Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 38500 del 08/06/2018


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 38500 Anno 2018
Presidente: FIDELBO GIORGIO
Relatore: RICCIARELLI MASSIMO

SENTENZA

sul ricorso proposto da
Petrilli Emidio, nato il 22/09/1940 ad Ateleta

avverso la sentenza del 27/06/2017 della Corte di appello di Firenze

visti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Massimo Ricciarelli;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Sante
Spinaci, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso;
udito il difensore, Avv. Antonio D’Avirro che ha insistito nell’accoglimento del
ricorso;
udito il difensore, Avv. Guido Carlo Alleva, che ha chiesto l’accoglimento del
ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 27/6/2017 la Corte di appello di Firenze, in parziale
riforma di quella del Tribunale di Firenze del 18/1/2016, ha rideterminato, previo
riconoscimento delle attenuanti generiche, la pena irrogata a Petrilli Emidio per i

Data Udienza: 08/06/2018

reati di cui all’art. 321 cod. pen., contestati ai capi E) e G), ha rideterminato in
euro 10.000,00 la confisca disposta con riguardo al capo G), ha dichiarato
estinto l’illecito amministrativo contestato al capo El) alla società Dr. Ing.
Giovanni Tognozzi spa, per l’intervenuto fallimento di detta società, ha revocato
la confisca disposta nei confronti della società e confermato quella disposta nei
confronti del Petrilli in relazione al capo E) per il valore di euro 6.722.538,82.
La Corte, respingendo le doglianze del Petrilli, ha in particolare confermato
la qualificazione dei fatti in termini di corruzione propria e non di induzione

nella dazione di denaro, in concorso con Santoro Enrico e con Mencucci Silvio, al
Direttore provinciale dell’Agenzia delle Entrate, dott. Garagozzo Nunzio, a fronte
di atti di adesione riferiti alle società Dr. Ing. Giovanni Tognozzi s.p.a., Venere
s.p.a. e Minerva s.p.a., sia in relazione alla condotta sub G), consistita nella
dazione di denaro, in concorso con il Mencucci, allo stesso dott. Garagozzo, a
fronte dell’annullamento di un atto di accertamento nei confronti di Petrilli Paola,
con emissione di nuovo avviso di accertamento, dopo la scadenza di termini per
l’impugnazione del primo.

2. Ha proposto ricorso il Petrilli tramite i suoi difensori.
2.1. Con il primo articolato motivo denuncia violazione di legge e vizio di
motivazione in relazione alla mancata qualificazione dei fatti di cui al capo E)
come induzione indebita ex art. 319 quater cod. pen., da cui avrebbe dovuto

discendere l’assoluzione del ricorrente, trattandosi di fatti risalenti al 2010.
Richiamati gli insegnamenti delle Sezioni unite della Corte di cassazione in
merito agli elementi che contraddistinguono la fattispecie dell’induzione indebita,
rileva il ricorrente che la Corte aveva errato nel fare riferimento ad elementi che
avrebbero potuto rilevare nella prospettiva della vecchia concussione e non in
quella dell’induzione indebita, rispetto alla quale il privato non assume la veste di
vittima.
Deduce inoltre i menzionati vizi con riguardo ad una pluralità di profili,
rilevanti ai fini della configurazione del reato di induzione indebita.
Erroneamente la Corte aveva svalutato il tema dell’iniziativa, che assume
invece rilievo sintomatico.
D’altro canto sul piano ricostruttivo la Corte aveva ignorato elementi di
prova, all’uopo riportati e consistenti nelle dichiarazioni del Mencucci, del Santoro
e del Garagozzo, tali da escludere inequivocamente che la proposta corruttiva
fosse partita dal ricorrente.
Quest’ultimo si sofferma poi sull’analisi da parte della Corte del tema del
conferimento dell’incarico a Santoro da parte di Petrilli, deducendo l’illogicità e

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indebita e corruzione impropria, sia in relazione alla condotta sub E), consistita

incongruenza della conclusione che il Petrilli avesse posto in essere un’opera di
avvicinamento del pubblico ufficiale.
In realtà il ricorrente, confidando nella bontà del progetto di ristrutturazione
elaborato da prestigioso studio milanese, aveva accolto la proposta del Mencucci
di rivolgersi al Santoro, quale esperto in materia tributaria, pur a fronte
dell’incarico già affidato all’Avv. Briguglio.
Il ricorrente affronta quindi il tema della soggezione al pubblico ufficiale,
segnalando che la Corte l’aveva esclusa sulla base di argomenti irrilevanti o

rilevanza.
Sottolinea in particolare che all’epoca versava in una situazione di estrema
difficoltà, nota a tutti i protagonisti, nella fase in cui cercava di far approvare un
piano di ristrutturazione del debito verso banche e fornitori.
Esamina poi il tema della condotta induttiva, rilevando che l’assunto
secondo cui non vi era prova di pressioni di Santoro e Mencucci prima dell’atto di
accertamento avrebbe dovuto ritenersi smentito dai dati probatori riportati e che
inoltre avrebbe dovuto ritenersi manifestamente illogica e contraddittoria, alla
luce di quanto dichiarato dal ricorrente e dall’Avv. Briguglio, l’affermazione che il
Petrilli non fosse stato neppure informato del rilascio da parte della
Commissione tributaria dell’autorizzazione al sequestro conservativo di quote,
che in realtà il ricorrente aveva sostenuto aver costituito l’elemento decisivo per
convincerlo a sottostare alla volontà del pubblico ufficiale, attesa la devastante
potenzialità sottesa all’iscrizione del sequestro.
Ed ancora affronta il ricorrente il tema della trattativa, a fronte del dato
incontestato che all’inizio egli non aveva accettato di corrispondere la somma
richiesta, non essendo stata debitamente analizzata la circostanza del
cambiamento della decisione, a fronte del rilievo che assume il profilo della
libertà nella formazione della volontà del privato.
La Corte aveva erroneamente addotto a sostegno della pariteticità delle
posizioni il fatto della trattativa, peraltro a tal fine riconoscendo credibilità alla
versione fornita da Santoro, che tuttavia, per parte sua, aveva negato di aver
ricevuto dal Petrilli alcun incarico: in realtà o la versione del Santoro era credibile
per intero, smentendo su più punti la motivazione, o era credibile in parte, senza
che a quel punto fosse stato spiegato perché fossero qualificabili come credibili
alcune parti e altre no.
Inoltre non era stato considerato che il ricorrente non aveva versato euro
50.000,00, a fronte di una prima richiesta del Garagozzo di euro 100.000,00, ma
100.000,00, senza che il Mencucci avesse riferito al Petrilli che il prezzo del

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travisando risultanze processuali o omettendo di valutare elementi di stringente

pubblico ufficiale era sceso alla metà, mentre il Santoro aveva comunicato la
circostanza solo al Mencucci.
Tali discrepanze non avevano trovato una logica composizione, mentre
avrebbe dovuto farsi riferimento al collaudato meccanismo in forza del quale,
come sarebbe emerso anche successivamente, il Garagozzo si avvaleva del
Mencucci, per formulare richieste di denaro, potendosi a tal fine invocare non
solo il caso [aroma, ma anche conversazioni telefoniche indicate nell’atto di
appello e non valutate dalla Corte, dalle quali era possibile trarre conferma

2.2. Con il secondo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione
in ordine alla mancata qualificazione del fatto di cui al capo G) come induzione
indebita.
La Corte aveva erroneamente affermato che a seguito della mancata
tempestiva impugnazione dell’accertamento nei confronti di Petrilli Paola non vi
fosse altro rimedio, mentre la disciplina dell’istituto dell’autotutela avrebbe
consentito di provvedere anche in presenza di accertamento divenuto definitivo
per mancanza di impugnazione.
D’altro canto l’accertamento era fondato su erronei presupposti, a fronte
delle giustificazioni a suo tempo fornite in ordine all’acquisto di un immobile e al
mutuo a tal fine contratto.
L’ufficio, dopo aver verificato che i metri quadrati dell’abitazione erano
inferiori aveva annullato l’originario accertamento, emettendone uno nuovo, il
quale era stato poi impugnato nei termini, essendone seguita la verifica
giudiziale della infondatezza della pretesa impositiva.
Il ricorrente aveva ritenuto l’accertamento pretestuoso e aveva alla fine
pagato la somma che gli era stata comunicata dal Mencucci su indicazione del
Garagozzo, nel timore che se non avesse pagato avrebbe avuto problemi con
l’Agenzia delle Entrate.
D’altro canto avrebbe dovuto reputarsi manifestamente illogica la
motivazione della Corte incentrata sul fatto che nessuno avrebbe potuto
impedire al ricorrente di seguire la via maestra del ricorso tributario, che nel
caso di specie era venuta meno per la negligenza nel rispetto dei termini.
La Corte aveva illogicamente e senza fondamento mostrato di ritenere che il
ricorrente non avesse volutamente impugnato, sapendo di poter comunque fruire
di una soluzione privilegiata, fermo restando che il fatto di adire le vie
dell’autotutela rappresentava comunque una strada legittima per far valere le
proprie ragioni a fronte di un accertamento divenuto definitivo.
2.3. Con il terzo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in
relazione agli artt. 322-ter e 240 cod. pen., con riguardo alla confisca disposta a

