Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 3815 del 03/12/2014


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 3815 Anno 2015
Presidente: ZECCA GAETANINO
Relatore: IANNELLO EMILIO

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
MELONI SALVATORE, nato il 04/05/1943
avverso l’ordinanza n. 375/2013 TRIBUNALE di ORISTANO, del 30/11/2013;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. EMILIO IANNELLO;
lette le conclusioni del PG Dott. FULVIO BALDI che ha chiesto il rigetto del
ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Meloni Salvatore propone, per mezzo del proprio difensore, ricorso
avverso l’ordinanza del 3/12/2013 con la quale il Tribunale di Oristano ha
respinto l’opposizione presentata contro il decreto con cui lo stesso Tribunale
aveva disposto la revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato in
precedenza disposta su istanza dell’interessato in relazione al procedimento n.
2647/10 R.G..
A tale determinazione il primo giudice era giunto in seguito alla
comunicazione, da parte della Nucleo di Polizia Tributaria di Oristano in
precedenza incaricato, dell’esito degli accertamenti condotti, dai quali risultava
che l’Agenzia delle Entrate di Oristano aveva emesso nei confronti del Meloni due
avvisi di accertamento in ordine agli anni 2009 e 2010, nei quali si evidenziava
l’esistenza di redditi pari rispettivamente a C 88.010,00 per il 2009 e C
13.685,00 per il 2010 ed, inoltre, che lo stesso percepiva dell’Inali, a partire dal

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Data Udienza: 03/12/2014

2000, la pensione n. 01726355 e che il coniuge convivente, a partire dal mese di
novembre del 2009, percepiva assegno sociale pari a euro 887,00 per il 2009 e
ad euro 5.349,00 per il 2010.

2. A fondamento del ricorso si deduce violazione e mancata applicazione
degli artt. 122 c.p.c. e 109 c.p.p. in relazione all’art. 2 legge 15 dicembre 1999,
n. 482, in materia di tutela delle minoranze linguistiche, a motivo del mancato
utilizzo nel procedimento di opposizione della lingua sarda, nella variante c.d.

3. Nella sua requisitoria scritta il P.G. ha concluso per il rigetto del ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

4.

Il ricorso è infondato, sebbene per motivi diversi da quelli esposti

nell’ordinanza impugnata.
Diversamente, invero, da quanto ivi affermato (con richiamo al precedente
di Sez. 1, n. 20530 del 08/05/2012, Sannino, non massimata), e come questa
sezione ha già avuto modo di evidenziare (v. Sez. 4, n. 51812 del 26/11/2014,
Meloni, non massimata; Sez. 4, n. 53100 del 27/11/2014, Meloni, non
massimata), la lingua sarda non può considerarsi mero dialetto ma costituisce
patrimonio di una minoranza linguistica riconosciuta.
Ai sensi, infatti, dell’art. 2 legge 15 dicembre 1999, n. 482 (recante Norme

in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche), «in attuazione
dell’articolo 6 della Costituzione e in armonia con i princìpi generali stabiliti dagli
organismi europei e internazionali, la Repubblica tutela la lingua e la cultura delle
popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e croate e di quelle
parlanti il francese, il franco-provenzale, 11 friulano, il ladino, l’occitano e il
sardo».
Con particolare riguardo ai rapporti con l’autorità giudiziaria, il successivo
art. 9, comma 3, prevede che «nei procedimenti davanti al giudice di pace è

consentito l’uso della lingua ammessa a tutela. Restano ferme le disposizioni di
cui all’articolo 109 del codice di procedura penale».
Tale disposizione del codice di rito prevede, al comma 2, che «davanti

all’autorità giudiziaria avente competenza di primo grado o di appello su un
territorio dove è insediata una minoranza linguistica riconosciuta, il cittadino
italiano che appartiene a questa minoranza è, a sua richiesta, interrogato o
esaminato nella madrelingua e il relativo verbale [c.p.p. 134] è redatto anche in
tale lingua. Nella stessa lingua sono tradotti gli atti del procedimento a lui

campidanese, essendone stato il suo utilizzo espressamente richiesto dalla parte.

