Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 38700 del 10/01/2013


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 38700 Anno 2013
Presidente: BARDOVAGNI PAOLO
Relatore: TARDIO ANGELA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
MEZZO PAOLO, nato il 26/02/1973
avverso la sentenza n. 5/2011 CORTE ASSISE APPELLO di TORINO,
del 07/11/2011;

visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in pubblica udienza del 10/01/2013 la relazione fatta dal
Consigliere dott. Angela Tardio;
udito il Procuratore Generale in persona del dott. Gabriele Mazzotta,
che ha concluso chiedendo dichiararsi la inammissibilità del ricorso;
udito per il ricorrente l’avv. Ferdinando Ferrero, che ha chiesto
l’accoglimento dei motivi del ricorso.

Data Udienza: 10/01/2013

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 14 febbraio 2011 il G.u.p. del Tribunale di Ivrea,
all’esito del giudizio abbreviato, ha dichiarato Mezzo Paolo colpevole del reato di
omicidio volontario in danno di Alberione Stefano, colpito più volte al torace con
un coltello da cucina, cagionandone la morte, e del reato di tentato omicidio in
danno del fratello Mezzo Davide Andrea, colpito più volte al torace e agli arti con

emorragico, ferite da taglio all’avambraccio destro e ferita alla superficie volare
del gomito sinistro, commessi il 21 luglio 2010, per futili motivi, nel corso di una
discussione con le parti lese, che lo avevano rimproverato per essere senza
lavoro, e l’ha condannato, unificati i reati sotto il vincolo della continuazione,
concesse le attenuanti generiche, equivalenti alla contestata aggravante, e
applicata la riduzione per il rito, alla pena di anni diciotto di reclusione, con
interdizione perpetua dai pubblici uffici e legale per la durata della pena, nonché
al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile.

2. Con sentenza del 7 novembre 2011 la Corte d’assise d’appello di Torino,
in parziale accoglimento dell’appello proposto dall’imputato, ha escluso
l’aggravante di avere agito per futili motivi e ha ridotto la pena ad anni
quattordici e mesi e mesi otto di reclusione.

3. Da entrambe le decisioni di merito emergeva che:
– alle ore 19,25 circa del 21 luglio 2010, a seguito di richiesta telefonica,
personale del 118 era intervenuto nella casa di abitazione della famiglia Mezzo,
constatando la presenza di due persone gravemente ferite con strumento da
punta e da taglio, identificate in Alberione Stefano di anni settanta e Mezzo
Davide Andrea di anni quarantatré, che venivano trasportate in ospedale,
decedendo la prima alle ore 22,24 circa dello stesso giorno;
– ai Carabinieri subito intervenuti Mezzo Paolo aveva spontaneamente
riferito di avere litigato con il fratello e con Alberione Stefano, compagno della
madre deceduta nel 2002, e di averli colpiti con un coltello da cucina con lama di
ventidue cm., che indicava riposto su un mobile della cucina e insanguinato,
aggiungendo di avere da tempo diverbi con i predetti che lo riprendevano per la
sua inattività;
– Mezzo Paolo aveva reso ulteriori dichiarazioni spontanee quella sera stessa
negli uffici della Stazione dei Carabinieri di Cuorgné, aggiungendo particolari
relativi al suo stato familiare e al costante comportamento ostile tenuto in
famiglia nei suoi confronti dopo la morte della madre e soprattutto dopo la sua
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lo stesso coltello, cagionandogli ferita penetrante all’emitorace destro con shock

separazione coniugale, mentre dinanzi al G.i.p. all’udienza di convalida del suo
arresto si era avvalso della facoltà di non rispondere;
– ulteriori elementi probatori venivano dati dai rilievi fotografici all’interno
dell’abitazione, dalle dichiarazioni delle persone informate sui fatti, Rat Mirko e
Cascino Francesco, e dei volontari della Croce Bianca, Donna Delia Angela e
Arcuri Antonio, e dagli esiti della relazione autoptica e degli accertamenti tecnici
sulle lesioni riportate da Mezzo Davide Andrea;
– la consulenza medico-psichiatrica, svolta sull’imputato su incarico del

