Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 37857 del 24/04/2018


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 37857 Anno 2018
Presidente: VESSICHELLI MARIA
Relatore: MICCOLI GRAZIA

SENTENZA

sui ricorsi proposti da:
FABBRIZZI LORENZO nato a FIRENZE il 06/08/1969
CLEMENTI ANTONELLO nato a ROMA il 25/01/1961

avverso la sentenza del 29/09/2016 della CORTE APPELLO di FIRENZE
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere GRAZIA MICCOLI;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore OLGA MIGNOLO
che ha concluso chiedendo

Il Proc. Gen. conclude per il rigetto dei ricorsi.
udito il difensore
L’avvocato Santini si riporta ai motivi di ricorso,

Data Udienza: 24/04/2018

RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza impugnata, la Corte d’appello di Firenze, in parziale riforma della pronunzia
del Tribunale della stessa città, ha confermato l’affermazione della penale responsabilità di
Lorenzo FABBRIZZI e Antonello CLEMENTI per i reati di cui all’art. 615-ter, commi 2 e 3, cod.
pen. loro ascritti ai capi 4) e 7) delle imputazioni.

1.1.

Il CLEMENTI (maresciallo dei Carabinieri), agendo – su richiesta del FABBRIZZI

(amministratore di fatto della società di noleggio di apparati per intercettazioni “Signal
Intelligence” s.r.I.) in violazione dei doveri inerenti alla funzione e al servizio, abusivamente

del Ministero dell’Interno, sistema relativo all’ordine ad alla sicurezza pubblica e dunque di
interesse pubblico, come tale accessibile ed utilizzabile solo per ragioni d’ufficio; ciò avveniva
in due distinte occasioni: nel periodo intercorrente tra la fine del 2006 (il primo episodio è del
25 novembre 2006) ed il 2007 (capo 4 della rubrica) e il 29 agosto 2008 (capo 7).

1.2. Avverso tale sentenza hanno proposto, per il tramite dei propri difensori, ricorso per
cassazione entrambi gli imputati.
2. Il FABBRIZI ha affidato il proprio ricorso a due motivi.

2.1. Con il primo si deduce violazione di legge in ordine agli artt. 178 e 179 cod. proc.
pen.
Il ricorrente lamenta la violazione del diritto di difesa in relazione alla contestazione della
recidiva reiterata, effettuata dal Pubblico Ministero all’udienza del 2 luglio 2014. Stante la
dichiarazione di contumacia dell’imputato, mai revocata, la recidiva è stata contestata a
quest’ultimo mediante la notifica del verbale di udienza al difensore domiciliatario. Tale
difensore, tuttavia, aveva in precedenza rinunciato al mandato, con la conseguenza che – non
sussistendo più un legame professionale tra quest’ultimo e l’imputato – non può presumersi
che questi sia venuto a conoscenza del relativo provvedimento. Motivo per il quale il giudice
avrebbe potuto notificare il verbale al difensore di fiducia presente in udienza nelle forme di cui
all’art. 157, comma 8-bis, cod. pen.

2.2. Con il secondo motivo si denunzia violazione di legge con riferimento agli artt. 110
e 615-ter cod. pen.
Atteso che l’accesso alla banca dati SDI era consentito esclusivamente al CLEMENTI in qualità
di Maresciallo dell’arma dei Carabinieri, l’imputato non ha potuto porre in essere, in quanto
sprovvisto delle credenziali di accesso, alcun contributo agevolatore alla commissione del
reato. Al più, la condotta del ricorrente assume i caratteri di “semplice assistenza inerte” non
qualificabile in termini di concorso.
3. Il ricorso del CLEMENTI si articola in quattro motivi.

3.1. Con il primo si deduce violazione di legge in ordine agli artt. 12 I. 12 aprile 1981,
n. 121 e 615-ter cod. pen.
Sostiene il ricorrente che la condotta dell’imputato non possa assumere rilevanza penale – ai
sensi dell’art. 615-ter cod. pen. – quanto all’accesso alla banca dati SDI, atteso che tal
2

si introduceva e si manteneva nella banca dati riservati del Sistema d’Informazione Interforze

fattispecie ricorre soltanto nell’ipotesi di accesso abusivo a un sistema informatico, ossia contro
la volontà espressa o tacita di chi ha lo ius escludendi alios. L’unica fattispecie riscontrabile
nella condotta dell’imputato sarebbe quella di cui all’art. 12 I. n. 121/1981, che sanziona la
condotta del pubblico ufficiale che “comunica o fa uso di dati al di fuori dei fini previsti per
legge”.