indirizzati successivamente alla sua richiesta», precisando infine, al comma 3,
che «le disposizioni di tale articolo sono osservate a pena di nullità».
Giova ancora rammentare che, nell’intervenire sulla valutazione della
legittimità costituzionale degli artt. 22 e 23 della legge 24 novembre 1981, n.
689, in relazione all’art. 122 cod. proc. civ., la Corte costituzionale ha
sottolineato che la lingua propria di ciascun gruppo etnico rappresenta un
connotato essenziale della nozione costituzionale di minoranza etnica, al punto
da indurre il costituente a definire quest’ultima quale minoranza linguistica.

trasmissione dei relativi valori e, quindi, di garanzia dell’esistenza della
continuità del patrimonio spirituale proprio di ciascuna minoranza etnica, il diritto
all’uso della lingua materna nell’ambito della comunità di appartenenza è un
aspetto essenziale della tutela costituzionale delle minoranze etniche, che si
collega ai principi supremi della Costituzione: al principio pluralistico riconosciuto
dall’art. 2, al principio di eguaglianza di fronte alla legge, garantito dall’art. 3,
primo comma, al principio di giustizia sociale e di pieno sviluppo della personalità
umana nella vita comunitaria, assicurato dall’art. 3, secondo comma, Cost.
(Corte Cost. sent. n. 62 del 24 febbraio 1992).
Sulla base di tali premesse, il giudice delle leggi ha evidenziato come non
può esservi dubbio che la tutela di una minoranza linguistica riconosciuta si
realizza pienamente, sotto il profilo dell’uso della lingua materna da parte di
ciascun appartenente a tale minoranza, quando si consenta a queste persone,
nell’ambito del territorio di insediamento della minoranza cui appartengono, di
non essere costrette ad adoperare una lingua diversa da quella materna nei
rapporti con le autorità pubbliche.
Questa affermazione assume un valore particolare in riferimento all’uso della
lingua materna di fronte all’autorità giudiziaria, poiché in tali rapporti ricorre in
ogni caso un’indubbia interferenza di questa tutela con la garanzia costituzionale
dei diritti inviolabili della difesa e, più precisamente, con il diritto a un regolare
processo. Interferenza – occorre sottolineare – non coincidenza o sovrapposizione
con la tutela comportata dal riconoscimento dei diritti della difesa, poiché,
mentre quest’ultima è finalizzata, per il profilo ora rilevante, all’adeguata
comprensione degli aspetti processuali e suppone che questa possa mancare
quando l’interessato non abbia in concreto una perfetta conoscenza della lingua
ufficiale del processo (come, ad esempio, nel caso dello straniero), al contrario la
garanzia dell’uso della lingua materna a favore dell’appartenente a una
minoranza linguistica riconosciuta è, in ogni caso, la conseguenza di una speciale
protezione costituzionale accordata al patrimonio culturale di un particolare
gruppo etnico e, pertanto, prescinde dalla circostanza concreta che
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Come elemento fondamentale d’identità culturale e come mezzo primario di

l’appartenente alla minoranza stessa conosca o meno la lingua ufficiale (Corte
Cost. sent. n. 62/92, cit.).
Il diritto all’uso della lingua materna da parte degli appartenenti a
minoranze linguistiche nei loro rapporti con le autorità giudiziarie locali, dunque,
secondo la coerente argomentazione della Corte costituzionale, ha una generale
copertura costituzionale nell’art. 6 della Costituzione, a sua volta idonea a
fondare pretese soggettive effettive e azionabili nella misura in cui siano state
adottate adeguate norme di attuazione e siano state predisposte le necessarie