momento del fatto e la capacità di stare in giudizio, aveva accertato, sulla scorta
del diario clinico della Casa circondariale di Ivrea, dell’esame clinico, dei colloqui
avuti in carcere e dei risultati dei test somministrati, che l’imputato non era
affetto da alcuno stato psicopatologico obiettivabile, mentre i comportamenti
connotati da tratti di impulsività erano ininfluenti ai fini della criminogenesi,
aveva escluso che il medesimo si trovasse al momento dei fatti contestati in
stato di totale e anche parziale incapacità di intendere e di volere, e aveva
confermato la sua capacità di stare in giudizio;
– allo svolgimento di una perizia psichiatrica era stata anche subordinata la
prima richiesta di giudizio abbreviato condizionato, rigettata per non essere la
richiesta integrazione probatoria compatibile con le finalità di economia
processuale del giudizio abbreviato e necessaria ai fini della decisione,
accogliendosi l’ulteriore istanza di giudizio abbreviato non condizionato.
3.1. Il G.u.p., che riteneva non dubitabile l’affermazione della responsabilità
penale dell’imputato in ordine a entrambi i delitti ascritti e corretta la
qualificazione giuridica dei fatti operata dal Pubblico Ministero, considerava non
accoglibile la richiesta di perizia psichiatrica sull’imputato, in assenza di
documentazione e denuncia di episodi critici prima e dopo la commissione dei
fatti e alla luce delle conclusioni della consulenza del Pubblico Ministero e della
relazione psicologica della Casa circondariale, e riteneva correttamente
contestata l’aggravante dei futili motivi, non concedibile l’attenuante della
provocazione e concedibili le circostanze attenuanti generiche.
3.2. La Corte d’assise d’appello, che illustrava diffusamente i motivi di
appello dell’imputato, richiamava, confermandola, l’ordinanza del 26 ottobre
2011 con la quale era stata rigettata l’istanza preliminare della difesa di
ammissione della perizia psichiatrica; escludeva, evocando i principi di diritto
fissati da questa Corte e analizzando i dati concreti del caso tratti dalle
dichiarazioni dei testi Cascino Francesco e Rat Mirko, non contrastate da quelle
reticenti sul punto della parte lesa, la configurabilità dell’aggravante dei futili
motivi, sulla base del rilievo che, dato lo stato di estrema tensione dei rapporti
familiari, lo stimolo che aveva spinto l’imputato ai fatti delittuosi non poteva

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Pubblico Ministero dal dott. Giorgio D’Albo per verificarne lo stato di mente al

qualificarsi futile, e quindi inconsistente, lieve o banale; rigettava la richiesta
difensiva di riconoscere la provocazione, mancando i presupposti di cui all’art. 62
n. 2 cod. pen. e, in particolare, il requisito del fatto ingiusto altrui, tale non
potendo ritenersi gli allegati rimproveri verbali provenienti da membri della
famiglia e volti a scuotere l’imputato dalla indolenza in cui si era rifugiato;
rideterminava il trattamento sanzionatorio diminuendo la pena base fissata in
anni ventitrè in relazione al reato più grave, che confermava, per le attenuanti

4. Mezzo Paolo ha proposto ricorso per cassazione, per mezzo del proprio
difensore di fiducia, avverso l’ordinanza reiettiva della istanza preliminare
concernente l’ammissione di perizia psichiatrica, volta ad accertare la sua
capacità di intendere e di volere al momento del fatto, e avverso la sentenza,
deducendo due motivi.
4.1. Con il primo motivo, relativo alla indicata ordinanza, il ricorrente
deduce violazione di legge, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) e d), cod.
proc. pen., in relazione agli artt. 441, comma 5, 603 e 70 cod. proc. pen.
Secondo il ricorrente, la Corte d’assise d’appello, nel rigettare la richiesta di
ammissione di perizia psichiatrica, già proposta in primo grado e con i motivi di
impugnazione avverso la sentenza di primo grado, si è limitata a parafrasare la
motivazione sul punto del primo Giudice, evidenziando contraddizioni e illogicità
nella motivazione nel ritenere inammissibile la richiesta, pur dando atto delle
emergenze della consulenza del Pubblico Ministero che aveva evidenziato la
presenza di turbe caratteriali.
In tal modo sono stati violati gli artt. 603 e 70 cod. proc. pen. con
particolare riferimento alla mancata assunzione di una prova decisiva,
quantomeno sotto il profilo della quantificazione della pena.
4.2. Con il secondo motivo riguardante la sentenza impugnata, il ricorrente
deduce violazione di legge e vizio della motivazione, ai sensi dell’art. 606,
comma 1, lett. b), c) ed e), cod. proc. pen., in relazione al disposto di cui all’art.
62 n. 2 cod. pen.
Secondo il ricorrente, la sentenza, nell’escludere, dopo aver sentito ex officio
il teste-persona offesa-parte civile Mezzo Davide, l’attenuante della provocazione
sulla base della rilevata carenza del requisito del fatto ingiusto, è caduta in
contraddizione, come emerge dal raffronto delle ragioni argomentate svolte con
quanto motivato per escludere l’aggravante dei futili motivi.
La Corte di merito, che ha ritenuto reticente la parte lesa Mezzo Davide
Andrea, quando ha limitato i contrasti ai soli rapporti tra il fratello e il patrigno e
ha negato che il giorno del fatto vi era stato un litigio per essere stato il fratello
solo invitato a non tagliare molto pane, e ha affermato, a fondamento della
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generiche non più bilanciate con la esclusa aggravante dei futili motivi.