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dell’operatività di quel meccanismo anche nel caso di specie.

carico del ricorrente e alla revoca della confisca nei confronti della società Dr.
Ing. Giovanni Tognozzi s.p.a., nonché con riguardo al quantum della confisca.
Segnala l’erroneità della decisione, nella parte riguardante l’estinzione
dell’illecito della società e la revoca della confisca disposta nei confronti di
quest’ultima, giacché non avrebbe potuto ravvisarsi nel fallimento una causa
estintiva e in quanto la confisca avrebbe dovuto reputarsi insensibile al
fallimento.
Rileva che avrebbe dovuto preliminarmente disporsi la confisca diretta del

reato sarebbe stato conseguito un vantaggio, in termini di risparmio di imposta,
dalla società.
La Corte aveva omesso ogni motivazione sul punto disattendendo le
doglianze con cui era stato segnalato, anche con richiesta di rinnovazione
dell’istruzione dibattimentale, che la società possedeva beni ampiamente idonei
a coprire l’importo della confisca e che il vantaggio economico era rimasto nel
patrimonio della società.
La Corte inoltre erroneamente aveva ritenuto che il profitto corrispondesse
al risparmio di imposta conseguito, agli interessi e alle sanzioni irrogate, mentre
avrebbe dovuto farsi riferimento al profitto conseguito con l’atto di accertamento
con adesione, oggetto del patto corruttivo, dovendosi valutare a quale esito si
sarebbe pervenuti in assenza di quel patto.
Contraddittoriamente la Corte aveva rilevato che l’atto di adesione, pur
astrattamente legittimo, non era frutto di corretto esercizio del potere
discrezionale e nel contempo che non sarebbe stata possibile una soluzione di
compromesso, non essendovi alternativa tra il riconoscimento della finalità
economico-giuridica dell’operazione o l’affermazione del suo carattere elusivo,
che ne avrebbe comportato l’inopponibilità al fisco per l’intero.
In realtà la disciplina in materia di accertamento con adesione avrebbe
consentito valutazioni prudenziali legate al grado di sostenibilità della pretesa
tributaria e alla solvibilità del contribuente, avendo peraltro nel caso di specie la
stessa Direzione Regionale dell’Agenzia delle Entrate riconosciuto la difficoltà di
individuare un preciso comportamento corretto da opporre al comportamento
adottato.
D’altro canto la complessità della vicenda e la plausibilità della situazione
rinvenuta con gli atti di adesione era stata confermata da altri funzionari
dell’ufficio.
La Corte avrebbe dovuto dunque approfondire il punto del contenuto
dell’atto di accertamento con adesione, individuando il contenuto che avrebbe

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profitto, ove fisicamente rintracciabile, fermo restando che in conseguenza del

potuto avere un atto al quale si sarebbe potuto giungere in assenza dell’accordo
corruttivo.
Erroneamente la Corte aveva fatto riferimento all’indebita duplicazione
dell’utilizzo del medesimo credito di imposta per acconti pagati dalla società,
dovendosi al riguardo valutare la consulenza di parte.
Inoltre era stato documentato un recupero da parte dell’ufficio del 36,7% di
quanto accertato.
In tale prospettiva l’accertamento con adesione avrebbe dovuto reputarsi

In ogni caso il profitto avrebbe dovuto commisurarsi all’eventuale diverso
atto di accertamento con adesione adottabile in mancanza del patto corruttivo.
Inoltre non avrebbero potuto includersi nel profitto le somme corrispondenti
agli interessi e alle sanzioni, diversamente da quanto ipotizzabile solo con
riguardo al delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, di cui
all’art. 11 d.lgs. 74 del 2000.
2.4. Deduce violazione di legge in relazione alla mancata riqualificazione del
fatto sub E) ai sensi degli artt. 318 e 321 cod. pen., dovendosi ritenere, alla luce
dei rilievi svolti in ordine alla legittimità dell’atto di accertamento con adesione,
che non fosse configurabile corruzione propria.
Dalla riqualificazione avrebbe dovuto discendere altresì la non configurabilità
di un profitto discendente dalla perpetrazione del reato, con conseguente
annullamento della confisca.

3. Ha depositato una memoria il difensore della società Dr. Ing. Giovanni
Tognozzi spa, nella quale si deduce l’inammissibilità delle doglianze formulate nel
ricorso con riguardo alle decisioni assunte dalla Corte in ordine alla posizione di
detta società

4. Con successiva memoria i difensori del ricorrente hanno proposto motivi
nuovi.
4.1. Con il primo motivo deducono violazione di legge e vizio di motivazione
in ordine alla revoca della confisca nei confronti della società, alla confisca
disposta nei confronti del ricorrente e alla determinazione del

quantum,

riproponendo gli argomenti difensivi in replica alle deduzioni formulate
nell’interesse della società.
4.2. Con il secondo motivo denunciano omessa motivazione in ordine ai temi
oggetto di motivi nuovi di appello, concernenti la qualificazione del fatto come
corruzione impropria, a fronte di un atto giuridicamente legittimo.

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legittimo, discendendo da ciò la mancanza di un illecito profitto confiscabile.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è nel suo complesso infondato.

2.

Il primo motivo ripropone con riguardo al capo E) la tesi della

configurabilità di una condotta induttiva del pubblico ufficiale, nel presupposto
che la pacifica dazione di somme al dott. Garagozzo, Direttore dell’Agenzia delle
Entrate, correlata alla redazione di atti di accertamento con adesione, fosse

sul ricorrente pressioni tali da ingenerare uno stato di soggezione.
Ma alla resa dei conti vengono dedotti temi che hanno già formato oggetto
di efficace analisi da parte del Tribunale e della Corte di appello, cosicché il
motivo risulta infondato e in parte inammissibile.
2.1. E’ noto che secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite della Corte di
cassazione (Cass. Sez. U. n. 12228 del 24/10/2013, dep. nel 2014, Maldera, rv.
258474) l’induzione indebita di cui all’art.

319-quater cod. pen. si fonda

sull’abuso del soggetto qualificato, che, strumentalizzando poteri o qualità,
attraverso un’azione suggestiva di convincimento, crea condizioni propizie
all’accoglimento da parte del privato della propria richiesta di riconoscimento di
un’utilità, a fronte del tornaconto personale che il privato può nondimeno
realizzare.
In questo caso dunque l’abuso rileva non tanto in ragione del contenuto che
assume l’esercizio delle funzioni pubbliche quanto in ragione del fatto che queste
costituiscono la premessa, esplicitamente o implicitamente evocata, dell’opera di
convincimento rivolta nei confronti di un soggetto che avverte uno stato di
soggezione ed è così indotto ad erogare l’utilità, in una situazione in cui egli
conserva nondimeno un margine di libertà nel valutarla, prospettandosi il
conseguimento di un vantaggio indebito.
Nella corruzione propria invece le parti si determinano paritariamente
all’accordo illecito, in cui l’abuso viene a qualificare il concreto contenuto
dell’esercizio delle funzioni.
In entrambe le ipotesi vi è dunque un patto, che tuttavia nell’induzione
indebita risulta all’origine asimmetrico e squilibrato.
Ben si comprende alla luce di tale analisi che l’induzione indebita
presupponga accanto alla strumentalizzazione, la sollecitazione a dare, rivolta
dal soggetto qualificato, e lo stato di soggezione del privato.
2.2. Così inquadrato il tema, va subito osservato che i Giudici di merito,
sulla base di un’analisi per grandi linee coincidente, hanno in concreto escluso
tutti i presupposti per la configurabilità dell’induzione indebita e ciò hanno fatto

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dipesa dalla condotta del predetto, avvalsosi anche del Mencucci, per esercitare

soprattutto osservando che esulava la correlazione tra condotta del pubblico
ufficiale e soggezione del privato, non solo in quanto il Petrilli non avrebbe
potuto dirsi costretto ad erogare l’utilità, ma anche e soprattutto in quanto la
condizione in cui egli versava non dipendeva dalla condotta prevaricatrice del
pubblico ufficiale, comparso sulla scena quando la pretesa fiscale aveva assunto
contorni nitidamente delineati, a prescindere dall’intervento del dott. Garagozzo,
Direttore dell’Agenzia delle Entrate.
E’ stato infatti sottolineato come l’originario processo verbale di

ricorrente fosse un imprenditore di lungo corso, assistito dai migliori studi legalitributari e in grado di opporre le più efficaci difese a fronte di un accertamento
se del caso ritenuto illegittimo; come inoltre egli avesse promosso iniziative
ufficiali affidandosi allo studio Briguglio, cui, dopo la notifica al Petrilli del verbale
nel settembre 2010, era stato fin dal 5 ottobre 2010 conferito l’incarico di
procedere ad un accertamento con adesione.
Si tratta di argomenti che non distorcono l’analisi dell’art.