indispensabile l’emanazione di norme di attuazione specifiche, essendo
sufficiente la sussistenza di istituti o strutture organizzative di generale
applicazione che possono essere utilizzati anche al fine di rendere effettivo e
concretamente fruibile il diritto garantito in via di principio dalla costituzione.
Alla stregua di tali argomentazioni, il giudice delle leggi, ha dichiarato la
illegittimità costituzionale degli artt. 22 e 23 della legge n. 689/81, in combinato
disposto con l’art. 122 c.p.c., nella parte in cui non consentono, ai cittadini
appartenenti ad una minoranza linguistica (nel caso di specie, quella slovena) nel
processo di opposizione a ordinanze-ingiunzioni applicative di sanzioni
amministrative davanti al giudice avente competenza sul territorio dov’è
insediata la predetta minoranza, di usare, su loro richiesta, la lingua materna nei
propri atti, nonché di ricevere tradotti nella propria lingua gli atti dell’autorità
giudiziaria e le risposte della controparte.
Il complesso degli elementi di natura normativa d’indole costituzionale
e legislativa, riguardati anche alla luce delle argomentazioni della giurisprudenza
costituzionale appena richiamate, induce dunque questa Corte a ritenere
sussistente il principio, avente portata interpretativa di carattere

necessariamente generale, secondo cui il cittadino italiano appartenente a una
minoranza linguistica riconosciuta, nell’ambito di ogni procedimento pubblico cui
lo stesso sia interessato (sia esso di natura amministrativa o giudiziaria, penale o
civile), ha il diritto di essere interrogato o esaminato nella madrelingua e di
veder redigere in tale lingua il relativo verbale. Ha altresì il diritto di ricevere
tradotti nella predetta lingua, a pena di nullità, gli atti del procedimento a lui
indirizzati successivamente alla corrispondente richiesta dallo stesso avanzata
all’autorità investita del procedimento (v., nel senso della necessità della previa
richiesta dell’interessato quale strumento condizionante della tutela accordata,
l’art. 9, co. 3, della legge n. 482/1999, l’art. 109, c.p.p. e la sentenza n.
62/1992 della Corte costituzionale, ed altresì la recente pronuncia di Sez. 1, n.
12974 del 17/01/2014, Princic, non massimata).

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strutture organizzative istituzionali. Sotto quest’ultimo profilo, tuttavia, non è

6. Tali considerazioni valgono di per sé a palesare l’infondatezza anche delle
subordinate argomentazioni poste nell’ordinanza impugnata a supporto del
rigetto dell’istanza diretta all’impiego della lingua minoritaria.
In sintesi, secondo il Presidente f.f. del Tribunale di Oristano:
a) stante il richiamo contenuto nell’art. 99, comma 3, d.P.R. n. 115/2002 al
processo speciale previsto per gli onorari di avvocato, il giudizio di opposizione
alla revoca dell’ammissione al patrocinio è un giudizio regolato dal codice di
procedura civile dinanzi al tribunale;

conseguenza che, proprio per il fatto di riferirsi specificamente ai procedimenti
davanti al giudice di pace e al processo penale (attraverso l’inciso

«restano

ferme le disposizioni di cui all’articolo 109 del codice di procedura penale»), deve
a contrario interpretarsi nel senso che esso esclude la possibilità di ritenere
consentito l’uso di lingua diversa da quella italiana nei giudizi regolati dal codice
di procedura civile (quale, per la considerazione di cui al pt. 1, dovrebbe ritenersi
quello de quo);
c)

in ogni caso, una interpretazione costituzionalmente orientata delle

norme dovrebbe portare ad escludere che non solo il processo civile ma anche
quello penale «possano essere la sede di una tutela delle minoranze linguistiche

fine a se stessa», con la conseguenza che «gli stessi artt. 109 c.p.p. e 9, comma
3, legge n. 482/99 nella parte in cui vengono interpretati come norme che
consentono l’uso di una lingua diversa dall’italiano a prescindere dall’effettiva
necessità – dettata da difetto di comprensione dell’italiano – del singolo coinvolto
nel processo penale o nel processo dinanzi al giudice di pace, ove non fossero
norme irrilevanti del presente giudizio, andrebbero sottoposte ad un nuovo
vaglio di compatibilità costituzionale con altri princìpi quali quello della
ragionevole durata del processo e del buon funzionamento della pubblica
amministrazione e, in un futuro prossimo, anche con quelli in materia di
bilancio».

