Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 3803 del 15/11/2013


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 3803 Anno 2014
Presidente: SIOTTO MARIA CRISTINA
Relatore: BARBARISI MAURIZIO

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Musardo Mario

n. il 7 febbraio 1967
avverso

l’ordinanza 24 maggio 2012 — Magistrato di Sorveglianza di Lecce;
sentita la relazione svolta dal Consigliere dott. Maurizio Barbarisi;
lette le conclusioni scritte del rappresentante del Pubblico Ministero, sostituto Procuratore Generale della Corte di Cassazione, che ha chiesto il rigetto del ricorso con
condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali;

Data Udienza: 15/11/2013

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE – Prima Sezione penale

Ritenuto in fatto
1. — Con ordinanza deliberata in data 24 maggio 2012, depositata in cancelleria
il 31 dicembre 2012, il Magistrato di Sorveglianza di Lecce e Brindisi rigettava il reclamo avanzato nell’interesse di Musardo Mario volto a ottenere l’accertamento delle lesione dei diritti soggettivi del detenuto previsti dagli artt. 1, 5, 6, 12 L. 354/75
e 6, 7 D.P.R. 230/00, 3 CEDU e 2, 3, 7 Cost. e la conseguente liquidazione a titolo

Il giudice argomentava la propria decisione rilevando che, valutata la documentazione inviata dalla Direzione della Casa Circondariale di Lecce, le condizioni di restrizione del detenuto non erano tali da violare l’art. 3 CEDU atteso che, anche a
voler considerare il solo profilo dello spazio personale, ignorando quindi la rilevanza
di tutti gli altri parametri indicati dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nella fattispecie presenti (quali la dotazione di mobilia, l’ampiezza della finestra, la fruibilità
dei locali docce, al congruo numero di ore da trascorrere fuori dalla cella, la sussistenza di una saletta di socialità ed altro) io stesso superava ancorché di poco quello fruito da Sulejmanovic e ritenuto dalla Corte insufficiente (e da qui la condanna
sul punto del nostro Paese) se esaminato isolatamente a raggiungere il livello minimo di gravità richiesto dall’art. 3 della Convenzione. Il detenuto ha per vero usufruito anche di diverse e più ampie sistemazioni integrando una condizione conforme ai parametri europei e ai principi costituzionali di rieducazione della pena.
2. — Avverso il citato provvedimento ha interposto tempestivo ricorso per cassazione Musardo Mario chiedendone l’annullamento per violazione di legge e vizi
motivazionali rilevando altresì che il giudice avrebbe dovuto altresì riconoscere il
diritto al risarcimento dei danni ai sensi dell’art. 2059 c.c. per responsabilità contrattuale della Pubblica Amministrazione ovvero extracontrattuale secondo il principio del neminem laedere.

Osserva in diritto
3. — Il ricorso è destituito di fondamento e va rigettato.
3.1 — Si osserva per vero che il gravame, più che individuare singoli aspetti del
provvedimento impugnato da sottoporre a censura, tende a provocare una nuova
valutazione del merito già esaminato dal giudice, sviluppandosi inoltre in modo generico e non concreto, proponendo per di più questioni argomentative inammissibili

Ud. in c.c.: 15 novembre 2013 — Musardo Mario — RG: 6904/13, RU: 7;

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di indennizzo della somma di C 15.000 o quella maggiore ritenuta di equità.

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE – Prima Sezione penale

in questa sede di legittimità consistendo in una mera reiterazione di censure in ordine alle quali il giudice di sorveglianza ha già adeguatamente risposto. Va pertanto
ravvisata non solo la reiterazione inammissibile di argomentazioni fattuali non proponibili in questa sede di legittimità stante la valutazione argomentata del giudice
della cognizione, ma altresì la mancanza della reale correlazione tra le ragioni argomentative della decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione davanti a questa Corte. Con il riproporre le doglianze già scrutinate il ricor-