319-quater cod.

pen., che ora contempla anche il privato come soggetto attivo, non più solo
come vittima (diversamente da quanto tuttora previsto dall’art. 317 cod. pen.):
ed invero si è inteso sottolineare che la condizione del Petrilli non corrispondeva
a quella di qualunque altro soggetto privato che si fosse trovato ad interloquire
con l’amministrazione finanziaria, in quanto il predetto disponeva di mezzi assai
più cospicui, che valevano ad innalzare la soglia della sua capacità di azione e
difesa, e nel contempo che le sue difficoltà, staticamente intese, non erano
correlate ad una mirata strumentalizzazione.
2.3. D’altro canto è stato escluso che al pubblico ufficiale fossero ascrivibili
callide condotte volte ad alimentare e sfruttare lo stato di soggezione del privato,
pur gravato da rischi nel rapporto con gli istituti bancari.
In particolare i Giudici di merito hanno escluso che tale significato potesse
attribuirsi alla richiesta di autorizzazione al sequestro conservativo di quote
societarie, predisposta da altri funzionari dell’ufficio e firmata dal Direttore
dell’Agenzia delle Entrate dott. Garagozzo nel settembre del 2010, per essere poi
inoltrata alla Commissione Tributaria alla fine di ottobre.
Il tema assume rilievo dirimente, in quanto, in base alla versione difensiva,
proprio la richiesta di autorizzazione al sequestro e il successivo rilascio
dell’autorizzazione in data 10 novembre 2010 avrebbero avuto l’effetto di indurre
il Petrilli a sottostare alle richieste che gli sarebbero state formulate.
Ma in concreto è stato spiegato dal Tribunale che il dato non aveva avuto
per l’Avv. Briguglio, che assisteva in quella procedura la società del Petrilli, un
particolare rilievo, anche perché, in base a quanto rilevato dal Tribunale sulla

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ù

constatazione fosse risalente ed addebitabile all’opera di altri funzionari; come il

base della deposizione del Briguglio, era risultato che alla misura cautelare non si
sarebbe dato corso in pendenza delle trattative per l’accertamento con adesione,
secondo quanto prontamente annotato dalla segretaria del legale.
Sul punto la Corte, in parte richiamando le valutazioni del Tribunale, ha
anche osservato che in base alla deposizione del Briguglio costui, pur non
ricordando la data in cui aveva comunicato al Petrilli la decisione relativa
all’autorizzazione al sequestro, aveva confermato che in data 19 novembre era
stato trasmesso dalla sua segreteria il testo del provvedimento, da ciò potendosi

dall’altro che la comunicazione era stata successiva al 17 novembre 2010, data
della firma dell’accertamento con adesione riguardante le società Venere e
Minerva, destinato a completare la procedura e parte integrante del patto illecito,
ma evidentemente non condizionato dalla decisione sul sequestro.
Nel motivo di ricorso si assume che i Giudici di merito avrebbero
erroneamente interpretato le dichiarazioni dell’Avv. Briguglio, il quale avrebbe
mostrato di non ricordare se avesse parlato con il Petrilli delle conseguenze del
sequestro ma non della decisione in sé, fermo restando che da una annotazione
era emerso che in data 19 novembre era stata fatta una comunicazione a
riscontro di una pregressa conversazione telefonica.
Sta di fatto che la data di tale conversazione è stata genericamente
collocata dal Petrilli in epoca non successiva al 14/15 novembre, ciò che si
risolve tuttavia in assertiva deduzione, priva di qualsivoglia conferma
processuale, tale da rendere sul punto configurabile un travisamento della prova,
al contrario non illogicamente valutata al fine di fornire una chiave di lettura
dell’intera condotta del ricorrente, tanto più che è stato dato conto del
ritrovamento di appunti che dimostravano che l’atto di accertamento aveva
avuto una progressiva gestazione.
2.4. Ed invero, una volta escluso che, contrariamente agli assunti difensivi,
possa dirsi dirimente per le determinazioni del Petrilli la decisione relativa al
sequestro delle quote, che peraltro in quella fase non sarebbe stato posto in
esecuzione, si comprende come gli altri elementi siano stati linearmente e
logicamente valutati dai Giudici di merito, nel senso di suffragare l’ipotesi della
corruzione anziché quella dell’induzione indebita.
2.5. E’ significativo a tal fine il tema dell’iniziativa, letto alla luce delle
complessive risultanze probatorie.
La Corte ne ha sottolineato già in astratto il carattere tutt’altro che
dirimente.
E’ invero sufficiente segnalare come l’art. 322, comma terzo, cod. pen., nel
contemplare l’istigazione alla corruzione nella forma della sollecitazione da parte

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ricavare che da un lato il Petrilli aveva piena contezza della procedura in corso e

del soggetto qualificato, attesti la piena compatibilità dell’iniziativa di tale
soggetto con l’ipotesi della corruzione.
Proprio per questo le Sezioni Unite (Cass. Sez. U. n. 12228 del 24/10/2013,
dep. nel 2014, Maldera cit, in motivazione) hanno segnalato che l’iniziativa
assume rilievo sul piano sintomatico, senza che possa tuttavia prescindersi da un
approfondito esame della concreta fattispecie e dunque dell’effettiva dinamica
dei rapporti tra i soggetti.
Sinteticamente può semmai affermarsi che nell’induzione indebita l’iniziativa

in presenza di essa debba escludersi l’ipotesi della corruzione (sul punto si rinvia
anche a Cass. Sez. 6, n. 52321 del 13/10/2016, Beccaro Migliorati, rv. 268520).
Del tutto corrispondente a tale impostazione risulta l’analisi della Corte, che,
nel far proprie le ampie valutazioni del Tribunale, ha segnalato che nel caso di
specie non avrebbe potuto darsi preponderante significato all’iniziativa, fermo
restando che in base alle acquisizioni probatorie avrebbe potuto dirsi semmai
che la tesi difensiva, incentrata sull’iniziativa del Garagozzo, non fosse sostenuta
da dirimenti argomenti.
Il motivo di ricorso sul punto si fonda sull’assunto che nessuno dei
protagonisti della vicenda avesse affermato che il Petrilli aveva conferito
l’incarico di formulare proposte corruttive.
Ma in realtà non considera che sia il Tribunale sia la Corte, nel dar conto del
proprio convincimento, non hanno inteso negare il contenuto delle varie
deposizioni ma fornire una ricostruzione fondata sui canoni della logica,
ricostruzione che alla resa dei conti risulta in questa sede contrastata solo in
base ad una alternativa lettura del compendio probatorio, fra l’altro incentrata
sull’estrapolazione di singoli frammentari passi (al di là delle allegazioni di verbali
di udienza), ma in assenza di specifici profili di illogicità manifesta o di dirimenti
travisamenti della prova.
Il Tribunale ha invero spiegato le ragioni per cui non potesse credersi al
racconto del Petrilli in ordine alla strumentale comparsa del Mencucci, animato
da propositi illeciti sulla base di una probabile intesa con il Garagozzo, ma ha
anche dato conto del dirimente significato attribuibile per contro al conferimento
dell’incarico a Santoro, indicatogli dal Mencucci, e all’ulteriore elemento costituito
dal necessariamente anteriore contatto tra il Santoro e il Petrilli rispetto al primo
contatto tra il Santoro e il Garagozzo.
Il Tribunale in particolare ha sottolineato non solo che lo stesso Petrilli aveva
descritto il compito del Santoro come quello di interferire con il Garagozzo,
espressione ritenuta evocativa di intese extra-ordinem, ma ha anche osservato
come non diversamente potesse intendersi il conferimento di un incarico