6.1. Ebbene, alla luce delle considerazioni sopra esposte, è anzitutto da
escludere che alcun problema di compatibilità costituzionale possa porsi tra la
tutela della minoranze linguistiche riconosciute nel processo con i principi della
ragionevole durata dello stesso e del buon funzionamento della pubblica
amministrazione, ricevendo anche il primo diretta copertura costituzionale e non
ravvisandosi tra i principi richiamati alcuna insormontabile ragione di conflitto,
trattandosi solo di assicurare condizioni strutturali e organizzative per il relativo
coordinamento, non certamente tali da porre in crisi l’assetto ordinamentale e il
buon funzionamento degli uffici preposti.
5

b) l’art. 9, comma 3, legge n. 482/99 è di stretta interpretazione, con la

6.2. Quanto alle restanti argomentazioni (di cui supra lett. a e b), appare
anzitutto da escludere che, proprio alla luce della copertura costituzionale
assicurata dall’art. 6 Cost., la norma di cui all’art. 9, comma 3, legge n. 482/99
possa considerarsi di stretta interpretazione con la conseguenza che, per il fatto
di riferirsi essa specificamente ai procedimenti davanti al giudice di pace e al
processo penale, dovrebbe di conseguenza escludersi che possa ritenersi
consentito l’uso di lingua diversa da quella italiana nei giudizi regolati dal codice

6.3. In ogni caso, tale restrittiva interpretazione non potrebbe assumere
rilievo con riferimento al procedimento de quo il quale, per il fatto di accedere,
quale procedimento collaterale, ad un procedimento penale, indipendentemente
dal richiamo da parte dell’art. 99, comma 3, d.P.R. n. 115/2002 al processo
speciale previsto per gli onorari di avvocato, deve comunque ritenersi regolato,
per l’aspetto che qui interessa, dalle norme del procedimento penale e, quindi,
anche dall’art. 109 cod. proc. pen..
Valgano al riguardo le seguenti considerazioni.
Cass. pen., sez. un., 11 luglio 1989, n. 5, in tema di opposizione alla
liquidazione del compenso al perito nominato in sede di procedimento penale,
ha rilevato che i connotati che caratterizzano la specialità del procedimento,
allora disciplinato dagli arti. 11 I. 8 luglio 1980 n. 319 e 29 legge 13 giugno 1942
n. 794, non impediscono di configurare l’esistenza di un rapporto d’incidentalità
tra quel procedimento e il processo dal quale deriva, con la conseguenza, quanto
alla proponibilità del ricorso per cassazione, dell’applicabilità delle disposizioni di
carattere generale previste dall’ordinamento processuale per il procedimento
principale e con l’ulteriore conseguenza che, poiché l’ordinanza era stata
pronunciata nel corso di un procedimento penale, il ricorrente avrebbe dovuto
osservare la relativa normativa.
Questo principio, seguìto, in sede penale, da Cass. pen. 2 marzo 1998, n.
548 e da Cass. pen. 13 novembre 1997, n. 5263, e, in sede civile, da Cass. 28
agosto 1998, n. 8545, è stato ribadito da Cass. pen., sez. un., 6 dicembre 1999,
n. 25/SU, la quale – sia pure investita della diversa questione della
individuazione del giudice competente ad emettere gli specifici provvedimenti
previsti dagli art. 6, 10 e 12 I. 30 luglio 1990 n. 217, in tema di liquidazione degli
onorari spettanti al difensore dell’imputato ammesso al patrocinio a spese dello
Stato per i non abbienti – ha rilevato che tali provvedimenti si ispirano al
medesimo modello procedurale e precisamente a quello disciplinato dall’art. 11,
5 0 , 6° e 7° comma, I. 8 luglio 1980 n. 319 (e quindi dall’ivi richiamato art. 29
6

di procedura civile.

