Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 3789 del 17/10/2014


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 3789 Anno 2015
Presidente: ZECCA GAETANINO
Relatore: DELL’UTRI MARCO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
Martini Antonella n. il 2/9/1965
Boschet Claudio n. il 7/3/1961
avverso la sentenza n. 523/2011 pronunciata dalla Corte d’appello di
Trieste il 18/6/2013;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita nell’udienza pubblica del 17/10/2014 la relazione fatta dal Cons.
dott. Marco Dell’Utri;
udito il Procuratore Generale, in persona del dott. O. Cedrangolo, che ha
concluso per il rigetto del ricorso.

Data Udienza: 17/10/2014

RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza resa in data 24/2/2010, il Tribunale di Udine, sezione
distaccata di Palmanova, ha assolto per insussistenza del fatto Antonella Martini
e Claudio Boschet dall’imputazione di cui agli artt. 4, comma 49, I. n. 350/2003
e 517 cod. pen., perché, in qualità di legali rappresentanti della ditta “Martini
Antonio di Martini Antonella & C. s.n.c.” avevano importato dalla Romania, a fini
di commercializzazione, 106 paia di scarpe, che, pur non essendo originarie
dall’Italia, ai sensi della normativa europea sull’origine (art. 24 del regolamento

Gonars il 6/7/2008)
È stato accertato, in punto di fatto, che le paia di scarpe di cui
all’imputazione, provenienti dalla Romania, erano prodotte dal tomaificio Martini
Antonio di Martini Antonella & C. s.n.c. in base a regolare licenza del marchio
Versace. Una fase della lavorazione – e precisamente l’assemblaggio delle varie
parti della scarpa, che venivano progettate e prodotte in Italia – era stata
affidata alla ditta Linea Blu S.r.l. di Cluj-Napoca, avente sede in Romania. Dopo
tale operazione, le calzature venivano reimportate in Italia per le finiture, il
confezionamento e la commercializzazione.
Secondo il tribunale udinese, il mero processo di delocalizzazione, ovvero il
trasferimento all’estero, di alcune fasi della lavorazione, non era valso di per sé
ad alterare l’origine nazionale del prodotto, si da configurare la fattispecie penale
di cui all’art. 4, comma 49, I. n. 350/2003, atteso che il bene era stato
progettato e realizzato in via prevalente in Italia ed ivi aveva avuto la sua origine
imprenditoriale: un orientamento ínterpretativo che aveva ricevuto una
sostanziale conferma dalle modificazioni apportate alla materia dal d.l. 25
settembre 2009, n. 135, art. 16, convertito in L. 20 novembre 2009, n. 166, che
prevede come fattispecie di reato la condotta consistente nell’uso fallace di
un’indicazione che presenti il prodotto come interamente realizzato in Italia,
quali “100% made in Italy”, “100% Italia”, “tutto italiano”

o altre idonee a

ingenerare nel consumatore l’erronea convinzione della realizzazione
interamente in Italia del prodotto.
Con sentenza n. 14958 del 10 marzo 2011, la terza sezione di questa Corte
di cassazione ha annullato la sentenza del tribunale di Udine, evidenziando come
nel caso in cui il prodotto non porti impresso soltanto il marchio del produttore
italiano, ma anche la stampigliatura “Made in Italy”, trova applicazione l’art. 4,
comma 49, I. n. 352/2003, in relazione all’art. 517 cod. pen., che punisce
l’applicazione della stampigliatura Made in Italy su prodotti e merci non originari
dell’Italia, ai sensi della normativa europea sull’origine: normativa contenuta nel
regolamento CEE n. 2913 del 12/10/1992, istitutivo del Codice Doganale
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CE 2913/1992), recavano la stampigliatura Made in Italy (fatto accertato il

Comunitario, a mente del quale il paese di origine di un prodotto è quello nel
quale è avvenuta l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale
economicamente giustificata ed effettuata da un’impresa attrezzata a tale scopo,
che si sia conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo o abbia
rappresentato una fase importante del processo di fabbricazione.
Con sentenza in data 18/6/2013, la corte d’appello di Trieste, in funzione di
giudice del rinvio, riconosciuta la responsabilità penale degli imputati in relazione
al reato agli stessi ascritto, li ha condannati alla pena di euro 4.000,00 di multa