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del soggetto qualificato costituisce un dato pressoché ineludibile, ma senza che

parallelo e disgiunto rispetto a quello, peraltro perdurante, affidato ad un legale
particolarmente esperto nel settore come l’Avv. Briguglio, rilevando altresì che
del tutto inverosimilmente era stata prospettata la formulazione di un’improvvisa
richiesta di denaro da parte del Garagozzo al Santoro, in una situazione nella
quale, a rigore, quella richiesta avrebbe potuto risultare irricevibile e foriera di
rischi per il funzionario.
In tale quadro si è inserita la valutazione della Corte, che nel far proprie le
considerazioni del Tribunale, ha ulteriormente osservato che il Santoro fu

non avrebbe avuto l’interesse a far estendere l’incarico ad un terzo, con il quale
avrebbe poi dovuto spartire i profitti.
Corrispondentemente anche la Corte ha rilevato che l’incarico conferito dal
Petrilli al Santoro, nella permanenza di quello mai revocato al Briguglio,
implicava necessariamente la ricerca di percorsi alternativi per giungere
all’obiettivo e dunque la presa di contatto con il Garagozzo, dovendosi invece
escludere che fosse in atto un’iniziativa di segno opposto.
Va del resto rimarcato che, ben diversamente da quanto prospettato nel
motivo di ricorso, il conferimento di incarico al Santoro non è in alcun modo
coerente con l’assunto della sorpresa del Petrilli per l’esito della verifica fiscale, a
fronte della complessa operazione congegnata dal prestigioso studio milanese.
E’ sufficiente osservare che se il ricorrente confidava nella bontà del proprio
operato non avrebbe avuto motivo di discostarsi dalla strada maestra e che
d’altro canto, ove si fosse realmente trattato di una crisi di sfiducia nell’operato
dello studio Briguglio, non vi sarebbe stata ragione, come rilevato dalla Corte,
per confermare l’incarico al legale, pur parallelamente affiancato da altri.
La sostanzialmente conforme analisi dei Giudici di merito ha dunque posto in
luce che il Petrilli si trovava nella necessità di risolvere il problema rappresentato
dall’accertamento a carico della società Impresa dr. Ing. Giovanni Tognozzi
s.p.a., fondato sul rilievo dell’elusione fiscale e dell’abuso del diritto, in concreto
posti in essere, e che a tale scopo egli attuò una strategia volta a favorire un
abboccamento con il funzionario e la conclusione di accordi con lui.
Ciò rende privo di qualsivoglia fondamento l’assunto difensivo fondato
sull’iniziativa, giacché, alla luce di quanto ricostruito non illogicamente dai Giudici
di merito, avrebbe dovuto a quel punto dirsi irrilevante che a parlare per la
prima volta di una somma fosse stato il funzionario o taluno degli intermediari
del privato, essendo stato delineato invece il quadro di una trattativa volta a
realizzare extra-ordinem l’obiettivo perseguito dal Petrilli, senza che peraltro il
pubblico ufficiale fino a quel momento avesse esercitato i suoi poteri

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indicato dal Mencucci, il quale, se già investito da illecite richieste del Garagozzo,

condizionanti allo specifico fine di ingenerare una situazione di soggezione del
privato.
2.6. In tale quadro viene meno anche la rilevanza della notorietà della
situazione di difficoltà del Petrilli nei confronti del sistema bancario, non
ingenerata specificamente da condotte induttive: in definitiva, nel momento in
cui il Petrilli si adoperò per risolvere il problema derivante dall’accertamento, con
cui veniva posta a carico della società una assai cospicua somma per recupero di
imposta, interessi e sanzioni, e scelse di seguire la via più opaca, egli stesso,

dette origine ad una procedura destinata a sfociare in un patto illecito,
costituente il risultato di una trattativa, riferita alle modalità e al quantum, ma
intercorsa comunque su base paritaria.
2.7. Né, parimenti, possono dirsi fondate le censure incentrate sulle
pressioni che sarebbero state esercitate soprattutto dal Mencucci.
Al di là del fatto che i Giudici di merito hanno sottolineato che pressioni
furono in particolare esercitate dopo l’accordo, in vista della concreta erogazione
delle somme pattuite, è comunque dirimente che l’assunto difensivo muova dal
presupposto, non illogicamente smentito, della netta contrarietà del Petrilli a
trattative: ed invero, una volta dato conto dell’apertura nella direzione della
trattativa, suggellata dall’incarico al Santoro, la definizione della stessa avrebbe
dovuto ritenersi rientrante in quella condizione di piena sinallagmaticità cui i
Giudici di merito hanno fatto riferimento, in assenza di condotte specificamente
induttive attribuibili al pubblico ufficiale, volte ad aggravare la condizione di
soggezione del ricorrente, salvo il rilievo della sottolineata convenienza
dell’accordo e salva altresì la concreta dinamica degli accordi sul prezzo.
2.8. Così introdotto il tema della trattativa, è agevole rilevare l’infondatezza
o piuttosto l’irrilevanza degli assunti difensivi incentrati sull’illogicità della
ricostruzione operata dalla Corte in ordine alla concreta definizione del quantum.
E’ certo invero che una trattativa sul prezzo vi fu, perché alla resa dei conti
il Garagozzo incassò una somma inferiore rispetto a quella inizialmente richiesta.
E’ stato peraltro sottolineato che il Petrilli destinò al Garagozzo una somma
superiore, sostanzialmente pari a quella inizialmente indicata, essendo stato
altresì prospettato che i due intermediari potessero aver artatamente convenuto
di continuare ad indicare come prezzo una somma superiore, per spartirsene tra
loro una parte.
Ma sul punto, non specificamente esaminato dal Tribunale, che ha
significativamente ritenuto di poter prescindere dallo specifico profilo, appare
decisivo il fatto che non esiste una tariffa corrente per patti illeciti del tipo di
quelli venuti in evidenza, peraltro coinvolgenti rilevantissime somme di denaro.

12

secondo la ricostruzione della vicenda emergente dalla sentenza impugnata,

Ne discende che la configurabilità di un patto corruttivo anziché di
un’induzione indebita discende dal fatto stesso che il privato avesse cercato
l’accordo con il funzionario, avviando la relativa trattativa ed esponendosi alla
relativa richiesta in vista del conseguimento dell’obiettivo, a prescindere dal fatto
che fosse stato alla resa dei conti spuntato o meno un prezzo inferiore e a
prescindere dal fatto che di ciò fosse stato o meno reso edotto il «dominus».
In tal senso risulta inconferente ogni censura riguardante il significato
attribuito, peraltro aggiuntivamente, dalla Corte alla trattativa sul prezzo

alle dichiarazioni di quest’ultimo.
Va comunque aggiunto che la Corte ha inserito il proprio giudizio nell’ambito
di una più ampia valutazione delle risultanze processuali, dovendosi dunque
respingere l’assunto che siano stati acriticamente ritenuti attendibili solo alcuni
passi delle dichiarazioni del Santoro, a fronte della complessiva ricostruzione
della vicenda, operata dai Giudici di merito seguendo il vincolante binario della
logica, che li ha condotti a valorizzare una sincronica lettura delle diverse
deposizioni e a dar conto dei singoli profili meritevoli di positivo scrutinio in
funzione della verifica della concreta dinamica degli avvenimenti.
2.9. Non sono infine fondate le doglianze formulate nel primo motivo di
ricorso con riguardo alla necessità di dar rilievo alla più generale intesa tra il
Garagozzo e il Mencucci che era venuta alla luce nel 2013 nel caso Laroma,
all’origine delle indagini attraverso le quali si era risaliti anche alla vicenda del
2010.
I Giudici di merito hanno esaminato a tal fine sia le specifiche modalità, che
avevano contrassegnato il caso Laroma, sia le conversazioni intercettate,
invocate nel motivo di ricorso, che avrebbero dovuto dimostrare quell’intesa.
Ma hanno tutt’altro che illogicamente rilevato che le modalità, francamente
induttive, dell’episodio Laronna, ben diverse da quelle venute in evidenza nel
caso in esame, non implicavano che anche tre anni prima il Garagozzo e il
Mencucci avessero già dato vita ad un’intesa stabile di analogo contenuto, in una
fase in cui l’arrivo a Firenze del Garagozzo era recente e la conoscenza del
Mencucci, come osservato dal Tribunale, era tutta da collaudare, potendosi al
contrario ritenere che l’illecito asse tra i due si fosse formato e rafforzato nel
tempo.
Né può dirsi che il tenore delle conversazioni intercettate, ove interpretate
nel senso di evocare anche l’episodio oggetto di verifica in questa sede, postuli
una dirimente lettura di segno diverso rispetto a quella complessivamente e non
illogicamente proposta dai Giudici di merito, non essendo dunque ravvisabile
neppure un travisamento della prova.

