Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 38476 del 25/05/2018


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 38476 Anno 2018
Presidente: CERVADORO MIRELLA
Relatore: MONACO MARCO MARIA

SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
SAID ABD ELMAGID MOUSTAFA nato il 24/08/1981
ABDELAZIZ HUSSEIN ABDELAZIZ HUSSEIN nato a KALUBIA( EGITTO) il
21/10/1989
REZK MOHAMED MOHAMED SAEED nato a SHARKIA( EGITTO) il 23/09/1982

avverso la sentenza del 27/09/2017 del TRIBUNALE di MILANO
udita la relazione svolta dal Consigliere MARCO MARIA MONACO;
lette le conclusioni del Procuratore Generale LUIGI ORSI per l’inammissibilità

RITENUTO IN FATTO E IN DIRITTO

1. Il TRIBUNALE di MILANO, Sezione XI Penale, con sentenza in data
27.09.2017, applicava nei confronti di

SAID ABD ELMAGID MOUSTAFA,

ABDELAZIZ HUSSEIN ABDELAZIZ HUSSEIN, REZK MOHAMED MOHAMED SAEED,
la pena concordata dalle parti ex art. 444 c.p.p., in relazione ai reati di cui agli
artt. 416 e 633 cod. pen.

2. Avverso la pronuncia tutti gli imputati, a mezzo di un unico difensore,
prepongono ricorso deducendo, nel corpo di un unico motivo, due diverse
questioni.

Data Udienza: 25/05/2018

2.1. In via principale e prevalente, l’inosservanza e l’erronea applicazione
degli articoli 125 e 129 cod. proc. pen. quanto alla carenza di motivazione circa
la “insussistenza di cause di non punibilità e di sussistenza del fatto e di
responsabilità dell’imputato”. In specifico il difensore evidenzia come la sentenza
conterrebbe solo la motivazione in merito all’entità della pena e sul punto
dedotto si limiti ad affermare, in assenza di qualsivoglia specifica valutazione,
che tali cause non sussistono.
2.2. Nel medesimo motivo, quasi incidentalmente, il difensore deduce

degli elementi costitutivi dei rati contestati. Quanto al reato di cui all’art. 416
cod. pen., in specifico, il giudice avrebbe omesso di verificare, e
conseguentemente motivare, circa la esistenza o meno del vincolo associativo
tra gli imputati e della effettiva realizzazione di una struttura organizzativa,
anche minima. Circostanza questa tanto più significativa laddove si consideri che
le occupazioni abusive, reati fine della associazione, sarebbero state sempre
consumate da soggetti singoli e, per lo più, destinate a soddisfare le esigenze
degli stessi imputati.
2.3. In data 20/4/2018 è pervenuta la requisitoria del Procuratore
Generale che, richiamata la giurisprudenza di legittimità sul punto, ha chiesto
dichiararsi l’inammissibilità dei ricorsi.

3. I ricorsi sono inammissibili
3.1. Il primo motivo, in astratto ammissibile considerata la data della
presentazione della richiesta anteriore al 3 agosto 2017, è manifestamente
infondato.
I ricorrenti non hanno indicato quale sia la causa di proscioglimento
prevista dall’art. 129 cod. proc. pen., che, erroneamente, non sarebbe stata
considerata dal giudice nella decisione impugnata. Per tale motivo l’atto di
gravame difetta dei requisiti previsti dall’art. 581 I comma lett. c).
Ad avviso di questa Corte, inoltre, “La sentenza del giudice di merito che
applichi la pena su richiesta delle parti, escludendo che ricorra una delle ipotesi
di proscioglimento previste dall’art. 129 c.p.p., può essere oggetto di controllo di
legittimità, sotto il profilo del vizio di motivazione, soltanto se dal testo della
sentenza impugnata appaia evidente la sussistenza di una causa di non punibilità
ex art. 129 c.p.p. (Sez. 1, n. 4688 del 10/1/2007, Rv 236622).
La struttura negoziale del rito, poi, impone di ritenere che ”

…l’accordo

intervenuto esonera l’accusa dall’onere della prova e comporto che la sentenza
che recepisce l’accordo fra le parti, sia da considerare sufficientemente motivata

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altresì l’erronea applicazione della legge penale quanto alla ritenuta sussistenza

con una succinta descrizione del fatto (deducibile dal capo di imputazione) con
l’affermazione della correttezza della qualificazione giuridica di esso, con il
richiamo all’art. 129 cpp per escludere la ricorrenza di alcuna delle ipotesi ivi
previste, con la verifica della congruità della pena patteggiata ai fini e nei limiti
dell’art. 27 Cost”(Sez. 1, n. 4688 del 10/1/2007, Rv 236622).
Nel caso specifico, peraltro, la motivazione della sentenza -con il
riferimento agli atti di indagine specificamente indicati: annotazione finale della
polizia giudiziaria, denunce dell’ALER, esiti delle attività di intercettazione