rizzonte circoscritto, dovendo essere limitato — per espressa volontà del legislatore
— a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della
decisione impugnata, senza possibilità di effettuare una rilettura degli elementi di
fatto posti a suo fondamento, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito (v. ex pluribus, Cass., Sez. 5, 27 gennaio 2009, n. 19399, Fiozzi).
3.2 — Il provvedimento gravato, peraltro, dando conto in modo analitico delle
ragioni della propria decisione, ha correttamente esaminato tutti gli elementi risultanti dagli atti, con motivazione congrua, adeguata e priva di erronee applicazioni
della legge penale e processuale e come tale non censurabile in questa sede di legittimità. Punto necessario e prioritario da cui muovere l’argomentazione è che in
materia risarcitoria ed indennitaria il sistema normativo prevede in via generale la

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sua attribuzione alla giurisdizione civile. La summa divisio tra giurisdizione civile e
penale è sancita invero dall’art. 1 cod. proc. civ. e dall’art. 1 cod. proc. pen. cui corrispondono le pertinenti norme del vigente Ordinamento Giudiziario.
Da tale presupposto consegue che le attribuzioni al giudice penale di competenze in materia risarcitoria si pongono come eccezioni a tale generale ripartizione e,
come tali, devono essere specificamente previste dalla normativa, quali si rinvengono, ad esempio, ove il giudice penale è chiamato a pronunciarsi sulla domanda
risarcitoria del danneggiato da un reato costituito parte civile (art. 74 cod. proc
pen.) o su quella per ingiusta detenzione (art. 314 cod. proc. pen.) od anche per
riparazione dell’errore giudiziario (art. 643 cod. proc. pen.).
È però certo che una siffatta attribuzione specifica non si riscontra nelle leggi in
materia penitenziaria che, in via testuale, non prevedono alcuna attribuzione di
competenza alla Magistratura di Sorveglianza della materia risarcitoria o indennitaria pur discendente da quegli aspetti dell’ambito penitenziario, o più strettamente
carcerario, che vengono attribuiti alla sua specifica competenza (che è sempre legata alla giurisdizionalizzazione dell’esecuzione penale). Il dato è pacifico, dovendosi

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rente non tiene inoltre conto che il sindacato di questo Supremo Collegio ha un o-

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del resto rilevare come il ricorrente, non potendo invocare una specifica disposizione di legge a sostegno del suo assunto, fa appello ad una asserita responsabilità
contrattuale della Pubblica Amministrazione ovvero extracontrattuale non meglio
chiarite oltre che ravvisabili.
4. Quanto alla invocata “violazione dei diritti dei condannati e degli internati”
che possano essere rilevate “nel corso del trattamento” – l’art. 69 ord. pen., comma

“disposizioni dirette ad eliminare” siffatte eventuali violazioni, così all’evidenza delimitando in modo preciso il campo d’intervento, in coerenza con la generale funzione della Magistratura di Sorveglianza che è quella di vigilare “sulla organizzazione
degli istituti di prevenzione e di pena” (art. 69 ord. pen., comma 1) ai fini di una
corretta esecuzione, in termini di legalità, della pena o della misura di sicurezza. È
invero fuor di dubbio che le disposizioni dirette ad eliminare le rilevate violazioni
hanno proiezione ripristinatoria volta al futuro, e dunque funzione preventiva, ma
non possono contenere, per insito limite concettuale, l’ambito di un ristoro risarcitorio per il passato. Nessuno può invero ragionevolmente sostenere che condannare
ad un risarcimento sia compreso nel diverso concetto di “eliminare le violazioni”,
ponendosi le due espressioni su piani diversi. Del resto la stessa clausola di chiusura di cui al cit. art. 69, u.c. secondo cui il Magistrato di Sorveglianza “svolge, inoltre, tutte le altre funzioni attribuitegli dalla legge”, giustifica proprio la conclusione
che le sue funzioni devono comunque avere un testuale e specifico riferimento
normativo – e non se ne rinvengono sul tema risarcitorio – così già ponendo un
chiaro limite a quella onnicomprensività per materia (competenza funzionale esclusiva) predicata dai ricorrente. Inoltre, sempre per restare ai dati testuali ricavabili
dalla legge fondamentale dell’ordinamento penitenziario, l’art. 35, unico riferimento
possibile, in concreto attivato dal ricorrente, prevede che detenuti ed internati possano “rivolgere istanze o reclami, orali o scritti, anche in busta chiusa”. Orbene, per
quanto se ne voglia dare interpretazione dilatata, non è chi non veda come la stessa terminologia sia lontana da quella che può contrassegnare l’inizio di un’azione
civile a contenuto risarcitorio, a parte l’assoluta anomalia che deriverebbe da una
causa civile iniziata con istanza orale (ancorché poi verbalizzata) e raccolta anche
dal direttore dell’istituto (anche se poi trasmessa al Magistrato di Sorveglianza). Ricordiamo in proposito il disposto dell’art. 99 cod. proc. civ.: “Chi vuole far valere un
diritto in giudizio deve proporre domanda al giudice competente”. Anche le azioni
civili proponibili in ambito penale, ex art. 74, 314 e 643 cod. proc. pen., devono essere avanzate con domanda al giudice competente. Addirittura clamorose, poi, sono

