Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 38306 del 21/06/2013


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Penale Ord. Sez. 7 Num. 38306 Anno 2013
Presidente: FIALE ALDO
Relatore: RAMACCI LUCA

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:
VULTAGGIO BIAGIO N. IL 15/02/1948
avverso la sentenza n. 2438/2011 CORTE APPELLO di PALERMO,
del 07/11/2012
dato avviso alle parti;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. LUCA RAMACCI;

Data Udienza: 21/06/2013

Ritenuto:
— che la Corte di appello di Palermo con sentenza del 7/11/2012 ha confermato la sentenza
24/3/2011 del Tribunale di Trapani – Sezione Distaccata di Alcamo, che aveva affermato la
responsabilità penale di VULTAGGIO Biagio per il reato di cui agli artt. 110 cod. pen., 44 lett.
b), 93, 95 d.P.R. 380\01 (realizzazione di un vano cucina in muratura di m. 4,70 X 3,00 con
sovrastante struttura in legno ed attiguo vano doccia in muratura – acc. in Alcamo, il 28/2/2008);
— che avverso detta sentenza l’imputato ha proposto ricorso per cassazione, con il quale – sotto i
profili della violazione di legge e del vizio di motivazione – ha lamentato:
* la inconfigurabilità del reato edilizio, in quanto, ai sensi dell’art. 20 della legge n.
4\2003 della Regione Siciliana, si tratterebbe di struttura precaria debitamente
regolarizzata;
* il mancato riconoscimento della buona fede;
— che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, perché le doglianze anzidette sono
manifestamente in/ondate, in quanto:
a) le opere realizzate hanno determinato la creazione di nuovi volumi ed erano soggetto,
pertanto, a permesso di costruire. In particolare, tale manufatto difetta del carattere di precarietà,
trattandosi di opera destinata non a sopperire ad esigenze temporanee e contingenti con la sua
successiva rimozione, ma a durare nel tempo, ampliando così il godimento dell’immobile.
L’art. 20 della legge 16.4.2003, n. 4 della Regione Siciliana assoggetta ad un particolare regime
di asseveramento:
a) -la chiusura di terrazze di collegamento e/o la copertura di spazi interni con strutture
precarie- ;
b) la realizzazione di verande, definite come -chiusure o strutture precarie relative a qualunque
superficie esistente su balconi, terrazze e anche tra.fàbbricad. ;
c) la realizzazione di altre strutture, comunque denominate (a titolo esemplificativo si fa
riferimento a tettoie, pensiline e gazebo), che vengono assimilate alle verande, a condizione che
ricadano su aree private, siano realizzate con strutture precarie e siano aperte almeno da un lato.
La norma in esame dispone altresì che:
aa) gli interventi dianzi descritti non sono considerati aumento di superficie utile o di volume né
modifica della sagoma della costruzione;
bb) “sono da considerare strutture precarie tutte quelle realizzate in modo tale da essere
suscettibili di fàcile rimozione”.
Le disposizioni regionali anzidette, procedendo alla identificazione in via di eccezione di
determinate opere precarie non soggette a permesso di costruire, privilegiano il “criterio
strutturale” (la circostanza che le parti di cui la costruzione si compone siano facilmente
rimovibili) a discapito di quello “Iiinzionale” (l’uso realmente precario e temporaneo cui la
costruzione è destinata). Tali disposizioni, pertanto, non possono essere applicate al di fuori dei
casi espressamente previsti [vedi Sez. III n. 16492 28 aprile 2010 ed altre prec. confl ed in
relazione alle stesse, anche nella accentuazione del riferimento alle modalità costruttive ed alla
stabilità materiale dei manufatti, deve rilevarsi che non può comunque considerarsi -realizzata in
modo tale da essere suscettibile di facile rimozione” una struttura quale quella in precedenza
descritta. Inoltre, come rilevato correttamente, l’eventuale ridimensionamento dell’opera o la sua
riconduzione a caratteristiche corrispondenti a quelle indicate dalla richiamata normativa
regionale non produce comunque effetti estintivi del reato;
— che correttamente non è stata rilevata la sussistenza della buona fede in considerazione della
natura contravvenzionale della violazione. Sussiste, inoltre, in capo a chi intraprende la
realizzazione di un manufatto, un preciso onere di adeguata informazione circa la disciplina di
settore;
— che, a norma dell’art. 616 c.p.p., alla declaratoria di inammissibilità – non potendosi escludere
che essa sia ascrivibile a colpa del ricorrente (Corte Cost. 7-13 giugno 2000, n. 186) – segue

l’onere delle spese del procedimento, nonché quello del versamento, in favore della Cassa delle
ammende, della somma, equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti, di euro 1.000,00.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del
procedimento ed al versamento della somma di euro 1.000,00 (mille/00) alla Cassa delle
ammende.

P. Q. M.

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