Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 38537 del 21/05/2015


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 38537 Anno 2015
Presidente: FIALE ALDO
Relatore: MULLIRI GUICLA

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Vitale Maria Clelia, nata a Roma il 3.9.60
imputato art. 44/b D.P.R. 380/01

avverso la sentenza della Corte d’Appello di L’Aquila del 26.6.13
Sentita la relazione del cons. Guida Mùlliri;
Sentito il P.M., nella persona del P.G. dr. Sante Spinaci, che ha chiesto una declaratoria
di inammissibilità del ricorso;
Sentito il difensore
dell’imputata avv. Maurizio Bortolotto, che ha insistito per
l’accoglimento del ricorso;

RITENUTO IN FATTO

1. Vicenda processuale e provvedimento impugnato – La ricorrente è stata accusata di
avere realizzato una serie di interventi edilizi abusivi in adiacenza all’immobile di sua proprietà
(un manufatto in muratura adibito a cucina e W.C., una veranda in alluminio, un box in lamiera ed una tettoia) pur
essendo priva del prescritto permesso di costruire.
Per tale ragione, ella è stata condannata, in primo grado, alla pena di 3 mesi di arresto
e 15.000 C di ammenda nonché alla demolizione delle opere abusive.

Data Udienza: 21/05/2015

Con la sentenza impugnata, la Corte d’appello ha ribadito la decisione.
Avverso tale sentenza, la condannata ha proposto ricorso,

1) violazione di legge e vizio della motivazione nella parte in cui ha negato la
declaratoria di prescrizione del reato, a dispetto del fatto che lo stesso P.M. in udienza avesse
sollecitato tale declaratoria. La censura, infatti, si basa sul richiamo al fatto che, nel corso del
procedimento, non è stata acquisita prova certa della data di edificazione delle opere abusive
mentre è provato che la signora Vitale avesse acquistato l’immobile nel 1989 già completo
delle opere censurate. Si ricorda, a tal fine, che è principio pacifico in giurisprudenza che, nel
dubbio circa l’epoca di commissione di un fatto, si deve tener conto della data più favorevole
all’imputato. Nella specie, non avendo l’accusa offerto prova del fatto che le opere erano più
recenti, il dies a quo deve essere fatto decorrere dal 1989 e, per l’effetto, il reato è prescritto;
2) violazione di legge e vizio della motivazione perché la Corte ha desunto la
responsabilità dell’imputata dalla sua sola qualità di proprietaria dell’immobile laddove è stato
affermato anche da questa S.C. che non basta solo tale condizione per ascrivere alla persona il
reato edilizio occorrendo ulteriori elementi;
3) violazione di legge e vizio della motivazione in punto di determinazione della
pena non essendosi tenuto conto del fatto che il box in lamiera era stato demolito.
La ricorrente conclude invocando l’annullamento della sentenza impugnata.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Motivi della decisione – Il ricorso è inammissibile.
3.1. Lo stesso argomento svolto nel primo motivo del presente gravame era
stato sostento dinanzi alla Corte d’appello. A tale stregua, l’inammissibilità della doglianza
consegue dalla duplice ragione di non avere, la ricorrente, replicato alla motivazione della
Corte (ma di avere semplicemente reiterato lo stesso motivo) e, secondariamente, dal fatto che i giudici
di secondo grado hanno risposto con argomentazioni che l’ha disattesa con motivazione
congrua e scevra da vizi logici.
Più precisamente, essi hanno fatto notare che, agli atti, non esisteva alcuna prova, né
dichiarativa né documentale, circa la preesistenza delle opere incriminate rispetto alla data di
acquisto dell’immobile. Conseguentemente, risultava giusto computare la prescrizione
muovendo dalla data di accertamento dell’infrazione con il risultato che, alla data della
sentenza, quel termine non era ancora decorso.
La posizione assunta dalla Corte è, del resto, conforme ai principi di legittimità secondo
i quali, pur restando in capo all’accusa l’onere di provare la data di inizio della prescrizione,
«non basta una mera e diversa affermazione dell’imputato a far ritenere che il reato si sia
realmente estinto per prescrizione» (sez. III, 17.4.00, Fretto, Rv. 217575).

Anche il punto relativo alla riferibilità all’imputata della condotta illecita,
3.2.
trattato nel secondo motivo, è stato affrontato e risolto bene dalla Corte che ha fatto notare
come essa non sia dipesa solo dal dato formale che la Vitale riveste la qualifica di proprietaria
ma anche dalla considerazione che «gli atti amministrativi di auto-tutela (ordinanza n. 28072
di demolizione in data 26 novembre 2009 e ingiunzione di demolizione n. 4589 del 3 marzo
2010) sono stati tutti indirizzati e notificati alla Vitale ben prima della celebrazione del processo
penale iniziato anni dopo, il 10 dicembre 2012, senza che la medesima all’epoca abbia opposto
alcunché».

2

11D_,

2. Motivi del ricorso tramite difensore, deducendo:

3.3.
E’, invece, inammissibile perché decisamente in fatto ciò che la ricorrente
deduce nel terzo motivo di gravame.
Richiamando l’attenzione su un aspetto della vicenda (box in lamiera e,comunque, abbattuto)
del quale si sarebbe dovuto tener conto ai fini della determinazione della pena, si equivoca sul
ruolo di questa S.C. che non è quello di riesaminare i fatti per apprezzarli, eventualmente, in
modo diverso, bensì quello di verificare la esistenza di una motivazione valida, aderente ai fatti
di causa e non manifestamente illogica.
Orbene, nella specie, la Corte ha soppesato la congruità della pena alla luce dei
parametri dell’art. 133 c.p. tenendo anche conto della «plurimità degli interventi abusivi
realizzati che impone l’individuazione di una sanzione superiore al minimo edittale e non
consente il riconoscimento delle attenuanti generiche». A prescindere, poi, dalla impossibilità di
verificare il dato della demolizione del box (meramente asserito), quand’anche provato, esso
sarebbe, in ogni caso, contrastato dagli ulteriori rilievi dei giudici di merito circa la stabilità
degli altri manufatti (in particolare, la cucina ed il bagno erano stati realizzati in muratura ed adiacenti
alle pareti perimetrali dell’appartamento) sì da escludere l’idea di un loro utilizzo limitato e precario
nel tempo.

Alla luce di quanto precede, segue inevitabile la preannunciata declaratoria di
inammissibilità con conseguente condanna della ricorrente, per legge, al pagamento delle
spese processuali ed al versamento alla Cassa delle Ammende della somma di 1000 C.

P.Q.M.
Visti gli artt. 615 e ss. c.p.p.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali
ed al versamento alla Cassa delle Ammende della somma di 1000 C.

Così deciso il 21 maggio 2015

Il Presidente

Come già evidenziato a proposito del motivo che precede, anche in questo caso, la
ricorrente, si è limitata a ribadire la censura ignorando la replica dei giudici e, quindi, non
rispondendo “in termini”. Per l’effetto, si rinnova il vizio di genericità del ricorso che sussiste,
non solo, sotto forma di indeterminatezza, ma anche, per la mancanza di correlazione tra le
ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento della
impugnazione (ex plurimis, Sez. VI, 8.5.09, Candita, Rv. 244181; Sez. V, 27.1.05, Giagnorio, Rv. 231708).

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