in materia di sanzioni amministrative tributarie.
Il D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 11 parifica il legale rappresentante
all’amministratore di fatto sancendo formalmente la diretta responsabilità per le
sanzioni anche degli amministratori di fatto.
Il principio dell’equiparazione dell’amministratore di fatto a quello di diritto è
stato recentemente recepito dal legislatore in occasione della riforma del diritto
societario. Dispone l’art. 2639 c.c., introdotto con il D.Lgs. n. 6 del 2003, che per
i reati societari previsti dal titolo quindicesimo del libro quinto del codice civile al
soggetto formalmente investito della qualifica o titolare della funzione prevista
dalla legge è equiparato chi esercita in materia continuativa i poteri previsti dalle
legge. La norma, ancorché riferita esplicitamente ai reati societari previsti dal
codice civile, contiene la codificazione di un principio generale applicabile ad altri
settori penali dell’ordinamento e per la sua natura interpretativa è applicabile
anche ai fatti pregressi (sull’applicabilità ai fatti pregressi cfr. in motivazione
Cass. n. 7203 del 2008). Tale principio incide non solo sulla configurabilità del
concorso dell’amministratore di fatto nei reati commissivi, ma anche in quelli
omissivi propri, nel senso che autore principale del reato è proprio
l’amministratore di fatto, salva la partecipazione di estranei all’amministrazione
secondo le regole del concorso di persone nel reato.
Sulla base della considerazioni dianzi svolte appare palese che la tesi del
ricorrente, secondo il quale l’amministratore di fatto non potrebbe rispondere del
reato in questione ne’ come autore diretto nè come concorrente, è palesemente
infondata perché in contrasto con orientamenti consolidati della dottrina e della
giurisprudenza e con lo stesso dettato normativo.

5.3. Quanto, poi, alla presunta veste di procacciatore d’affari ed alle presunte
omissioni valutative in cui sarebbe incorsa la Corte d’appello nel non considerare
o sottovalutare le argomentazioni difensive, trattasi di un chiaro tentativo del
11

dall’amministratore di fatto. In tale situazione l’intraneo è colui che, sia pure di

ricorrente di far svolgere a questa Corte un ennesimo sindacato di merito,
operazione inibita tuttavia in questa sede di legittimità, trattandosi di
manifestazione di critica e dissenso rispetto alla ricostruzione dei fatti ed alla
valutazione del compendio probatorio operata dai giudici territoriali (a tacer
d’altro, del resto, si osserva che la veste di procacciatore d’affari è stata
smentita dalle stesse risultanze dibattimentali e dalle dichiarazioni del ricorrente

5.4. Sul punto non va dimenticato, da un lato, che l’indagine di legittimità sul
discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il
sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato – per espressa
volontà del legislatore – a riscontrare l’esistenza di un logico apparato
argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di
verificare l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è
avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle
acquisizioni processuali. Esula, infatti, dai poteri della Corte di cassazione quello
di una “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui
valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa
integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il
ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. U, n. 6402
del 30/04/1997 – dep. 02/07/1997, Dessimone e altri, Rv. 207944; Sez. U, n. 24
del 24/11/1999 – dep. 16/12/1999, Spina, Rv. 214794, quanto ai limiti di
deducibilità del vizio di illogicità della motivazione; Sez. U, n. 47289 del
24/09/2003 – dep. 10/12/2003, Petrella, Rv. 226074). A ciò, poi, si aggiunga
che gli accertamenti (giudizio ricostruttivo dei fatti) e gli apprezzamenti (giudizio
valutativo dei fatti) cui il giudice del merito sia pervenuto attraverso l’esame
delle prove, sorretto da adeguata motivazione esente da errori logici e giuridici,
sono sottratti al Sindacato di legittimità e non possono essere investiti dalla
censura di difetto o contraddittorietà della motivazione solo perché contrari agli
assunti del ricorrente; ne consegue che tra le doglianze proponibili quali mezzi di
ricorso, ai sensi dell’art. 606 cod. proc. pen., non rientrano quelle relative alla
valutazione delle prove, specie se implicanti la soluzione di contrasti testimoniali,
la scelta tra divergenti versioni ed interpretazioni, l’indagine sull’attendibilità dei
testimoni e sulle risultanze peritali, salvo il controllo estrinseco della congruità e
logicità della motivazione (Sez. 4, n. 87 del 27/09/1989 – dep. 11/01/1990,
Bianchesi, Rv. 182961).
Controllo, nella specie, agevolmente superato dalla sentenza impugnata.

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che si è dichiarato gestore di fatto della società).

5.5. A ciò, poi, deve essere aggiunto che la asserita mancata valutazione delle
prove a discarico non inficia il costrutto motivazionale dell’impugnata sentenza,
dovendosi qui ricordare che in tema di giudizio di appello, il giudice non è tenuto
a prendere in considerazione ogni argomentazione proposta dalle parti, essendo
sufficiente che egli indichi le ragioni che sorreggono la decisione adottata,
dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo; ne’ la ipotizzabilità di
una diversa valutazione delle medesime risultanze processuali costituisce vizio di
motivazione, valutabile in sede di legittimità (Sez. 5, n. 7588 del 06/05/1999 dep. 11/06/1999, Duri F ed altri, Rv. 213630; fattispecie nella quale la Corte ha
rigettato il ricorso dell’imputato che aveva denunziato vizio di motivazione della
sentenza di secondo grado, assumendo che il giudice di appello aveva recepito
acriticamente le conclusioni di quello di primo grado, trascurando le ragioni della
difesa e non esaminando specificamente le dichiarazioni degli imputati e quelle
dei testi a discarico; v. da ultimo, autorevolmente, Sez. U, n. 33451 del
29/05/2014 – dep. 29/07/2014, Repaci e altri, Rv. 260246, in cui la Corte ha
ribadito che non può essere proposta come vizio di motivazione mancante o
apparente la deduzione di sottovalutazione di argomenti difensivi che, in realtà,
siano stati presi in considerazione dal giudice o comunque risultino assorbiti dalle
argomentazioni poste a fondamento del provvedimento impugnato).

6. Il ricorso dev’essere, conclusivamente, rigettato. Segue, a norma dell’articolo
616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del
procedimento.

7. Solo per completezza, deve qui essere evidenziato che il reato per cui si
procede non è ancora prescritto. Ed infatti, in relazione ai fatti di più remota
contestazione, risalenti al 1/01/2005, il termine di prescrizione maturerà solo in
data 26/08/2015; ed infatti, al termine di prescrizione massima, individuato al
30/04/2015, vanno aggiunti due periodi di sospensione del termine di
prescrizione (dal 18/07 al 4/10/2013, per rinvio del processo motivata
dall’adesione

del

difensore

all’astensione

proclamata

dalla

categoria

professionale di appartenenza; dal 4/10 all’11/10/2013, a seguito di richiesta di
rinvio della difesa), che comportano l’individuazione del termine finale di
prescrizione alla data del 26/08/2015, successiva alla sentenza di questa Corte.

P.Q.M.

13

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
Così deciso in Roma, nella sede della S.C. di Cessazione, il 14/05/2015

o

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