sede di legittimità.
3.2. Il secondo motivo, pure riferito a questione in astratto deducibile a
seguito della modifica dell’art. 448 cod. proc. pen. con. L. 103/2017, considerata
la costante giurisprudenza di questa Corte sul punto, è manifestamente
infondato.
A far data da Sez. Un. Pen., n. 5 del 19/1/2000, Rv 215825 la possibilità
di ricorrere per cassazione deducendo l’erronea qualificazione giuridica è
pacificamente ammissibile. Come evidenziato dalle Sezioni Unite, infatti, la
qualificazione giuridica del fatto, direttamente riferibile al corretto esercizio
dell’azione penale e, quindi, al principio di obbligatorietà della stessa, non può
essere sottratto al controllo di legittimità: “Significa, in altre parole, collocare
quel fatto nell’alveo della legge, sicchè può dirsi che il potere del giudice di
controllare la corretta definizione giuridica diversa è previsto a presidio della
obbligatorietà della legge penale (cfr. cass. 18 settembre 1997, Donna),
obbligatorietà che, è superfluo rilevarlo, non può non essere sottratta per
definizione alla disponibilità delle parti”. In tale corretto e delimitato contesto,
pertanto, la questione può costituire oggetto di doglianza solo ed esclusivamente
qualora l’errore in cui è incorso il giudice sia ravvisabile ictu ocu/i ovvero le parti
abbiano, violando la legge, negoziato aspetti che sono sottratti alla loro
disponibilità.
La giurisprudenza successiva sul punto, infatti, ha evidenziato come tale
possibilità sia limitata ai soli casi in cui l’errore sia manifesto “e tale, quindi, da
far ritenere che vi sia stato un indebito accordo non sulla pena ma sul reato,
dovendosi, per converso, escludere detta possibilità, anche sotto il profilo del
difetto di motivazione, qualora la diversa qualificazione presenti oggettivi margini
di opinabilità”(Sez. 3, n. 44278 del 23/10/2007, Rv 238286; più recentemente e
sostanzialmente negli stessi termini cfr. anche Sez. 6, n. 6156 del 14/1/2013, Rv
254897: “in tema di giudizio attinente l’applicazione di pena su richiesta delle
parti, ha il dovere potere di verificare la corretta qualificazione giuridica del fatto
contestato, determinante essendo tale indagine preliminare per la conseguente

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telefonica- è coerente con la struttura del rito e non è per tanto censurabile in

correttezza della misura della pena da applicare in rapporto alla stessa
correttezza dell’accordo delle parti al riguardo. Del resto, in subiecta materia,
s’impone la riaffermazione del principio di diritto già da tempo ribadito da questo
giudice di legittimità in tema di applicazione della pena concordata. È noto,
infatti, che tale rito speciale comporta un accordo sulla pena, ma non anche sul
fatto-reato e quindi il giudice ha l’obbligo di procedere ex officio a verifica non
meramente formale (limitata cioè all’esattezza della qualificazione giuridica del
fatto e dunque alla correttezza estrinseca della contestazione), ma anche
sostanziale e specifica, vale a dire estesa alla fattispecie concreta quale emerge

dagli atti. D’altra parte, dall’obbligo di correlazione tra imputazione e sentenza,
applicabile anche nei procedimenti speciali, consegue che, quando il giudice
ritenga di dover pervenire ad una diversa qualificazione giuridica del fatto, non
potendo egli modificare l’imputazione, deve respingere la richiesta e procedere
con rito ordinario, mentre se accerta la diversità del fatto deve necessariamente
restituire gli atti al PM”).
Tale interpretazione che, oltre alla verifica di cui all’art. 129 cod. proc.
pen., limitava l’intervento del controllo di legittimità alle sole questioni afferenti
la possibile violazione di principi di rango costituzionale, quali appunto
l’obbligatorietà dell’azione penale, il divieto di irrogare pene illegali ed il principio
del contraddittorio (in questo caso inteso come verifica della libera espressione
della volontà delle parti), ha trovato ulteriore ed espressa conferma nella nuova
formulazione del comma 2 bis dell’art. 448 cod. proc. pen. che, appunto,
circoscrive a tali tassativi casi la possibilità di ricorrere in cassazione avverso ea
sentenze pronunciate ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen.
Nello specifico caso oggetto del ricorso, comunque, la qualificazione
giuridica appare corretta e la motivazione sul punto -nella quale vi è il rinvio alla
“istruttoria preliminare espletata”, evidentemente riferita agli atti già citati in
precedenza, cioè l’annotazione finale della polizia giudiziaria, le denunce
dell’ALER e gli esiti delle attività di intercettazione telefonica- è sintetica ma
completa e coerente con la struttura negoziale e semplificata del rito.
La doglianza, d’altro canto, in assenza di elementi che potessero
sollecitare il giudice a ritenere che la qualificazione giuridica fosse errata,
elementi peraltro neanche indicati dalla difesa né al primo giudice né nell’atto di
ricorso, è generica.
Alla inammissibilità dei ricorsi consegue la condanna dei ricorrenti al
pagamento delle spese processuali, nonché, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen.
di euro duemila a favore della cassa delle ammende.

P.Q.M.

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Ì2-

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle
spese processuali e della somma di euro duemila ciascuno in favore della cassa
delle ammende.

Così deciso il 25/05/2018

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