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5, ultima parte, puntualmente prevede che il Magistrato di Sorveglianza impartisca

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,

le distonie del procedimento di sorveglianza, rispetto a quello ordinario in ambito
civilistico, e non facilmente adattabili (si pensi solo al regime delle prove, alle impugnazioni, ecc.). Occorre dunque riconoscere che l’esame della normativa specifica
consente di affermare la coerente saldatura dell’inesistenza, da un lato, di un potere di condanna di natura civilistica in capo al Magistrato di Sorveglianza con l’inesistenza, dall’altro, di una facoltà di analoga richiesta in capo al detenuto o all’inter-

5. Si deve inoltre osservare che la magistratura di sorveglianza non ha competenze generali di cognizione se non quelle specifiche in ambito esecutivo (resta eccezionale la disposizione di cui all’art. 680 c.p.c„ comma 2, che trova ragione nella
specialità della materia); il Magistrato di Sorveglianza, nella sua essenza, resta un
giudice che sovrintende all’esecuzione della pena (dato confermato dalla stessa collocazione della figura all’interno del Libro decimo del Cod. Proc. Pen.). Non può dirsi, dunque, che l’ordinamento disegni un suo potere generale di jus dicere per qualsiasi questione afferente i diritti dei detenuti, pur collegati all’esecuzione della pena.
Non c’è dubbio che un fatto costituente reato commesso in ambito carcerario, ai
danni di un detenuto, anche se, per ipotesi, ad opera di un appartenente all’Amministrazione, non potrebbe essere sottratto alla normale competenza del giudice penale e di certo non potrebbe essere attribuito a quella della Magistratura di

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Sorveglianza in forza di un’ inesistente competenza esclusiva. Né può essere dubitato che un detenuto che intenda essere risarcito per un danno che egli lamenti,
ancorché subito in ambiente carcerario, non potrà essere sottratto al giudice naturale precostituito per legge per tale tipo di vertenza che è il giudice civile, competente per materia e territorio. Tanto deve valere anche ove il danno venga attribuito
dal detenuto alla stessa Amministrazione penitenziaria, non essendovi ragioni di differenziazione. Non è chi non veda, dunque, che la tesi di una competenza esclusiva
della Magistratura di Sorveglianza in ordine ai diritti dei detenuti prova troppo, perché trascinerebbe in tale ambito tante competenze, creando una sorta di tribunale
specializzato del detenuto (simile a quello per i Minorenni) il che l’ordinamento di
certo non ha voluto. Quanto fin qui elaborato è confermato poi dall’avvenuta eliminazione, per intervento della Corte Costituzionale, dell’art. 69 ord. Pen., comma 6,
lett. a) (sentenza 341/2006) che, se da un lato ha rilevato l’inadeguatezza dello
strumento processuale fornito dal rito di competenza penitenziaria (art. 14 ter Ord.
Pen.), ha evidentemente escluso, dall’altro, la configurabilità di una pretesa competenza esclusiva. Né può dirsi che gli interventi giurisprudenziali in materia, correttamente letti ed inquadrati, abbiano disegnato quella competenza esclusiva che il

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nato.

