Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 38704 del 31/01/2013


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 38704 Anno 2013
Presidente: BARDOVAGNI PAOLO
Relatore: TARDIO ANGELA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
GUIZZETT1 RAFFAELE, nato il 15/03/1979
avverso la sentenza n. 238/2010 CORTE APPELLO di TRENTO,
SEZIONE DISTACCATA di BOLZANO, del 12/01/2012;

sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. Angela Tardio;
udito il Procuratore Generale, in persona del Dott. Sante Spinaci,
che ha chiesto rigettarsi il ricorso;
preso atto che nessuno è comparso per il ricorrente.

Data Udienza: 31/01/2013

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 6 luglio 2010 il Tribunale di Bolzano – sezione
distaccata di Silandro ha assolto Guizzetti Raffaele dal reato di cui all’art. 22,
comma 12, d.lgs. n. 26 del 1998, contestatogli per avere, nella sua qualità di
titolare della omonima ditta individuale, occupato illegalmente alle proprie
dipendenze un cittadino albanese, privo del permesso di soggiorno, per non

2. La Corte d’appello di Trento – sezione distaccata di Bolzano con sentenza
del 12 gennaio 2012, in accoglimento dell’appello proposto dal Procuratore
Generale e in totale riforma della sentenza appellata, ha dichiarato l’imputato
responsabile del reato ascrittogli e, previa concessione delle attenuanti
generiche, l’ha condannato alla pena di mesi due di arresto ed euro quattromila
di ammenda.
Secondo la Corte, non vi erano dubbi in ordine alla materialità del fatto,
poiché la circostanza che il cittadino albanese aveva lavorato alle dipendenze
dell’imputato, riferita dal teste Pasero Davis, era stata ammessa dallo stesso
imputato, a cui carico era l’onere di accertare il possesso da parte del lavoratore
dei requisiti per essere assunto. Alla omissione di tale doveroso controllo
conseguiva che il comportamento tenuto dal medesimo era affetto da dolo e non
da colpa, contrariamente a quanto ritenuto in primo grado.
Sotto il profilo giuridico, la trasformazione della fattispecie di reato da
contravvenzione a delitto e la sua punizione con la pena della reclusione e della
multa, in luogo di quella dell’arresto e dell’ammenda, ai sensi della legge n. 125
del 2008 (che aveva convertito, con modificazioni, il d.l. n. 92 del 2008),
rappresentava una innegabile continuità normativa, comportante la permanenza
della punibilità e, ai sensi dell’art. 2 cod. pen., l’applicazione della sanzione
prevista al momento del fatto.

3. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’imputato con
il ministero del suo difensore, chiedendone l’annullamento sulla base di unico
motivo, con il quale denuncia, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod.
proc. pen., erronea applicazione della legge penale e contraddittorietà e/o
manifesta illogicità della motivazione.
3.1. Secondo il ricorrente, la Corte d’appello, nel riformare la sentenza di
primo grado, ha erroneamente applicato l’art. 2 cod. pen., perché non ha
riconosciuto e non ha applicato le conseguenze della, invece, verificatasi abolitio
criminis, la stessa emergendo da un’analisi dei rapporti strutturali tra i modelli
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essere il fatto come accertato previsto dalla legge come reato.

astratti di reato, e in particolare dalla eliminazione della qualificazione di illiceità
per i comportamenti già puniti a titolo di colpa e dalla introduzione di diversa
fattispecie punita solo a titolo di dolo.
Né la Corte, ad avviso del ricorrente, ha spiegato come ha stabilito che si è
in presenza di una continuità normativa, che ha, invece, affermato come
petizione di principio e in modo contraddittorio, avendo ritenuto di ravvisare un
comportamento doloso nella omissione del controllo sui requisiti per l’assunzione
del lavoratore, senza fornire la prova della intenzionalità e volontà di esso

dell’assunzione, mentre, secondo la dottrina tedesca, cui si è richiamato il primo
Giudice, i reati dolosi e colposi sono strutturalmente distinti e autonomi e,
costituendo il dolo e la colpa elementi soggettivi della fattispecie, il venir meno
della colpa modifica anche sotto il profilo oggettivo la struttura del reato.
3.2. In via subordinata, secondo il ricorrente, il suo comportamento è da
ritenere scusabile, per non essersi egli rappresentato né aver voluto gli elementi
costitutivi del reato ex art. 47 cod. pen. e per essere, caso mai, probabile che
egli sia incorso in errore nella valutazione della regolarità del lavoratore.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è infondato.

2. A norma dell’art. 22, comma 12, d.lgs. n. 286 del 1998, vigente all’epoca
del fatto, accertato il 15 febbraio 2008, “il datore di lavoro che occupa alle
proprie dipendenze lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno previsto
dal presente articolo, ovvero il cui permesso sia scaduto, revocato o annullato, è
punito … “. Su tale punto specifico nessuna modifica è stata apportata nella
descrizione della condotta dall’attuale art. 22, comma 12, come novellato
dall’art. art. 5, comma 1-ter, d.l. n. 92 del 2008, aggiunto dalla relativa legge di
conversione n. 125 del 2008.
Alla luce di tale previsione normativa l’occupazione quale lavoratore
dipendente, a tempo determinato o indeterminato, di un cittadino
extracomunitario è legittima soltanto se quest’ultimo è titolare di un permesso di
soggiorno a fini lavorativi, che, validamente rilasciato, deve coprire l’intera
durata del rapporto, con la sola (apparente) eccezione relativa alla situazione di
permesso lavorativo scaduto per il quale sia stata tempestivamente avanzata
richiesta di rinnovo.
2.1. Con l’indicata modifica normativa, il reato previsto dall’art. 22, comma
12, d.lgs. n. 286 del 1998, ascritto al ricorrente, è stato tuttavia trasformato da
contravvenzione in delitto, essendo stata sostituita la sanzione dell’arresto da tre