disposta esclusione dell’aggravante dei futili motivi, che le dinamiche emotive in
ambito familiare tendono ad amplificarsi, ha, invece, rilevato – nel rigettare la
richiesta di riconoscimento della provocazione – che gli asseriti rimproveri verbali
non possono costituire un fatto ingiusto per essere evidente, in ambito familiare,
la loro motivazione per scuotere e non per ferire il congiunto indolente.
Né, ad avviso del ricorrente, la Corte ha considerato che il teste Cascino ha
riferito che esso ricorrente ha detto all’Alberione, steso a terra gravemente
ferito, di stare zitto per avere litigato con il fratello per colpa sua, e che tale fatto

diverbio, instauratosi in contesto familiare a causa dei rimproveri rivolti dai
familiari a esso ricorrente, avente una personalità fragile e particolarmente
emotiva, in modo umiliante, continuo, tracotante e ingiurioso, tanto da doversi
parlare nella specie di “provocazione per accumulo” per valutare l’adeguatezza
psicologica della condotta all’afflizione determinata nell’agente dall’altrui
comportamento, e sedimentata nel tempo.
Del clima pesante che regnava in ambito familiare si è dato conto anche in
una memoria difensiva depositata il 5 ottobre 2011 dalla parte civile,
integralmente richiamata.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Le censure svolte con il primo motivo attengono, nella loro formale
deduzione, alla incorsa violazione di legge con riguardo al disposto rigetto, con
ordinanza del 26 ottobre 2011, contraddittoriamente e illogicamente motivata,
della richiesta, tempestivamente e ritualmente avanzata nel corso del
procedimento, di ammissione di perizia psichiatrica volta ad accertare la capacità
di intendere e di volere del ricorrente al momento del fatto e costituente una
prova decisiva, “quantomeno sotto il profilo della quantificazione della pena”.
1.1. Questa Corte ha più volte affermato che, con riguardo al giudizio di
appello, la mancata assunzione di una prova decisiva può costituire motivo di
ricorso per cassazione quale error in procedendo, ai sensi dell’articolo 606,
comma 1, lett. d), cod. proc. pen., solo quando si tratti di prove sopravvenute o
scoperte dopo lo pronuncia di primo grado, che avrebbero dovuto essere
ammesse, secondo il disposto dall’articolo 603, comma 2, cod. proc. pen.,
mentre negli altri casi previsti (art. 603, commi 1 e 3, cod. proc. pen.) la
decisione istruttoria del giudice di appello è censurabile in sede di legittimità ai
sensi dell’articolo 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., sotto il solo profilo
della mancanza o manifesta illogicità della motivazione, come risultante dal testo
della decisione impugnata, sempre che la prova negata, confrontata con le
ragioni addotte a sostegno della decisione, sia di natura tale da poter
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conferma che l’episodio per cui è processo è conseguito a un ennesimo e violento

determinare una diversa conclusione del processo (tra le altre, Sez. 2, n. 44313
del 11/11/2005, dep. 05/12/2005, Picone, Rv. 232772; Sez. 4, n. 4675 del
17/05/2006, dep. 06/02/2007, P.G. in proc. Bartalini e altri, Rv. 235654; Sez. 5,
n. 34643 del 08/05/2008, dep. 04/09/2008, P.G. e De Carlo e altri, Rv. 240995).
Si è anche rilevato che l’accertamento peritale non può ricondursi al
concetto di prova decisiva, la cui mancata assunzione costituisce motivo di
ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. d), cod. proc. pen.,
poiché il diritto alla controprova, riconosciuto all’imputato dall’art. 495, comma