3.2. Con il secondo motivo si deduce violazione di legge con riferimento agli artt. 12 I.
12 aprile 1981, n. 121, 2, 157 e 615-ter cod. pen. e 7 CEDU.
Anche se le recenti pronunce di questa Corte affermano la configurabilità del reato di accesso

violando i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema o
ponga in essere operazioni di natura ontologicamente diverse da quelle di cui è incaricato”, tali
principi non possono trovare applicazione – secondo la giurisprudenza della Corte Europea – ai
fatti, come quello in esame, commessi anteriormente alla formulazione del relativo
orientamento interpretativo.

3.3. Con il terzo motivo si deduce violazione di legge in relazione agli artt. 63, comma
4, e 615-ter cod. pen.
Nel determinare l’ammontare della pena, la Corte territoriale ha violato il disposto di cui all’art.
63, comma 4, cod. pen., in virtù del quale quando concorrono più circostanze aggravanti ad
effetto speciale (come quelle di cui ai commi 2 e 3 dell’art. 615-ter cod. pen.) si applica solo
quella stabilita per la circostanza più grave, anche se il giudice può ulteriormente aumentare la
pena fino a un terzo. Il giudice di secondo grado, infatti, invece di individuare la pena base nei
limiti edittali di cui al comma 3 della predetta norma (da tre a otto anni di reclusione), avrebbe
dovuto determinarla ai sensi del secondo comma (da uno a cinque anni di reclusione), per poi
eventualmente operare un ulteriore aumento di un terzo.

3.4. Con l’ultimo motivo si denunziano vizi di motivazione in ordine alla mancata
concessione delle circostanze attenuanti generiche.

CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi sono entrambi inammissibili.

1. Il primo motivo del ricorso presentato nell’interesse del FABBRIZZI, relativo alla pretesa
nullità della contestazione in udienza (del 2 luglio 2014) della recidiva reiterata per la
irregolare notifica del relativo verbale al difensore dell’imputato contumace, è palesemente
inconferente, in quanto, da un lato, la recidiva è stata esclusa dal giudice di primo grado (tale
circostanza è confermata anche dalla Corte territoriale: pag. 8 della sentenza impugnata) e,
dall’altro, si tratterebbe comunque di nullità di ordine generale a regime intermedio non più
deducibile nella presente sede, in quanto non proposta con i motivi di appello (Sez. 6, n.
31436 del 12/07/2012, Di Stefano, Rv. 253217; Sez. 2, n. 25728 del 08/06/2011, Ceglia, Rv.
250891; Sez. 4, n. 14180 del 29/11/2005, Pelle ed altri, Rv. 233952; Sez. 6, n. 10094 del
22/02/, Ricco ed altro, Rv. 231833).

3

abusivo al sistema informatico anche “quando il soggetto accede al sistema informatico

2.

Manifestamente infondata è, altresì, la doglianza relativa all’affermazione della

responsabilità penale del FABBRIZZI, nella qualità di concorrente nel reato di cui all’art. 615ter cod. pen.

2.1. Sul punto, giova ricordare che il delitto di accesso abusivo ad un sistema informatico,
previsto dall’art. 615-ter cod. pen., è reato di mera condotta, che si perfeziona con la
violazione del domicilio informatico e, quindi, con l’introduzione in un sistema costituito da un
complesso di apparecchiature che utilizzano tecnologie informatiche, senza che sia necessario
che l’intrusione sia effettuata allo scopo di insidiare la riservatezza dei legittimi utenti e che si

236221).
In ragione di ciò, si è affermato che, ai fini della configurabilità del delitto di accesso abusivo
ad un sistema informatico, nel caso di soggetto autorizzato, quel che rileva è il dato oggettivo
dell’accesso e del trattenimento nel sistema informatico violando i limiti risultanti dal
complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema o ponendo in essere operazioni di
natura ontologicamente diversa da quelle di cui egli sia incaricato e per le quali sia, pertanto,
consentito l’accesso, con conseguente violazione del titolo legittimante l’accesso, mentre sono
irrilevanti le finalità che lo abbiano motivato o che con esso siano perseguite (Sez. U, n. 4694
del 27/10/2011, Casani ed altri, Rv. 251269; Sez. 5, n. 10083 del 31/10/2014, Gorziglia e
altro, Rv. 26345401).
Va, peraltro, ricordato che le condotte tipiche punite dall’art. 615-ter cod. pen., a dolo
generico, consistono: a) nell’introduzione abusiva in un sistema informatico o telematico
protetto da misure di sicurezza, da intendersi come accesso alla conoscenza dei dati o
informazioni contenuti nel sistema, effettuato sia da lontano (attività tipica dell’hacker) sia da
vicino (da persona, cioè, che si trova a diretto contatto dell’elaboratore); b) nel mantenersi nel
sistema contro la volontà, espressa o tacita, di chi ha il diritto di esclusione, nel senso di
persistere nella già avvenuta introduzione, inizialmente autorizzata, continuando ad accedere
alla conoscenza dei dati nonostante il divieto, anche tacito, del titolare del sistema (è il caso in
cui l’accesso di un soggetto sia autorizzato per il compimento di operazioni determinate e per il
relativo tempo necessario ed il soggetto medesimo, compiuta l’operazione espressamente
consentita, si intrattenga nel sistema per la presa di conoscenza non autorizzata dei dati); c)
nel c.d. “sviamento di potere”, ossia la situazione nella quale l’accesso o il mantenimento nel
sistema informatico dell’ufficio a cui è addetto il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico
servizio, seppur avvenuto a seguito di utilizzo di credenziali proprie dell’agente ed in assenza di
ulteriori espressi divieti in ordine all’accesso ai dati, si connoti, tuttavia, dall’abuso delle proprie
funzioni da parte dell’agente, rappresenti cioè uno sviamento di potere, un uso del potere in
violazione dei doveri di fedeltà che ne devono indirizzare l’azione nell’assolvimento degli
specifici compiti di natura pubblicistica a lui demanda (Sez. U, n. 41210 del 18/05/2017,
Savarese).