2. Avverso la sentenza del giudice del rinvio, a mezzo del comune difensore,
hanno proposto ricorso per cassazione entrambi gli imputati, censurando il
provvedimento impugnato per vizio di motivazione, avendo la corte triestina
erroneamente e illogicamente escluso l’integrale creazione e produzione in Italia
delle scarpe oggetto d’esame, atteso che la fase produttiva delocalizzata
all’estero si era esaurita in una banalissima e insignificante percentuale del
processo di realizzazione dei prodotti (consistita nella sola cucitura delle tomaie)
tale da non inficiare in alcun modo la relativa qualità e da escludere il ricorso di
alcuna induzione in inganno del pubblico dei consumatori, con la conseguente
mancata integrazione dei presupposti per la consumazione del reato di cui all’art.
517 cod. peri..

CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Il ricorso è infondato.
Con la sentenza impugnata in questa sede, la corte d’appello di Trieste, sulla
base di una motivazione dotata di piena coerenza logica e consequenzialità
argomentativa, vieppiù immune da vizi di natura giuridica e del tutto rispettosa
dei principi di diritto stabiliti nella sentenza rescindente pronunciata da questa
Corte, ha sottolineato come, con riguardo alle scarpe oggetto dell’odierno
esame, mentre la lavorazione della tomaia era avvenuta in Italia, il definitivo
assemblaggio delle stesse fosse viceversa avvenuto in Romania, sul cui territorio
si era provveduto alla cucitura della tomaia alla suola.
Secondo il conseguente e logicamente corretto ragionamento articolato nella
sentenza impugnata, la fase della lavorazione compiuta all’estero (ossia la
cucitura della suola alla tomaia) non può essere considerata in nessun caso un
segmento del ciclo produttivo di trascurabile rilievo, poiché detta cucitura
costituisce quella fase della lavorazione specificamente destinata ad assicurare la
robustezza della scarpa e a preservarne la durata, in tal modo incidendo in modo

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ciascuno.

decisivo su qualità generalmente ritenute di carattere essenziale in relazione al
tipo di prodotto in esame.
L’applicazione su tali prodotti dell’etichetta made in Italy deve pertanto
ritenersi effettivamente tale da indurre in errore l’acquirente circa l’origine, la
provenienza e la qualità del prodotto: infatti, grazie all’apposizione di quella
scritta, l’acquirente della calzatura è inevitabilmente indotto a ritenere che la
scarpa sia interamente concepita e fabbricata in Italia, e tanto a fortiori in
considerazione della circostanza che l’impresa degli imputati realizzava quel

ultimo apponevano sul prodotto finito.
Del tutto priva di rilievo deve ritenersi l’argomentazione ancora in questa
sede illustrata dai ricorrenti (con riguardo alla pretesa irrilevanza della
delocalizzazione del ridetto segmento del processo produttivo, ritenuto
asseritamente modesto, rispetto alla riconducibilità ‘sostanziale’ del prodotto
all’iniziativa e alla responsabilità di un imprenditore italiano), avendo la corte
territoriale correttamente sottolineato – in coerenza con la specifica indicazione
sul punto fornita da questa corte di legittimità nella sentenza di annullamento
della pronuncia di assoluzione degli imputati – come il legislatore abbia di
recente reso ancor più rigorosa la tutela apprestata al pubblico dei consumatori,
imponendo, con l’art. 16 del d.l. n. 135/2009, convertito nella legge n.
166/2009, il vigore di criteri ancora più stringenti di quelli previsti dal Codice
Doganale Comunitario, stabilendo che diciture quali made in Italy, 100% Italia e
simili possono essere apposte su un prodotto, esclusivamente qualora lo stesso
sia stato interamente realizzato sul territorio italiano.

4. – Sulla base delle argomentazioni che precedono, dev’essere attestata
l’integrale infondatezza delle doglianze in questa sede avanzate dagli odierni
imputati, con il conseguente rigetto del relativo ricorso e la condanna degli stessi
al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione, rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al
pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 17/10/2014.

manufatto su commissione del noto marchio ‘Versace’, che gli stessi imputati da

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