13

condotta dal Santoro, nel presupposto dell’attendibilità riconosciuta sul punto

3. Il secondo motivo è inammissibile, perché interamente volto a
prospettare una diversa ricostruzione del merito, ben oltre i limiti dello scrutinio
di legittimità, e comunque manifestamente infondato.
3.1. Si assume che il Petrilli avrebbe subito un accertamento pretestuoso e
che poi indebitamente sarebbero state respinte le richieste di annullamento in
autotutela, quale strumento di pressione, poi concretamente esplicitata dal
Mencucci su incarico del Garagozzo.

che fin dal primo grado avevano peraltro avuto idonea risposta.
3.2. Va in proposito rilevato che del tutto inconferente deve considerarsi la
fondatezza o meno dell’originario accertamento nei confronti della figlia del
Petrilli, giacché la via maestra del ricorso era venuta meno solo per la negligenza
della parte, che aveva fatto scadere i relativi termini, rendendo l’accertamento
definitivo.
D’altro canto i Giudici di merito hanno ampiamente chiarito come, al di là
della previsione della possibilità per l’amministrazione finanziaria di agire in
autotutela, per emendare atti illegittimi o infondati, la richiesta di annullamento
in autotutela non possa essere utilmente formulata dal privato se non deducendo
un rilevante interesse generale per l’amministrazione, unico presupposto che
potrebbe essere poi fatto valere avverso un diniego, essendo invece precluso
ogni riferimento a vizi dell’accertamento (sul punto la giurisprudenza di
legittimità risulta consolidata: Cass. Civ. Sez. 5, n. 1965 del 26/1/2018, rv.
646810-01; Cass. Civ., Sez. 5, n. 14243 del 8/7/2015, rv. 635875-01; Cass.
Civ. Sez. 5, n. 3442 del 20/2/2015, 634479-01; Cass. Civ. Sez. 6-5, n. 25524
del 2/12/2014, rv. 633652.01; Cass. Civ. Sez. 5, n. 11457 del 12/5/2010, rv.
612986-01).
3.3. Ne discende che risulta inconfigurabile una condotta induttiva ascrivibile
al Garagozzo, sia pur per il tramite del Mencucci, mentre l’attivazione del
Mencucci, come segnalato dal Tribunale, veniva ancora una volta ad assumere
un significato diverso, cioè quello dell’utilizzazione di quell’improprio canale per
realizzare un obiettivo non altrimenti raggiungibile (si rinvia sul punto all’analisi
delle dichiarazioni del Petrilli, reputate in varia guisa inattendibili, di cui alle
pagg. 48 segg. della sentenza di primo grado).
Né può dirsi in tale prospettiva travisato o illogicamente valutato il passo
delle dichiarazioni del Mencucci, da cui emerge che costui aveva detto al Petrilli,
sostanzialmente quale tramite del Garagozzo, che gli «merita pagare»,
dovendosi comunque considerare ancora una volta il tipo di relazione venutasi ad
instaurare tra i vari soggetti, che, secondo la non illogica valutazione dei Giudici

14

Si tratta della riproduzione di doglianze che erano state già prospettate e

di merito, non avrebbe potuto intendersi quale risultato di un abuso induttivo, in
assenza di una mirata strumentalizzazione dei poteri, ma quale paritaria e
prezzolata intesa, destinata a favorire il privato e rappresentata dal
riconoscimento delle c.d. spese vive al Garagozzo (cfr. pag. 51 della sentenza del
Tribunale).
Va d’altro canto rimarcato che in concreto l’annullamento colpì l’intero
accertamento e fu seguito dall’adozione di un accertamento diverso, suscettibile
di specifica impugnazione, in ragione non dell’accoglimento delle deduzioni

nel calcolo della consistenza dell’immobile della contribuente, che avrebbe potuto
trovare riconoscimento in una semplice rettifica, non incidente sulla definitività
dell’accertamento: lo stesso Petrilli, nelle dichiarazioni riportate nella sentenza di
primo grado (pag. 50), dà atto che tale meccanismo era stato specificamente
individuato come idoneo a giungere al risultato sperato e che in relazione a ciò
era previsto il compenso per il Garagozzo, evidentemente correlato non a
condotta induttiva ma all’ausilio prestato.
Deve aggiungersi che la Corte non ha inteso affatto affermare che il Petrilli
avesse omesso deliberatamente di impugnare nei termini l’accertamento, ma che
egli era assistito dalla consapevolezza di poter accedere ad un percorso
privilegiato, circostanza tale da escludere in radice la configurabilità dello
sfruttamento di una condizione di soggezione.
3.4. Solo di passaggio, per quanto il tema non abbia formato oggetto di uno
specifico motivo di ricorso, ma sia stato solo genericamente evocato attraverso il
riferimento alla legittimità dell’esercizio del potere annullamento in autotutela,
deve ribadirsi la correttezza della qualificazione giuridica del fatto contestato al
capo G) come corruzione propria: proprio la strumentalità, emergente dalle
richiamate dichiarazioni del Petrilli, tra l’annullamento dell’accertamento, in
realtà divenuto ormai definitivo, e la possibilità di impugnare il nuovo atto di
accertamento, attesta lo sviamento della funzione del Garagozzo, che in
violazione dei canoni dell’imparzialità e del buon andamento della P.A. ha
strumentalmente utilizzato il meccanismo offerto dall’ordinamento, ben oltre la
finalità di assicurare un preciso ricalcolo della consistenza dell’immobile, che
avrebbe potuto dare luogo ad una mera rettifica, come suggerito dall’ufficio
legale (pag. 46 della sentenza di primo grado), consentendo al ricorrente di
impugnare funditus il nuovo accertamento, in cambio della somma di denaro
erogata dal Petrilli tramite il Mencucci.

15

inerenti alla fondatezza della pretesa impositiva, ma solo di una parziale modifica

4. Sul piano logico si impone ora l’esame del quarto motivo di ricorso e del
secondo motivo aggiunto, che concernono il tema della qualificazione della
corruzione di cui al capo E).
4.1. Deve subito osservarsi che l’assunto esposto nel motivo nuovo in ordine
alla mancata valutazione delle doglianze sollevate con il motivo aggiunto di
appello è generico, giacché grava sul ricorrente l’onere di illustrare
specificamente i temi dedotti, cui la Corte avrebbe omesso di fornire risposta,
ben potendo la motivazione tener conto di argomenti difensivi, superandoli sulla

Cass. Sez. 3, n. 35964 del 4/11/2014, dep. nel 2015, B., rv. 264879; Cass. Sez.
6, n. 21858 del 19/12/2006, dep. nel 2007, Tagliente, rv. 236689).
4.2. Per il resto deve aversi riguardo a quanto dedotto nel terzo motivo e
richiamato nel quarto, al fine di dimostrare la conformità all’ordinamento degli
atti di accertamento con adesione.
In tale prospettiva il motivo è infondato, dovendosi confermare la
qualificazione del fatto come corruzione propria.
4.3. Sul punto i Giudici di merito hanno ampiamente motivato, sottolineando
innanzi tutto la legittimità dell’originario accertamento, fondato sul rilievo della
pratica elusiva e dell’abuso del diritto, attraverso cui, per il tramite di una serie
articolata e connessa di operazioni societarie, non aventi in realtà alcuna ragione
specifica diversa da quella di assicurare un beneficio fiscale, era stato sottratto a
tassazione il reddito di impresa della società Impresa dr. Ing. Giovanni Tognozzi
s.p.a., relativo all’esercizio 1/5/2005-30/4/2006.
In particolare è stato sottolineato come: 1) fossero state artatamente create
le società Venere e Minerva, quali partecipanti al 50%, ma in realtà mere scatole
vuote; 2) in data 26/4/2006 la società Impresa dr. Ing. Giovanni Tognozzi s.p.a.
avesse dichiarato di avvalersi del regime di trasparenza fiscale di cui all’art. 115,
comma 1, d.P.R. 917 del 1986, con imputazione del reddito alle partecipanti, il
cui esercizio, sfalsato, decorreva da gennaio a dicembre; 3) la partecipazione
fosse stata iscritta all’attivo circolante delle due società; 4) infine in data
29/12/2006 tali società avessero ceduto la partecipazione a Tognozzi Petrilli
Group, denunciando una nninusvalenza di complessivi euro 20.486.144,00 (euro
10.243,072,00 per ciascuna), derivante dalla differenza tra prezzo di cessione e
costo fiscale della partecipazione, cui erano da aggiungersi gli utili non distribuiti
ai soci, per un ammontare di euro 20.686.144,00, con l’effetto di azzerare la
tassazione sui redditi di Impresa dr. Ing. Giovanni Tognozzi s.p.a., che erano
stati dichiarati nella misura di euro 21.886.144,00 e poi traslati in ragione di
euro 10.943.072,00 per ciascuna società partecipante.

