Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 38364 del 23/05/2018

Penale Sent. Sez. 4 Num. 38364 Anno 2018
Presidente: FUMU GIACOMO
Relatore: BRUNO MARIAROSARIA

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
A.A.

avverso la sentenza del 29/05/2015 della CORTE APPELLO di FIRENZE
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere MARIAROSARIA BRUNO;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore OLGA MIGNOLO
che ha concluso chiedendo l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata
perchè il reato è estinto per intervenuta prescrizione.
E’ presente l’avvocato CARLONI RICCARDO del foro di LUCCA in difesa di A.A., che associandosi alle richieste del Procuratore Generale, insiste per
l’accoglimento del ricorso.

Data Udienza: 23/05/2018

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. A.A., a mezzo del difensore, ha proposto ricorso per
Cassazione avverso la sentenza della Corte di Appello di Firenze con
cui, in riforma della sentenza G.u.p. Tribunale di Lucca, ritenuto
responsabile del reato di cui all’art. 73, comma quinto, d.P.R.

reclusione ed euro 600,00 di multa.
L’esponente deduce nel primo motivo violazione di legge e vizio
di motivazione, affermando che: il giudice d’appello aveva offerto
una motivazione del tutto carente; non aveva tenuto conto in modo
corretto delle risultanze processuali; non si era confrontato con le
argomentazioni del giudice di primo grado il quale aveva escluso
l’offensività della condotta addebitata al ricorrente, in considerazione
della circostanza che il principio attivo contenuto nelle piantine
detenute era inferiore al limite quantitativo massimo previsto dalla
normativa.
Nel secondo motivo chiede l’applicazione della causa di non
punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen., essendo evidente, si legge
nel ricorso, la particolare tenuità del fatto.
2. I motivi proposti dal ricorrente risultano manifestamente
infondati, pertanto il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
All’atto dell’intervento della polizia giudiziaria, il ricorrente era
trovato in possesso di nove piante di cannabis indica, sei delle quali in
vaso e tre in fase di essiccamento. Dall’analisi effettata sulla sostanza
erbacea risultava una concentrazione di principio attivo molto
modesta, ma tuttavia esistente, avendo gli accertamenti rilevato,
come si legge in sentenza, una percentuale di principio attivo delta 9
THC, pari allo 0,38%, 0,85%, 0,83%.
Alla luce di tali emergenze probatorie, il giudice di appello, in
ossequio al principio consolidato espresso dalla Corte di legittimità in
materia, ha evidenziato che la coltivazione di piante dalle quali sono
estraibili sostanze stupefacenti, è condotta sempre penalmente
rilevante, anche quando sia stata realizzata per la destinazione del
prodotto all’uso personale (così Sez. U, n. 28605 del 24/04/2008, Di
Salvia, Rv. 239920).

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309/90, è stato condannato alla pena di mesi due giorni venti di

Ha ricordato come le Sezioni Unite, nella motivazione della
pronuncia citata, abbiano puntualizzato che il divieto assoluto e
generale di coltivazione di piante stupefacenti, sia pure nella forma
domestica, discenda dalle caratteristiche precipue della coltivazione,
che contribuisce “ad accrescere (in qualunque entità), pure se mirata
a soddisfare esigenze di natura personale, la quantità di sostanza
stupefacente esistente”.