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ricorrente di disattendere le disposizioni sui controlli dovuti al momento

mesi a un anno e dell’ammenda di euro cinquemila per ogni lavoratore impiegato
con la più grave sanzione della reclusione da sei mesi a tre anni e della multa di
euro cinquemila sempre per ogni lavoratore impiegato, a ciò conseguendo che, ai
sensi dell’art. 42, comma 2, cod. pen., poiché nulla di diverso ha previsto la
norma incriminatrice, il fatto, già punito indifferentemente a titolo doloso o
colposo, è ora punito solo se commesso con dolo, e che, dovendo anche il fatto
anteriore (ferma la sanzione più mite) partecipare, ai sensi dell’art. 2, comma 4,
cod. pen., della nuova disciplina, l’elemento soggettivo per la sua punibilità deve

2.2. Questa Corte ha più volte affermato che, atteso il contenuto della detta
norma, la sussistenza del reato è esclusa solamente dalla regolare presenza in
Italia dello straniero, che è onere del datore di lavoro verificare
indipendentemente dalle asserzioni e aspettative di colui al quale viene data
occupazione (Sez. 1, n. 37409 del 25/10/06, dep. 13/11/2006, Grimaldi, Rv.
235083; Sez. 1, n. 25990 del 17/06/2010, dep. 08/07/2010, Tattoli, Rv.
247984), e che il concetto di occupazione che figura nella detta norma si riferisce
alla instaurazione di un rapporto di lavoro che già di per sé integra gli estremi di
una condotta antigiuridica, qualora il soggetto assunto sia un cittadino
extracomunitario privo del citato permesso, indipendentemente da qualunque
delimitazione temporale dell’attività in questione (Sez. 1, n. 15463 del
26/03/2008, dep. 14/04/2008, P.M. in proc. Zhao, Rv. 239618).
Se, quindi, il datore di lavoro è tenuto ad accertare la regolare presenza del
lavoratore sul territorio italiano per la regolare, e legittima, sua assunzione e/
occupazione come lavoratore, è coerente ai parametri di adeguatezza e logicità
della motivazione la ricostruzione dell’elemento soggettivo, operata dalla Corte di
merito in termini di dolo, della condotta, tenuta dall’imputato, di occupazione alle
proprie dipendenze di un cittadino straniero, la cui permanenza irregolare nel
territorio dello Stato doveva formare oggetto di un suo positivo accertamento,
omettendo tale doverosa verifica, ed è corretta l’affermazione in diritto,
contenuta nella sentenza impugnata, della permanenza della punibilità della
fattispecie, pur nella sua intervenuta modifica normativa, dopo la commissione
del fatto (accertato il 15 febbraio 2008), da contravvenzione a delitto e nella
necessaria applicazione della sanzione già prevista per la prima, e non di quella
sopravvenuta per il secondo.
2.3. Tali rilievi, esenti da vizi logici e giuridici resistono alle censure
difensive, che, esprimendo un diffuso dissenso rispetto alla operata
interpretazione delle risultanze processuali e alle svolte valutazioni in diritto,
sono infondatamente incentrate, pur dopo l’affermazione che il reato
contravvenzionale è punibile, quanto al profilo soggettivo, sia a titolo di dolo che
di colpa, sulla eterogeneità degli elementi strutturali dei reati, puniti
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essere accertato nelle forme del dolo.

rispettivamente a titolo contravvenzionale dal d.lgs. n. 286 del 1998 e come
delitto dal d.l. n. 92 del 2008, omettendo di correlarsi con l’iter argomentativo
della decisione, che è pervenuta alla considerazione conclusiva della ritenuta
continuità normativa movendo dalla considerazione della natura dolosa del
comportamento del ricorrente, integrato pertanto sul piano soggettivo dal
medesimo elemento psicologico richiesto dalla vecchia e dalla nuova normativa.
Né hanno alcuna fondatezza le deduzioni difensive, che attengono alla
ontologica riconducibilità del comportamento omissivo a negligenza o a

alle relative sanzioni”, poiché genericamente espresse non solo in contrasto con
gli articolati principi affermati dalla giurisprudenza di questa Corte in tema di
reati omissivi, ma soprattutto con la ricostruzione fattuale della condotta del
ricorrente di volontaria assunzione e/o occupazione alle proprie dipendenze di un
cittadino straniero, assistita dal doloso mancato accertamento del possesso da
parte dello stesso, assumendo e poi assunto, dei requisiti per la sua assunzione
e/o occupazione.
2.3. La tesi dell’errore sugli elementi costitutivi del reato ex art. 47 cod.
pen., peraltro preclusa in questa sede perché mai dedotta ed esaminata nella
competente sede del merito, è inammissibile perché del tutto generica e priva di
alcun riferimento a elementi, acquisiti agli atti e allegati e/o illustrati, che
possano conferire alcuna specificità alle svolte deduzioni.

3. Il ricorso deve essere, pertanto, rigettato, con condanna del ricorrente al
pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
Così deciso in Roma, il 31 gennaio 2013

Il Consigliere estensore

Il Presidente

imprudenza, e non a “coscienza e volontà di disattendere le norme e di esporsi

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