16

base di un ragionamento che ne sottenda l’infondatezza (sul punto si rinvia a

Il Tribunale e la Corte hanno posto in luce le ragioni per cui l’operazione non
rispondeva ad alcun canone di concreta utilità, a fronte di quelli dichiarati,
essendo peraltro particolarmente significative le modalità utilizzate, tra le quali,
sintomaticamente importante risultava quella costituita dall’iscrizione delle
partecipazioni nell’attivo circolante, attestante di per sé il carattere meramente
transeunte e strumentale della partecipazione, in funzione dell’obiettivo
perseguito.
Va d’altro canto osservato che il Tribunale ha esaminato ogni specifico

nitide risposte.
E comunque è d’uopo rilevare che sul punto, in questa sede, non sono stati
formulati specifici rilievi.
Può dirsi dunque che la complessiva operazione avesse assunto i tratti
dell’elusione di imposta e dell’abuso del diritto, secondo quanto desumibile da
una progressiva elaborazione normativa e giurisprudenziale, a partire soprattutto
dall’introduzione dell’art. 37-bis nel d.P.R. 600 del 1973 da parte dell’art. 7 digs.
358 del 1997, fino ad arresti della giurisprudenza di legittimità (fra l’altro Cass.
Civ., Sez. 5, n. 21221 del 29/9/2006, rv. 593682-01), ispirati anche da pronunce
della Corte di Giustizia U.E., culminati nel principio da ultimo affermato dalle
Sezioni Unite della Corte di cassazione (Cass. Sez. U. Civ., 30055 del
23/12/2008, rv. 605851 -01).
E’ stato altresì rilevato dai Giudici di merito come l’accertamento avesse
ricevuto l’avallo anche dell’Agenzia Regionale delle Entrate nell’ottobre 2009.
Da ciò avrebbe dovuto discendere l’inopponibilità all’Amministrazione
finanziaria delle operazioni elusive, con conseguente recupero di imposta.
4.4. I rilievi formulati in questa sede hanno piuttosto riguardato gli atti di
accertamento con adesione, in effetti imputati quali atti contrari ai doveri di
ufficio del funzionario.
Sono stati richiamati i fondamenti normativi dell’accertamento con adesione
e si è sostenuto, alla luce delle circolari emanate, che siffatto accertamento è
correlato alla misurazione di un legittimo presupposto impositivo da
rideterminarsi nel quantum, tenendo conto degli elementi di valutazione addotti
dal contribuente in contraddittorio, salva la necessità che il potere discrezionale
dell’ufficio si estrinsechi in una valutazione complessa, correlata all’indice di
affidabilità dell’accertamento, a tal fine dovendosi in particolare tener conto che
nel caso in esame si trattava di applicazione di disposizioni antielusive e che si
doveva valutare il grado di sostenibilità della pretesa tributaria.
4.5. Orbene, su tali punti i Giudici di merito si sono pronunciati con nitidi
rilievi che hanno fornito idonee risposte ai quesiti sollevati.

17

aspetto invocato a fondamento dell’articolata operazione, fornendo in proposito

Il Tribunale in particolare ha sottolineato come l’atto di adesione avesse
riconosciuto l’esistenza dell’intento abusivo-elusivo, ma lo avesse rinvenuto in
capo alle due società Venere e Minerva, che avevano compensato il reddito
traslato e le minusvalenze su titolo «no pex», oltre che beneficiato in modo
indebito degli acconti pagati dalla Tognozzi s.p.a.
Su tali basi il contraddittorio era stato esteso alle due società, in vista di una
sincronica definizione delle posizioni, che coinvolgesse anche tali società.
In concreto era stato computato a carico della Tognozzi il reddito nei limiti

maggiore importo di euro 4.660.504,00.
Ma rileva il Tribunale come, smentendo il dato di partenza del
riconoscimento della natura elusiva-abusiva dell’operazione, l’atto di
accertamento avesse finito per affermare che l’intento elusivo non sarebbe stato
del tutto certo e quantificabile, cosicché le operazioni avrebbero potuto avere
una finalità diversa da quella fiscale.
In tale prospettiva si sottolinea come nell’invito fosse stata segnalata la
revoca dell’operazione di trasparenza ex art. 115 cit. e sottolineata l’eliminazione
delle variazioni in diminuzione per euro 10.843.72,00 di cui al rigo RF58, con
conseguente imposta a debito di euro 1.272.497,00: ma si osserva tuttavia che
nell’atto di accertamento al rigo RF58 era stata conservata la variazione in
diminuzione con la conseguenza di attribuire tra gli importi accertabili una
perdita per Minerva di euro 10.591.525,00 e per Venere di euro 10.591.547,00.
Alla resa dei conti, osserva il Tribunale come fossero stati utilizzati criteri del
tutto approssimativi e contraddittori, fino al punto che il recupero di imposta a
carico delle due società era risultato apparente, in quanto il debito era stato
compensato con il riconoscimento della facoltà di utilizzare il credito che risultava
dalle dichiarazioni Venere e Minerva: ma, come rilevato dal Tribunale, il credito
si fondava su un’operazione derivante dalla combinazione del regime della
trasparenza con quello della variazione in diminuzione delle perdite dedotte nella
dichiarazione dei redditi, incompatibile con il carattere elusivo-abusivo
dell’operazione nel suo complesso.
A fronte di ciò è stato rilevato che le deduzioni difensive non tenevano conto
dell’assenza di plausibili giustificazioni, della contraddittorietà dei risultati e del
tenore delle circolari, pur invocate ex adverso, che imponevano in realtà di
utilizzare non generiche formule di economicità dell’azione, di deflazione del
contenzioso e di celere acquisizione dei tributi, ove disancorati dalla specificità
delle posizioni fiscali interessate dal procedimento, non potendosi prescindere
dalla valutazione del contesto, nella fase di attribuzione dell’indice di affidabilità
dell’accertamento.

18

degli acconti versati, con riduzione ad euro 2.617.538,00 ed esclusione del

Anche la Corte territoriale ha posto in luce sul punto che l’atto di
accertamento con adesione non avrebbe potuto assumere natura genericamente
transattiva, ma avrebbe dovuto dar conto delle obiezioni del contribuente e del
margine di loro fondatezza, derivandone in questo caso che, se fosse stato
riconosciuto un apprezzabile interesse allo svolgimento delle operazioni
societarie, non avrebbe potuto farsi luogo a recupero di imposta, nel caso
opposto non essendo dato comprendere come sulla base di un percorso
trasparente potesse giungersi alle soluzioni proposte.

accertamento con adesione riflettono la necessità di addivenire ad un apparente
compromesso, muovendo dal teorico riconoscimento del carattere elusivoabusivo, ma poi, senza concreta spiegazione, disattendendolo, così da pervenire
a conclusioni imperscrutabili nei singoli passaggi e sostanzialmente volte a
vanificare il recupero di imposta e azzerare di fatto la tassazione del reddito di
impresa della Tognozzi s.p.a.
Appare in tale prospettiva determinante il carattere strumentale e
contraddittorio della soluzione escogitata, che eccede i limiti del corretto
esercizio della discrezionalità tecnica affidata alla P.A., al fine di addivenire in
contraddittorio alla commisurazione delle ragioni del contribuente: in particolare,
non viene preso in alcun modo in considerazione il fatto che fosse ormai
consolidato l’orientamento volto a dar rilievo all’abuso del diritto, non vengono
specificamente indicate le ragioni per cui alla complessa operazione potesse in
effetti corrispondere una concreta utilità, avuto riguardo allo specifico profilo
della trasparenza, realizzata mediante «scatole vuote», transitoriamente
operanti, e vengono congegnate soluzioni che si prefiggono di vanificare le
premesse, come posto in luce dal Tribunale in relazione allo scostamento tra
invito al contraddittorio, rivolto alle società, e atto di accertamento poi
sottoscritto, con in più il sostanziale azzeramento di ogni recupero, tramite la
riconosciuta possibilità alle due società di avvalersi del credito che risultava dalle
dichiarazioni, peraltro frutto di un’elaborazione elusiva.
4.7. Risultano del resto generici i rilievi difensivi che mirano a contestare
l’assunto della duplicazione del credito di imposta, fermo restando che il
Tribunale ha dato concretamente conto della spiegazione fornita al riguardo dal
consulente di parte, sottolineando le ragioni per cui in concreto il risultato
conseguito avrebbe dovuto reputarsi contrastante con le premesse (pagg. 26 e
27 della sentenza di primo grado).
Né avrebbe potuto valutarsi la consistenza degli atti di accertamento
considerando una percentuale di recupero pari al 36,7%, in realtà discendente