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ricorrente ipotizza. Ed invero si è ben consolidato il principio (v., per tutte, SS.UU.
25079/2003, Gianni) secondo cui il reclamo al Magistrato di Sorveglianza ex art. 35
Ord. Pen. può essere legittimamente attivato – e sempre ai fini di ottenere dallo
stesso disposizioni dirette ad eliminare le relative violazioni – solo in ipotesi che la
doglianza investa un diritto soggettivo (ad esempio in tema di tutela della salute)
che il detenuto assume violato o compresso ad opera della Amministrazione,

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standone fuori quelle lamentele che non raggiungono tale livello (e la casistica è

tazione alla tutela giurisdizionale in tema di reclamo generico, restandone escluse
doglianze che trovano collocazione nell’ambito amministrativo, ma non significa certo che tutti i diritti soggettivi che si pretendono violati debbano necessariamente
essere convogliati alla Magistratura di Sorveglianza e tutelati con gli strumenti processuali, spediti e contratti, previsti dal relativo ordinamento. Anche in base
all’esame sistematico della vigente normativa, dunque, e pur alla stregua del bagaglio giurisprudenziale in materia, deve essere escluso che sussista una sorta di
competenza esclusiva della Magistratura di Sorveglianza in materia di tutti i diritti
soggettivi dei detenuti. Non va poi sottovalutato – ed anzi è argomento primario che comunque la procedura ex art. 14 ter Ord. Pen., imposta dall’art. 69, comma 6,
concepita avendo a mente le necessità di speditezza insite nella materia penitenziaria, neppure prevede la comparizione dell’Amministrazione penitenziaria che, inve

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ce, in ipotesi sarebbe la parte convenuta che dovrebbe essere condannata, ammettendo solo – quale ben limitata difesa – la presentazione di memorie. Si produrrebbe
pertanto la stessa situazione che ha portato alla dichiarazione di incostituzionalità
dell’art. 69, comma 6, lett. a), per insufficiente contraddittorio, compressione dei
diritti difensivi e disparità di trattamento rispetto alle normali procedure per domande di carattere risarcitorio davanti alla giurisdizione civile. Una lettura costituzionalmente orientata impone, dunque, di evitare siffatta conseguenza che sarebbe
connessa – in mancanza di interventi legislativi- alla tesi sostenuta dal ricorrente.
6. In definitiva la ricognizione dello stato attuale della pertinente normativa deve far escludere che alla Magistratura di Sorveglianza sia attribuita la competenza a
pronunce su domande di carattere risarcitorio pur derivanti da pretese violazioni di
diritti soggettivi di detenuti anche se connessi allo stesso stato di detenzione. In definitiva ancora deve affermarsi che la Magistratura di Sorveglianza non ha competenza esclusiva sui diritti dei detenuti, ma attribuzioni specifiche legate all’esecuzione penale. In materia di diritti di cui si assuma la violazione, la Magistratura di
Sorveglianza ha il riconosciuto potere di impartire disposizioni all’Amministrazione

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quanto mai ampia : ad esempio la ricezione della televisione). Ciò significa una limi-

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con un accertamento, quindi, assolutamente incidentale ed a tale specifico fine preventivo, quello di eliminare eventuali violazioni. Risarcimento o indennità restano,
nell’attuale stato della legislazione, nell’ambito della ordinaria competenza del giudice civile.
7. Il quadro fin qui delineato non viene in contrasto, nelle sue linee generali, con
i principi sanciti dalla CEDU, anche se resta l’indiscutibile insufficienza del sistema