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verifichi una effettiva lesione alla stessa (Sez. 5, n. 11689 del 06/02/2007, Cerbone, Rv.

Se la prima di tali condotte deve essere sicuramente ricompresa nella categoria dei cc.dd. reati
comuni, in quanto può essere perpetrata da qualsiasi soggetto, la seconda e la terza possono
farsi rientrare nella categoria dei reati propri esclusivi, perché configurabili solo se poste in
essere da colui che è formalmente autorizzato all’accesso ad un sistema informatico o
telematico.
Peraltro, il luogo di consumazione del delitto di cui all’art. 615-ter cod. pen. coincide con quello
in cui si trova l’utente che, tramite elaboratore elettronico o altro dispositivo per il trattamento
automatico dei dati, digitando la “parola chiave” o altrimenti eseguendo la procedura di

per tutelare la banca-dati memorizzata all’interno del sistema centrale ovvero vi si mantiene
eccedendo i limiti dell’autorizzazione ricevuta (Sez. U, n. 17325 del 26/03/2015, Confl. comp.
in proc. Rocco, Rv. 26302001)
2.2.

Ciò premesso, se pacifica è la configurabilità della fattispecie concorsuale di cui all’art.

110 cod. pen. con riferimento ai reati comuni, risulta invece necessario soffermarsi sul tema
del concorso di persone nel reato proprio esclusivo.
Sul punto, va ribadito che il concorso di persone nel reato ricorre, nelle sue componenti di
contributo materiale o morale e di cosciente e volontaria partecipazione, ogni volta che il
contributo di ciascun partecipe sia tale da costituire il supporto necessario alla realizzazione
criminosa, conosciuto ed apprezzato dall’autore del reato, sicché ciascuno dei partecipi sia
consapevole della situazione di fatto in cui opera e voglia contribuire, per la propria parte e nel
ruolo che svolge, alla realizzazione dell’evento antigiuridico. (Sez. 6, n. 9818 del 29/01/1991,
Liccardi ed altri, Rv. 188393; conformi: Sez. 4, n. 17396 del 15/03/2018, De Salvatore, in
motivazione; Sez. 6, n. 31313 del 26/05/2015, Pellegrino, in motivazione).
Ne consegue che con riferimento ai reati propri esclusivi non è automaticamente preclusa la
configurabilità della responsabilità penale in termini di concorso nel reato, essendo invece ciò
possibile qualora ricorrano elementi per ritenere sussistente l’azione concorrente di un
extraneus,

sotto il profilo della determinazione o dell’istigazione ovvero, ancora, della

cooperazione materiale alia commissione del reato.
Bisogna comunque precisare che affinché «possa sussistere la responsabilità dell’estraneo, è
indispensabile però che l’intraneo esecutore materiale del reato sia riconosciuto responsabile
del reato “proprio esclusivo”, indipendentemente dalla sua punibilità in concreto per la
eventuale presenza di cause personali di esclusione della responsabilità. Solo la assoluzione
dell’intraneo per carenza dell’elemento soggettivo potrebbe di per sé essere tale da non
escludere la responsabilità dell’estraneo allorché ricorra una delle figure generali previste dagli
articoli 47 e 48 c.p. ovvero, in ogni caso, laddove la mancanza dell’elemento soggettivo
riguardi esclusivamente l’autore diretto del reato e non sia estensibile all’extraneus (cfr. in
questi termini cassazione penale, sezione V, sentenza nr 35884/09; Sezione I , sentenza 18
gennaio 2004, Barletta)» (Sez. 6, n. 7370 del 5/12/2012, De Antoniis Antonio e altri, i
motivazione).
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autenticazione, supera le misure di sicurezza apposte dal titolare per selezionare gli accessi e