19

4.6. Deve in effetti convenirsi con i Giudici di merito che i combinati atti di

da profili non in contestazione e dunque non involgente il tema chiave
dell’inopponibilità radicale dell’operazione elusiva-abusiva.
Parimenti infondata risulta la pretesa di trarre argomenti dal fatto che agli
atti di accertamento avessero in varia guisa collaborato gli altri funzionari
dell’ufficio, sul punto essendo stato ampiamente sottolineato dal Tribunale come
in realtà il Garagozzo fosse risultato il «dominus» dell’operazione, non
idoneamente supportato da un consistente ausilio degli altri (si richiamano al
riguardo le osservazioni del Tribunale a pagg. 28 e 29), fermo restando che i

incentrata sulla deduzione di vizi specifici del ragionamento.
4.8. Si comprende dunque il motivo per cui gli atti di accertamento con
adesione debbano reputarsi il risultato di un preordinato sviamento della
funzione, non rilevando che in astratto potesse ammettersi l’accesso a quella
forma di confronto in contraddittorio, ma essendo determinante la circostanza
che, in violazione dei principi di imparzialità, trasparenza e buon andamento,
fosse stata seguita una procedura non lineare e opaca, tale da non assicurare
alcun concreto recupero di imposta, disattendendo nella sostanza la stessa
premessa della natura elusiva dell’operazione originata dall’opzione per la
trasparenza ex art. 115 cit.
Devono dunque in questa sede richiamarsi consolidati principi alla cui
stregua è ravvisabile il delitto di corruzione propria in presenza di un distorto
esercizio del potere discrezionale, propiziato dall’elargizione di un indebito
compenso e funzionale al conseguimento di un risultato predeterminato (Cass.
Sez. 6, n. 4459 del 24711/2016, dep, nel 2017, Fiorani, rv. 269613; Cass. Sez.
6, n. 6677 del 3/2/2016, Maggiore, rv. 267187; Cass. Sez. 6, n. 23354 del
4/272014, Conte, rv. 260533).
4.9. Va da ultimo rilevato che il reato non è estinto per prescrizione, non
essendo decorso il termine massimo di anni sette e mesi sei, in quanto dalla
sentenza di primo grado (pagg. 39 e 40) risulta che i pagamenti al funzionario,
dai quali, per effetto della natura progressiva della consumazione, deve farsi
decorrere il relativo termine (Cass. Sez. U. n. 15208 del 25/2/2010, Mills, rv.
246583; Cass. Sez. 6, n. 4105 del 1/12/2016, dep. nel 2017, Ferroni, rv.
269501), furono ultimati, stando al Petrilli, nel marzo del 2011 e, stando al
Santoro, attraverso frazionate dazioni, succedutesi a distanza di tempo, a partire
dal dicembre 2010, il che consente con certezza di escludere che i pagamenti
fossero stati ultimati entro 1’8 dicembre 2010.

5. Venendo da ultimo al terzo motivo e al primo motivo aggiunto,
riguardanti il tema della confisca, si rileva che gli stessi sono parimenti infondati.

20

rilievi sul punto risultano volti solo a prospettare una lettura alternativa, non

5.1. Deve in primo luogo rimarcarsi che non possono prendersi in
considerazione gli argomenti volti a censurare il proscioglimento della società e
la revoca della confisca nei confronti di quest’ultima, pronunciati dalla Corte nel
presupposto dell’intervenuto fallimento.
Va in effetti osservato che la revoca della confisca, che era stata disposta ai
sensi dell’art. 322-ter cod. pen., avrebbe dovuto comunque formare oggetto di
specifico esame e di puntuale motivazione, ben al di là della mera presa d’atto
dell’intervenuto fallimento.

il ricorrente non può dirsi legittimato ad interloquire «in peius» con riguardo alla
posizione di un diverso soggetto.
5.2. Deve tuttavia verificarsi se le doglianze del ricorrente siano fondate,
nella parte che concernono la confisca in concreto disposta e confermata a carico
del predetto.
Al quesito deve darsi risposta negativa.
5.3. Ai sensi dell’art. 322-ter, comma secondo, cod. pen. in caso di
condanna per il delitto di cui all’art. 321 cod. pen. (come nel caso di specie) è
sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto, salvo che
appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile,
la confisca di beni di cui il reo ha la disponibilità per un valore corrispondente a
quello di detto profitto.
Si avrà modo di tornare sul tema della concreta quantificazione.
Ma per intanto deve porsi in evidenza che, come esattamente rilevato dal
ricorrente, deve in primo luogo aggredirsi in via diretta ciò che forma oggetto del
profitto e solo nel caso, in cui ciò non sia possibile, procedersi alla confisca di
valore, cioè avente ad oggetto beni di valore corrispondente, anche se non
direttamente rivenienti dal reato.
Il profitto, com’è noto, «si identifica con il vantaggio economico derivante in
via diretta ed immediata dalla commissione dell’illecito» (Cass. Sez. U. n. 31617
del 26/6/2015, Lucci, rv. 264436).
Nel caso di specie il profitto va correlato alla condotta corruttiva.
Questa ha in concreto propiziato gli atti di accertamento con adesione che
sono valsi a vanificare gli effetti del precedente accertamento, fondato sul
presupposto del carattere elusivo-abusivo delle combinate operazioni societarie.
Avuto riguardo alla sostanziale sovrapponibilità della situazione con quella
che usualmente si registra in materia di reati tributari, possono richiamarsi i
principi a tal fine elaborati dalla giurisprudenza, alla cui stregua può aversi
riguardo al risparmio di spesa corrispondente al mancato pagamento del tributo

21

Ma sta di fatto che la parte pubblica non ha presentato impugnazione e che

(sul punto Cass. Sez. U. n. 18374 del 31/1/2013, Adami, rv. 255036, nonché
Cass. Sez. U. n. 10561 del 3071/2014, Gubert, sul punto non massimata).
Ciò significa che nel caso di specie avrebbe dovuto in primo luogo procedersi
alla confisca diretta del profitto, così specificamente individuato.
Ma è di tutta evidenza che nel caso di un risparmio di spesa la concreta
individuazione del profitto si risolve in un’operazione numeraria di sostanziale
traslazione in un corrispondente pecuniario, non potendosi affermare che il
risparmio si disperda in modo indeterminato su ogni tipo di bene di pertinenza

In altre parole lo stesso implica l’individuazione di somme pari all’entità del
risparmio, le quali in presenza di un valore di tipo accrescitivo debbono
fungibilmente reputarsi corrispondenti al profitto e suscettibili dunque di confisca
diretta (sul punto della confiscabilità diretta del denaro, Cass. Sez. U. n. 31617
del 26/6/2015, Lucci, rv. 264437; sulla confisca del denaro, quale
corrispondente al risparmio, in motivazione, Cass. Sez. 4, n. 10418 del
24/1/2018, Rubino, rv. 272238, e Cass. Sez. 3, n. 40362 del 6/7/2016,
D’Agostino, rv. 268587).
In forza dei principi generali è tuttavia possibile che si stabilisca un diretto
collegamento tra il profitto immediato e la sua conseguente trasformazione in
altro tipo di bene, quale forma di reimpiego di esso (Cass. Sez. U. n. 10280 del
25710/2007, dep. nel 2008, Miragliotta, rv. 238700; Cass. Sez. 6, n. 7896 del
15/12/2017, dep. nel 2018, Zullo, rv. 272482): tale reimpiego diventerà in tal
modo suscettibile di confisca diretta, peraltro purché la diretta correlazione
causale con il reato e con il profitto da esso immediatamente derivante venga
concretamente attestata e comprovata, oltre che, se del caso, in primo luogo
allegata dal diretto interessato.
In conclusione può dunque affermarsi che nel caso di specie avrebbe dovuto
in primo luogo procedersi alla confisca diretta di somme di denaro, costituenti il
corrispondente del profitto, derivante dal risparmio di spesa, ovvero di beni
costituenti il reimpiego di quel risparmio.
5.4. Il ricorrente ha contestato la legittimità della confisca disposta a suo
carico, specificamente osservando che avrebbe dovuto procedersi alla confisca
diretta del profitto e rilevando che lo stesso era stato acquisito dalla società e si
era conservato all’interno di essa, al di là del sopravvenuto fallimento.
A tal fine il ricorrente ha anche segnalato che era stata chiesta la
rinnovazione dell’istruzione dibattimentale e che comunque era stata prospettata
la capienza del patrimonio immobiliare ancora rinvenibile presso la società.
Si tratta di assunto in linea di principio fondato ma in concreto non
meritevole di accoglimento, anche perché sorretto da motivi sul punto generici.

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del soggetto che ha fruito di esso.