fermando la necessità che in ambito carcerario siano rispettati i diritti fondamentali
della persona, ed imponendo che la loro eventuale violazione avesse effettivo rimedio (v. decisione 16.07.2009, Sulejmanovic contro Italia), ha del tutto recentemente ribadito tali principi (si veda caso Torregiani ed altri contro Italia, decisione
08.01.2013) investendo sostanzialmente tre piani diversi ma tra loro funzionalmente collegati: 1) un nuovo disegno delle previsioni sanzionatorie e delle modalità di
esecuzione, con più ampio ricorso alle misure alternative, ed un rafforzamento delle
strutture logistiche; 2) un sistema che assicuri effettività alla sollecita eliminazione
delle violazioni in concreto rilevate; 3) un esito compensativo per chi abbia sofferto
violazione dei diritti fondamentali. Il primo profilo è di spettanza costituzionale del
Legislatore o di competenza del Governo. Per gli altri due il giudice nazionale, per i
casi a lui sottoposti, deve procedere alla ricognizione del sistema, anche con interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata. In tal senso va rilevato come, nella sopra citata ultima pronuncia della CEDU, si prenda atto che il rimedio offerto dall’ordinamento interno dato dalla legge penitenziaria (con riferimento proprio al reclamo ex art. 35 Ord. Pen.) è ritenuto, con quell’interpretazione che
in questa sede si convalida (si citano anche le ordinanze 18.04.2011 del Magistrato
di Sorveglianza di Vercelli e 24.12.2011 di quello di Udine, tesi maggioritaria, restando isolata la contraria opinione espressa dal giudice penitenziario di Lecce in
data 09.06.2011), avere carattere preventivo, proprio assolvendo – ove ne segua
effettività di esecuzione – alla funzione di eliminare il protrarsi di eventuali violazioni. Si tratta di ricorso accessibile, ma la cui reale effettività è limitata dalla incapacità delle strutture di far fronte al sovraffollamento delle carceri. La stessa decisione
della CEDU, però, come detto, avverte che le accertate violazioni comportano obblighi per lo Stato non solo di carattere preventivo, e cioè di eliminare le violazioni
(per cui è predisposto lo strumento ex art. 35 Ord. Pen.), ma anche compensativo,
e cioè del ristoro per il detenuto che abbia visto riconosciuto la violazione dei suoi
diritti soggettivi, prevedendo perciò la (peraltro già affermata) risarcibilità di tali riscontrate violazioni. Proprio la scarsa efficacia concreta del rimedio preventivo (che

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allo stato della normativa vigente. La Corte Europea, che già si era pronunciata af-

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imporrebbe reclami continui, in presenza di una sovraffollamento sistemico), e la
ben nota lunghezza della via dell’azione risarcitoria in sede civile hanno condotto la
CEDU ad impartire all’Italia la disposizione di predisporre rimedi appropriati, pronti
ed effettivi, e cioè di modificare i ricorsi esistenti o crearne di nuovi. Non c’è dubbio,
in definitiva, che non può trarsi dalla giurisprudenza della CEDU il principio che
l’aspetto compensativo (o risarcitorio), che pure si impone, debba essere compreso

di necessità nell’ambito del ricorso alla Magistratura di Sorveglianza, avendo i giudi-

in concreto scarsamente efficace) non è esaustivo degli obblighi per lo Stato, ma
non avendo indirizzato una particolare lettura della normativa, né dato limiti ristretti allo Stato per l’adeguamento. Non è questa la sede per individuare i percorsi normativi de jure condendo per l’anzidetto sollecito adeguamento sul piano dei più
efficaci rimedi preventivi e, per quel che qui interessa, compensativi (anche se non
mancano nel sistema istituti che possono fornire spunti di riflessione: si pensi
all’art. 314 Cod. Proc. Pen.), ferma restando l’imprescindibile necessità di provvedere ai profili logistici ed alle più ampie misure alternative, ma resta la conclusione
che lo stato attuale della normativa esclude il profilo compensativo dall’ambito di
competenza della Magistratura di Sorveglianza, ne’ un tanto può direttamente trarsi
dalla giurisprudenza della CEDU.

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8. — Al rigetto del ricorso consegue di diritto la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali

per questi motivi
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, in camera di consiglio, il 15 novembre 2013
Il Consigliere estensore

Il Presidente

ci comunitari ribadito che il profilo preventivo che ne emerge (che pure può rivelarsi

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