legge 13 giugno 1942 n. 794) ed è giunta alla conclusione che

«dal

riconoscimento della natura collaterale e secondaria della situazione giuridica e
degli interessi che in esso vengono in rilievo, rispetto allo sviluppo del rapporto
processuale fondamentale, non può non discendere, come logico corollario, il
necessario coordinamento di quell’autonomo ed accessorio procedimento
incidentale con le disposizioni generali previste dall’ordinamento per il
procedimento principale, e quindi con la disciplina propria del processo penale
quando il primo insorga, sia trattato nel corso di quest’ultimo e sia destinato,

A conclusioni non dissimili è poi giunta Cass. Civ., Sez. Un., n. 434/SU del
14/06/2000 che – pronunciando in materia di opposizione a decreto di
liquidazione dei compensi di ausiliari del giudice penale o del PM, ma affrontando
specificamente la questione dell’individuazione del giudice, civile o penale,
competente alla trattazione – ha affermato che tale questione deve risolversi «in

conformità a quanto deciso dalle sezioni unite penali (sent. n. 25 del 1999), sulla
base delle argomentazioni dalle stesse prospettate»,

e che pertanto tale

competenza spetti, nel caso considerato, al giudice penale, trattandosi di un

«subprocedimento collaterale e secondario rispetto allo sviluppo del rapporto
processuale fondamentale di natura penalistica, onde l’individuazione del giudice
del riesame postula non già un legame di tipo meramente territoriale tra giudice
decidente in prime cure e giudice del gravame, ma di natura organica e
funzionale», soggiungendo, per quel che in questa sede maggiormente interessa,
che non può in contrario avviso condurre li richiamo, quanto alla disciplina del
procedimento all’art. 29 I. 13 giugno 1942 n. 794, «trattandosi di norma che –

nel prevedere il deposito del ricorso, la fissazione dell’udienza camerale con
decreto presidenziale notificato alle controparti, comparizione degli interessati in
camera di consiglio davanti al collegio, decisione con ordinanza non impugnabile
– disciplina il rito, ma non incide sulla competenza del giudice penale a
provvedere».
Reputa questo collegio che, nello stesso ordine di idee, il fatto che il
procedimento di che trattasi, pacificamente «collaterale e secondario rispetto allo

sviluppo del rapporto processuale fondamentale di natura penalistica», debba
svolgersi, secondo il richiamo contento nell’art. 99, comma 3, d.P.R. n. 115 del
2002, nelle forme del processo speciale previsto per gli onorari di avvocato, non
può valere ad escludere l’applicabilità anche della disposizione generale prevista
per il processo penale dall’art. 109 cod. proc. pen., trattandosi di disposizione
non incompatibile con le norme del procedimento richiamato, mirate a
disciplinare solo singoli e specifici aspetti del procedimento.

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una volta esauritosi, a restare in questo assorbito».

Tanto può affermarsi anche in relazione alla nuova disciplina del
procedimento richiamato, quale prevista dall’art. 28 legge 13 giugno 1942, n.
794, come sostituito dall’art. 34, comma 16 lett. a) digs. 1 settembre 2011, n.
150, con rimando all’art. 14 d.lgs. cit., il quale prevede l’adozione del rito
sommario di cognizione (artt. 702-bis e segg. cod. proc. civ).