Il rigore di tale impostazione è

contemperato dall’unico limite rappresentato dall’inoffensività della

Unite, solo allorquando la coltivazione sia assolutamente inidonea a
porre a repentaglio il bene giuridico protetto, il che si verifica
allorquando la sostanza ricavabile dalla coltivazione non sia
suscettibile di produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile.
Poiché nel caso in esame l’imputato aveva coltivato piante di
cannabis indica e poiché nel prodotto essiccato era stata accertata la
presenza di principio attivo, la coltivazione, si legge nella
motivazione, era da reputarsi idonea a ledere il bene protetto dalla
norma, sia pure con un grado di intensità modesto. Di qui la decisione
adottata dalla Corte territoriale di ritenere responsabile l’imputato
della fattispecie della lieve entità, di cui all’art. 73, comma quinto,
d. P. R. 309/90.
A fronte della compiuta motivazione espressa dalla Corte
territoriale, la difesa del ricorrente oppone argomentazioni che
risultano essere manifestamente prive di pregio.
Quanto al primo motivo di doglianza si afferma nel ricorso che:
non tutta la sostanza in sequestro aveva formato oggetto di
contestazione; alcuni campioni di sostanza repertata erano privi di
principio attivo; i campioni riguardanti la sostanza sottoposta as
analisi oggetto di contestazione (contrassegnati dalle lettere B, C, D)
avevano una quantità di principio attivo inferiore al limite quantitativo
massimo detenibile in base alla normativa vigente.
Ebbene, il ragionamento seguito dalla difesa è evidentemente
inidoneo a sovvertire la corretta impostazione fattuale-giuridica
espressa dalla Corte d’appello sulla base dei principi enunciati in
sentenza, conformi all’insegnamento del Supremo consesso. Al
cospetto dell’accertata presenza di principio attivo, neppure posta in
discussione dalla difesa, non può essere esclusa l’offensività della
condotta, essendo comunque apprezzabile l’effetto drogante della
sostanza ricavata dalle piante e adeguata l’attività di coltivazione

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condotta che ricorre, sempre secondo l’insegnamento delle Sezioni

praticata dal ricorrente a produrre nuova sostanza. E’ quindi non
rilevante, ai fini della esclusione della responsabilità, il fatto che la
sostanza contenesse un grado di principio attivo piuttosto modesto,
essendo comunque la condotta serbata dal ricorrente suscettibile di
ledere il bene protetto dalla norma.
La Corte territoriale ha dato conto, in maniera corretta, delle
ragioni che l’avevano indotta a ribaltare il verdetto assolutorio del
giudice di primo grado, nel rispetto del principio della cosiddetta

argomentazioni offerte dal primo giudice, richiamando i principi
consolidati espressi in materia in sede di legittimità e correggendo
l’errore nel quale era incorso il primo giudice.
Per completezza argomentativa, si rileva che il giudice
d’appello che proceda alla “reformatio in peius” della sentenza
assolutoria di primo grado non è tenuto – in base all’art. 6 CEDU, così
come interpretato dalla sentenza della Corte Europea dei diritti
dell’uomo nel caso Dan c/Moldavia – alla rinnovazione dell’istruttoria
dibattimentale quando non operi una diversa valutazione della prova
dichiarativa, ma fondi il proprio convincimento su una diversa
valutazione in punto di diritto sul valore della prova ovvero in punto
di fatto sulla portata della prova nel contesto del compendio
probatorio (così ex multis

Sez. 3, n. 44006 del 24/09/2015, Rv.

265124).
Con riferimento al secondo motivo di ricorso, occorre rilevare come
la questione dell’applicazione della causa di esclusione della punibilità
per particolare tenuità del fatto, ai sensi dell’art. 131

bis cod. pen.,

non possa essere dedotta per la prima volta nel giudizio di legittimità,
ostandovi il disposto di cui all’art. 606, comma terzo, cod. proc. pen.
(così Sez. 7, ordinanza n. 15659 del 8/3/2018, Rv. 272913; conforme
Sez. 5, n. 57491 del 23/11/2017, Rv. 271877).
Infine, è orientamento costante della Corte di legittimità, ribadito
in plurime pronunce aderenti al principio di diritto delle Sezioni Unite
(Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, Rv. 217266) quello in base al quale,
l’inammissibilità del ricorso per cassazione dovuta alla manifesta
infondatezza dei motivi, non consente il formarsi di un valido rapporto
di impugnazione, precludendo la possibilità di rilevare e dichiarare le
cause di non punibilità a norma dell’art. 129 cod. proc. penale.

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“motivazione rafforzata”, provvedendo a ripercorrere le

Pertanto, stante la pronunciata inammissibilità del ricorso in
esame, ne deriva la preclusione della declaratoria di estinzione del
reato per prescrizione, dedotta dalla difesa in udienza.
3. Stante l’inammissibilità del ricorso e, non ravvisandosi assenza di
colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte cost.
sent. n. 186/2000), alla condanna del ricorrente al pagamento delle
spese processuali consegue quella al pagamento della sanzione

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento
delle spese processuali e della somma di euro duemila in favore della
Cassa delle Ammende.
Così deciso il 23 maggio 2018
Il Consigliere estensore

idente

riarosaria Bruno

mo Fumu

4/(A mo

pecuniaria, nella misura indicata in dispositivo.

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