cod. proc. pen., che sancisce il diritto del medesimo all’ammissione delle prove
dedotte a discarico sui fatti costituenti oggetto della prova a carico, non può
avere a oggetto l’espletamento di una perizia, mezzo di prova per sua natura
neutro e, come tale, non classificabile né a carico né a discarico dell’imputato,
sottratto al potere dispositivo delle parti e rimesso essenzialmente al potere
discrezionale del giudice, la cui valutazione, se assistita da adeguata
motivazione, è insindacabile in sede di legittimità (tra le altre, Sez. 1, n. 9788
del 17/06/1994, dep. 13/09/1994, Jahrni, Rv. 199279; Sez. 1, n. 11539 del
23/10/1997, dep. 15/12/1997, Geremia, Rv. 209137; Sez. 4, n. 9279 del
12/12/2002, dep. 28/02/2003, Bovicelli, Rv. 225345; Sez. 4, n. 14130 del
22/01/2007, dep. 05/04/2007, Pastorelli, Rv. 236191).
1.2. Deve anche rilevarsi che, secondo principi consolidati, in tema di
giudizio abbreviato, al giudice di appello è consentito, a differenza che al giudice
di primo grado, disporre d’ufficio i mezzi di prova ritenuti assolutamente
necessari per l’accertamento dei fatti che formano oggetto della decisione,
secondo il disposto dell’art. 603, comma 3, cod. proc. pen., mentre le parti, che,
prestato il consenso all’adozione del rito abbreviato “senza integrazione
probatoria”, hanno definitivamente rinunciato al diritto alla prova, possono solo
sollecitare i poteri suppletivi di iniziativa probatoria che spettano al giudice di
appello (tra le altre, Sez. U, n. 93 del 13/12/1995, dep. 29/01/1996, Clarke, Rv.
203427; Sez. 3, n. 7143 del 06/05/1998, dep. 15/06/1998, Zymaj N e altro, Rv.
211218; Sez. 1, n.36122 del 09/06/2004, dep. 09/09/2004, Campisi, Rv.
22983; Sez. 1, n. 13756 del 24/01/2008, dep. 02/04/2008, Diana, Rv. 239767),
senza che il mancato esercizio da parte del giudice d’appello dei sollecitati poteri
officiosi di rinnovazione dell’istruttoria possa tradursi in un vizio deducibile
mediante ricorso per cassazione, poiché alla esclusione di un diritto proprio
dell’imputato a richiedere la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale
corrisponde l’esclusione dell’obbligo per il giudice di motivare il diniego di tale
richiesta (tra le altre, Sez. 6, n. 7485 del 16/10/2008, dep. 20/02/2009, Monetti,
Rv. 242905; Sez. 2, n. 25659 del 15/05/2009, dep. 18/06/2009, Marincola e

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2, cod. pen., espressamente richiamato dal predetto art. 606, comma 1, lett. d),

altri, Rv. 244163; Sez. 2, n. 3609 del 18/01/2011, dep. 01/02/2011, Sermone e
altri, Rv. 249161).
1.3. Poste tali premesse di ordine metodologico, si osserva che la Corte
d’assise d’appello, con l’ordinanza del 26 ottobre 2011, ha giustificato il diniego
della richiesta istruttoria avanzata dalla difesa, che non si è limitato a rigettare,
logicamente coordinandosi con le emergenze acquisite, costituite dalle risultanze
della consulenza psichiatrica effettuata dal Pubblico Ministero e dagli esiti della
osservazione psichiatrica durante il periodo di carcerazione, e ragionevolmente

in mancanza di “spunti per ipotizzare come sussistente un’infermità o altri
disturbi rilevanti”.
La motivazione così articolata, che la sentenza ha richiamato e confermato,
resiste alle censure svolte, che sono inammissibili sotto il profilo della violazione
di legge per il già indicato limite del sindacato ai sensi dell’art. 606, comma 1,
lett. d), cod. proc. pen., e sotto il profilo del vizio di motivazione per la non
censurabilità della decisione della Corte di merito che rigetta la sollecitazione
all’esercizio del suo potere d’ufficio in appello in giudizio celebrato in primo grado
con il rito abbreviato, oltre a essere manifestamente infondate perché volte a
contestare, in termini generici e parziali, la operata lettura della consulenza del
dott. D’Albo, senza correlarsi con i riferimenti fattuali al suo contenuto e alle sue
conclusioni, contenuti in sentenza, e, in particolare, con la rilevata assenza di
“qualsivoglia stato psicopatologico obiettivabile” e con la ininfluenza “ai fini della
criminogenesi” dei tratti di impulsività connotanti la personalità del ricorrente.
1.4. Consegue agli svolti rilievi la declaratoria di inammissibilità del primo
motivo.