5.5. Va in effetti rilevato che può disporsi la confisca diretta del profitto
rimasto nella disponibilità della persona giuridica a fronte di reato tributario
commesso dal suo legale rappresentante (Cass. Sez. U. n. 10561 del 30/1/2014,
Gubert, rv. 258647): nel caso di specie non si tratta di reato tributario ma di
situazione che, per quanto già rilevato, risulta sovrapponibile, in quanto il
profitto della corruzione si è tradotto nella vanificazione di un precedente
accertamento.
Il ricorrente, come detto, ha dedotto che il profitto era stato acquisito dalla

l’operazione elusiva era riconducibile all’improprio uso della trasparenza di cui
all’art. 115 d.P.R. 917 del 1986 da parte della società Impresa dr. Ing. Giovanni
Tognozzi s.p.a., non essendo stati prospettati nelle sentenze di merito elementi
che consentano di ricondurre l’acquisizione del profitto direttamente al
ricorrente, anche al di là del suo ruolo di legale rappresentante.
In tale prospettiva il profitto avrebbe dovuto ricercarsi nella società, poi
fallita.
Ma a tal fine avrebbe dovuto farsi riferimento a disponibilità liquide o a
specifici investimenti del risparmio di spesa riveniente dall’attività corruttiva (sul
punto in motivazione, Cass. Sez. 4, n. 10418 del 24/1/2018, Rubino, rv.
272238, cit.).
Così inquadrato il problema, appare evidente che l’impostazione del
ricorrente non trova riscontro, in punto di fatto, nella concreta individuazione dei
beni costituenti il profitto, che avrebbero potuto essere aggrediti prima di
ricorrere alla confisca per equivalente.
Va infatti considerato che, a fronte di sequestri eseguiti nel corso del
procedimento anche nei confronti della società, e poi revocati, il ricorrente non
ha specificamente prospettato che quei beni fossero riconducibili al risparmio di
spesa o che ve ne fossero altri costituenti lo specifico profitto del reato.
D’altro canto il ricorrente ha in questa sede rilevato che il profitto era
rimasto nella società e ha invocato la disponibilità di un patrimonio immobiliare
capiente, rispetto all’ammontare del profitto suscettibile di confisca, ma ciò si
traduce in realtà in una prospettazione aspecifica e inidonea, non essendo
concretamente segnalata la disponibilità di denaro o di beni costituenti reimpiego
del profitto e soprattutto non essendo dedotta la correlazione causale tra la
disponibilità di determinati beni e il reato commesso, condizione necessaria
perché possa parlarsi di beni soggetti a confisca diretta (in via generale si rileva
anche la sussistenza di un onere di allegazione del soggetto interessato: Cass.
Sez. 3, n. 43816 del 1/12/2016, Di Florio, rv. 271254).

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società, il che corrisponde ad un dato logico, avuto riguardo al fatto che

In definitiva si finisce per invocare una generica dispersione del profitto nel
patrimonio, ciò che in realtà non consente di definire gli specifici contenuti del
profitto derivante dal reato, ma apre la strada alla confisca per equivalente.
Ed a questo punto la confisca, ai sensi dell’art. 322-ter, cod. pen., ben
poteva e doveva riguardare i beni del soggetto chiamato a rispondere del reato,
nel caso di specie lo stesso ricorrente.
5.6. E’ stata però contestata la quantificazione della confisca, osservandosi
che avrebbe dovuto aversi riguardo al profitto specificamente riveniente dalla

adesione, si sarebbe dovuto considerare, a fronte di un meccanismo di
definizione in sé lecito, quale potesse essere il diverso recupero di imposta che
avrebbe potuto discendere dall’utilizzo di criteri di accertamento non condizionati
dal patto corruttivo, a fronte della riconosciuta difficoltà di individuare un preciso
comportamento corretto del contribuente da opporre al comportamento
adottato.
Tale impostazione non può trovare accoglimento.
5.7. E’ indubitabile che debba aversi riguardo al profitto riveniente dal patto
corruttivo.
Ma si è già avuto modo di rilevare che l’oggetto dedotto nel patto era
costituito dalla vanificazione del recupero di imposta a carico della società
Impresa dr. Ing. Giovanni Tognozzi s.p.a., riveniente dal precedente verbale di
accertamento, tramite l’utilizzo dello strumento dell’accertamento con adesione,
che, esteso alle due società Venere e Minerva, aveva condotto all’azzeramento
degli effetti di quel primo accertamento con le modalità sopra ricordate e
ampiamente descritte dai Giudici di merito.
Per quanto l’accertamento con adesione costituisca strumento di definizione
astrattamente lecito, va nondimeno osservato come nel caso di specie esso abbia
costituito lo strumento per annullare gli effetti sfavorevoli al Petrilli, in tale
annullamento dovendosi ricercare dunque il concreto profitto derivante dal patto
corruttivo, che, come si è avuto modo di rilevare, corrisponde nella sostanza ad
un cospicuo risparmio di imposta e dunque di spesa.
Non ha alcun fondamento l’assunto difensivo secondo cui dovrebbe ricercarsi
il diverso legittimo punto di equilibrio raggiungibile con un atto di accertamento
con adesione non condizionato dalla corruzione.
In primo luogo si tratta di una prospettiva meramente esplorativa e non
concretizzabile, mentre si è rilevato come la corruzione abbia in radice
condizionato l’esercizio della discrezionalità tecnica e come dunque abbia dato
luogo all’elaborazione non di un ipotetico atto ma di quello specifico atto di
accertamento, che deve considerarsi inficiato dal pregiudiziale sviamento e che si

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corruzione e che, essendosi quest’ultima proiettata sugli atti di accertamento con

è tradotto nel conseguimento del risparmio di spesa corrispondente all’imposta di
cui è stato vanificato il recupero.
In secondo luogo va rimarcato come i Giudici di merito, senza che sul punto
siano state formulate in questa sede specifiche doglianze, abbiano sottolineato la
correttezza del primo accertamento, fondato sulla puntuale applicazione del
principio di inopponibilità di operazioni elusive-abusive, nella rilevata assenza di
concrete giustificazioni di tipo imprenditoriale, diverse da quella del
conseguimento del beneficio fiscale, con la conseguenza che l’accertamento

profitto riveniente dal patto corruttivo.
Per ogni ulteriore considerazione sul punto formulata nel terzo motivo
devono richiamarsi i rilievi già formulati (cfr. retro al punto 4 del Considerato in
diritto).
5.8. Resta da esaminare il tema della inclusione o meno nel profitto anche
degli importi corrispondenti ad interessi e sanzioni.
Si è infatti invocato l’orientamento secondo cui in materia di reati tributari
non dovrebbe conteggiarsi nel profitto anche siffatta specie di importi, costituenti
semmai il costo del reato (sul punto fra l’altro Cass. Sez. 3, n. 28047 del
20/1/2017, Giani, rv. 270429), potendosi fare eccezione solo per il reato di
sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte.
In realtà, al di là del riscontro, in tema di reati tributari, di un orientamento
non univoco (propende per l’inclusione nel profitto non solo del risparmio di
spesa ma anche di vantaggi riflessi ulteriori, derivanti da interessi e sanzioni,
Cass. Sez. 3, n. 11836 del 4/7/2012, Bardazzi, rv. 254737), è significativo che vi
sia concordia nel riconoscimento dell’inclusione di interessi e sanzioni nel caso
della sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte (sul punto in effetti
Cass. Sez. U. n. 18374 del 31/1/2013, Adami, rv. 255036, cit.; Cass. Sez. 3, n.
28047 del 20/1/2017, Giani, rv. 270429, cit.).
Va infatti considerato che nel caso in esame è dato cogliere essenzialmente
il profilo della vanificazione dell’accertamento, che di per sé includeva non solo
un recupero di imposta ma anche le voci strettamente collegate degli interessi e
delle sanzioni: in altre parole, diversamente da un reato tributario consistente
nella sottrazione di cespiti ad imposizione, nella presente vicenda il patto
corruttivo, azzerando gli effetti del primo accertamento, ha comportato che il
risparmio di spesa riguardasse non solo le imposte ma anche gli accessori
specificamente determinati, riproducendosi una situazione sul piano logico
corrispondente a quella della sottrazione fraudolenta al pagamento di somme
definite, già includenti interessi e sanzioni.

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vanificato ben può costituire il parametro di riferimento per la definizione del

Proprio in ragione del fatto che deve tenersi conto delle conseguenze del
patto corruttivo, l’entità della confisca per equivalente deve essere dunque
calcolata tenendo conto delle voci aggiuntive, infondatamente contestate.
In tale ottica risulta correttamente determinata l’entità della confisca, pari
ad euro 6.726.538,92, calcolata muovendo dagli importi oggetto del primo
accertamento, da cui dovevano essere detratti gli acconti pagati, in misura di
euro 2.621.000,00 -peraltro confermati nell’atto di accertamento con adesione-,
e pervenendosi in tal modo alla somma precisa di euro 4.604.889, cui vanno

1.539.597,55), già definiti in relazione al primo accertamento.

6. Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle
spese processuali.

P. Q. M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
Così deciso 1’8/6/2018

aggiunti, come rilevato, interessi e sanzioni (euro 582.052,27+euro

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