7. Tutto ciò premesso, è necessario tuttavia anche evidenziare che, al fine di
determinare l’ambito territoriale di applicazione delle disposizioni a tutela delle

l’instaurazione di un complesso procedimento amministrativo destinato a sfociare
in un provvedimento del Consiglio provinciale territorialmente competente; in
particolare, detto Consiglio, su richiesta «di almeno il quindici per cento dei

cittadini iscritti nelle liste elettorali e residenti nei comuni stessi, ovvero di un
terzo dei consiglieri comunali dei medesimi comuni», provvede a delimitare detto
ambito territoriale, «sentiti i comuni interessati». Laddove non sussista alcuna
delle due condizioni indicate (ossia, l’esistenza del quindici per cento dei cittadini
o un terzo dei consiglieri comunali), e qualora sul territorio comunale insista
comunque una minoranza linguistica ricompresa nell’elenco di cui all’art. 2 della
medesima legge, il procedimento amministrativo inizia

«qualora si pronunci

favorevolmente la popolazione residente, attraverso apposita consultazione
promossa dai soggetti aventi titolo e con le modalità previste dai rispettivi statuti
e regolamenti comunali». Quando, infine, le minoranze linguistiche di cui all’art.
2 cit. si trovano distribuite su territori provinciali o regionali diversi,

«esse

possono costituire organismi di coordinamento e di proposta, che gli enti locali
interessati hanno facoltà di riconoscere» (art. 3, legge n. 482/1999 cit.).
Si deve pertanto ritenere (conformemente al citato precedente di questa
Sezione del 26/11/2014) che, al fine di rivendicare il diritto all’applicazione delle
disposizioni dettate a tutela delle minoranze linguistiche storiche, il richiedente
abbia a fornire la prova (oltre dell’appartenenza della lingua dallo stesso parlata
a quelle ammesse a tutela, anche) della formale inclusione del territorio in cui lo
stesso risiede tra quelli espressamente individuati nei provvedimenti
amministrativi provinciali o comunali di cui al sopra indicato art. 3: prova da
fornire mediante l’allegazione in giudizio del corrispondente provvedimento,
attesa l’estraneità di quest’ultimo (destinato alla realizzazione di interessi
d’indole particolare e concreta) all’ambito degli atti a valenza normativa
(generale e astratta), la cui conoscenza deve ritenersi presunta dal giudice, in
forza del generale principio iura novit curia.
Nel caso di specie, risulta dagli atti del procedimento che l’odierno
ricorrente, a mezzo del proprio difensore, abbia espressamente richiesto l’uso
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minoranze linguistiche storiche, l’art. 3 della legge n. 482/1999 prevede

della lingua sarda, nella sua variante campidanese, per la prima volta all’udienza
del 15/10/2013, destinata alla trattazione dell’opposizione dallo stesso proposta
avverso il provvedimento di revoca dell’ammissione al beneficio del patrocinio a
spese dello stato.
Non risulta, viceversa, che lo stesso abbia materialmente allegato la
deliberazione del Consiglio provinciale di Oristano del 2/2/2001 (espressamente
menzionata nel ricorso proposto in questa sede) al fine di verificare l’effettiva (e
valida) inclusione del comune di Terralba nell’ambito territoriale interessato dalle

Allegazione, peraltro, mancata anche in questa sede di legittimità, in palese
violazione del principio di autosufficienza del ricorso, ai sensi del quale deve
disattendersi il ricorso per cassazione il quale, pur richiamando atti
specificamente indicati ritenuti indispensabili al fine del controllo della fondatezza
dell’impugnazione proposta, non ne contenga la loro integrale trascrizione o
allegazione, così da rendere lo stesso autosufficiente con riferimento alle relative
doglianze (cfr., ex plurimis, Sez. 2, n. 26725 del 01/03/2013, Natale, Rv.
256723).
Tali ultime argomentazioni, nell’attestare l’impossibilità del controllo circa
l’eventuale fondatezza dell’odierna impugnazione (con particolare riguardo
all’effettiva sussistenza di uno dei requisiti costitutivi del diritto rivendicato dal
Meloni), impone il rigetto del ricorso, con la conseguente condanna del ricorrente
al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
Così deciso il 3/12/2014

prerogative di tutela di cui alla legge n. 482/1999.

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