2. Del tutto privo di fondatezza, e pertanto del pari inammissibile, è il
secondo motivo con il quale si censura il diniego della circostanza attenuante
della provocazione.
2.1. Si rileva che, secondo i principi di diritto ripetutamente affermati da
questa Corte, ai fini della configurabilità di detta attenuante occorrono: a) lo
“stato d’ira”, costituito da una situazione psicologica caratterizzata da un impulso
emotivo incontenibile, che determina la perdita dei poteri di autocontrollo,
generando un forte turbamento connotato da impulsi aggressivi; b) il “fatto
ingiusto altrui”, costituito non solo da un comportamento antigiuridico in senso
stretto, ma anche dalla inosservanza di norme sociali o di costume regolanti
l’ordinaria, civile convivenza, per cui possono rientrarvi, oltre ai comportamenti
sprezzanti o costituenti manifestazione di iattanza, anche quelli sconvenienti o,
nelle particolari circostanze, inappropriati; c) un rapporto di causalità psicologica
tra l’offesa e la reazione, indipendentemente dalla proporzionalità tra esse (Sez.
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rilevando il carattere superfluo della richiesta, rispetto alle indicate emergenze,

I, n. 16790 del 08/04/2008, dep. 23/04/2008, D’Amico, Rv. 240282), mentre
detta attenuante non è, di regola, configurabile in relazione a reati commessi per
vendicarsi di torti subiti in tempi pregressi (tra le altre, Sez. 1, n. 25826 del
12706/2007, dep. 04/07/2007, Avolese, Rv 237335).
2.2. Alla luce di tali condivisi principi, le considerazioni svolte dalla Corte di
merito in ordine alla non configurabilità del requisito del fatto ingiusto altrui nei
rimproveri verbali allegati dal ricorrente, che, anche ammessi i termini della loro
espressione nei confronti del medesimo, erano provenienti da membri della

congiunto”, esprimono i passaggi argomentativi di una valutazione dotata di
assoluta plausibilità logica, congruente ai dati fattuali disponibili ed esente da vizi
giuridici.
Tale valutazione resiste alle censure mosse dal ricorrente, che esprimono un
diffuso dissenso di merito rispetto alla non condivisa ricostruzione e analisi della
vicenda, contrapponendo argomentazioni in fatto e prive di specificità.
Il ricorrente, infatti, che ha rappresentato la palese contraddittorietà della
sentenza quanto alle affermazioni spese a sostegno del diniego della
provocazione rispetto a quelle che hanno giustificato l’esclusione dell’aggravante
dei futili motivi, richiamando le contrastanti risultanze processuali sulla
situazione familiare e rimarcando che la stessa Corte ha puntualizzato la
tendenza all’amplificazione delle dinamiche emotive in contesto familiare, e ha
evidenziato che, alla luce delle emergenze processuali, l’episodio per cui è
processo ha avuto origine “nell’ennesimo, violento diverbio instauratosi in ambito
familiare”, preceduto dai ricevuti “reiterati rimproveri, anche tracotanti, umilianti
e pesantemente ingiuriosi”, incidenti sulla sua fragile ed emotiva personalità,
invocando l’applicazione della cosiddetta “provocazione per accumulo”, propone
un’alternativa analisi in fatto delle emergenze processuali secondo diversi, e non
esclusivi, parametri valutativi, in vista di un diverso risultato in diritto, e
rappresenta elementi, che – non contrastanti con il diniego dei futili motivi e non
indicativi di uno stato d’ira (invece che di altri ipotizzabili sentimenti), dipendente
dagli allegati pregressi rimproveri verbali, né di un collegamento tra la presunta
condotta offensiva delle parti lese e la condotta aggressiva illecitamente tenuta non sono compatibili né valutabili positivamente ai fini del riconoscimento della
invocata attenuante.

3. Alla inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al
pagamento delle spese processuali e, in mancanza di elementi atti a escludere la
colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al versamento della
somma, ritenuta congrua, di euro 1.000,00 alla Cassa delle ammende, ai sensi
dell’art. 616 cod. proc. pen.
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famiglia e chiaramente volti a “scuotere dalla indolenza” e non a “ferire il

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di euro 1.000,00 alla Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 10 gennaio 2013

Il Presidente

Il Consigliere estensore

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