2.3. Nel caso in esame i giudici di merito hanno adeguatamente dato atto, con motivazione
logica e coerente, quindi immune da censure deducibili in questa sede, della condotta
concorrente tenuta dal FABBRIZZI, consistente nel richiedere al Pubblico Ufficiale (il
CLEMENTI) informazioni ottenute dal predetto sistema informatico, inducendo, in tal modo, lo
stesso pubblico ufficiale a commettere il reato di cui all’art. 615-ter cod. pen. (pag. 5 della
sentenza impugnata).
Prive di pregio si rivelano, quindi, le doglianza difensive, tese a ricondurre la condotta
nell’imputato nell’alveo di una mera assistenza inerte o connivenza, ricorrente esclusivamente

realizzazione dell’illecito (Sez. 3, n. 41055 del 22/09/2015, Rapushi e altro, Rv. 265167; Sez.
4, n. 3924 del 05/02/1998, Brescia ed altri, Rv. 210638).

3. Inammissibili sono pure le doglianze formulate nell’interesse del CLEMENTI.
I primi due motivi di ricorso possono essere trattati congiuntamente, in quanto entrambi
concernono la rilevanza penale – ex art. 615-ter cod. pen. – della condotta consistente
nell’accesso a un sistema informatico da parte di soggetto a ciò autorizzato, ma per finalità
diverse da quelle consentitegli.

3.1. Con il primo motivo, frazionata la condotta contestata all’imputato in due diversi
momenti (quello dell’acquisizione delle informazioni mediante l’accesso alla banca dati SDI e
quello della successiva divulgazione delle stesse), il ricorrente sostiene la rilevanza penale – ex
art. 12 I. 1 aprile 1981, n. 121 – della sola condotta consistente nella comunicazione delle
notizie acquisite a persone estranee all’Arma (secondo momento della condotta), atteso che
l’antefatto, ossia l’accesso al predetto sistema informatico (primo momento della condotta),
non assumerebbe rilevanza ai sensi dell’art. 615-ter cod. pen., in quanto effettuato da
soggetto autorizzato e quindi non abusivo.
Con il secondo motivo, invece, il ricorrente riconosce che, secondo il più recente orientamento
di questa Corte, il delitto di cui all’art. 615-ter cod. pen. è configurabile anche nei casi in cui il
soggetto agente, pur essendo abilitato e pur non violando le prescrizioni formali impartite dal
titolare di un sistema informatico o telematico protetto per delimitarne l’accesso, acceda o si
mantenga nel sistema per ragioni ontologicamente estranee rispetto a quelle per le quali la
facoltà di accesso gli è attribuita (Sez. U, n. 4694 del 27/10/2011, Casani ed altri, Rv.
251269).
Si sostiene tuttavia, che tale orientamento costituisca un c.d. overruling giurisprudenziale tale
da postulare le medesime garanzie di accessibilità e prevedibilità proprie della norma
sanzionatoria, con conseguente applicazione del principio di irretroattività della interpretazione
giurisprudenziale più sfavorevole, pena la violazione degli artt. 2 cod. pen. 25 Cost. e 7 CEDU.
Sul punto, giova premettere che in ordine alla questione della prevedibilità della decisione
giudiziale e della conseguente impossibilità di applicazione retroattiva di un nuovo
orientamento giurisprudenziale non si sono registrate numerose pronunzie di questa Corte.
Tuttavia, la tematica, proprio con riferimento alla fattispecie di cui all’art. 615-ter cod. pen., è
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nelle ipotesi di condotta meramente passiva, inidonea ad apportare un contributo causale alla

già stata affrontata, da questa Sezione (Sez. 5, n. 31648 del 17/06/2016, Falzone, non
massimata) e risolta con argomentazioni che il collegio ritiene di dover ribadire.
3.2.

Va precisato, in proposito, che l’art. 7 della CEDU – così come conformemente

interpretato dalla giurisprudenza della Corte EDU (sentenza 22 novembre 1995, S, W. c. Regno

Unito, ric. n. 20166/92, Corte EDU, Grande Camera, sent. 21 ottobre 2013, Del Rio Prada c.
Spagna,

ric. n. 42750/09) – non consente l’applicazione retroattiva dell’interpretazione

giurisprudenziale di una norma penale nel caso in cui il risultato interpretativo non fosse
ragionevolmente prevedibile nel momento in cui la violazione è stata commessa (Sez. 2, n.

35729 del 01/08/2013 Rv. 256584).
In altri termini, la Corte EDU non impedisce alla giurisprudenza nazionale di mutare il proprio
orientamento nell’interpretazione di una norma legislativa, né in materia extrapenale né in
materia penale. Si richiede, tuttavia, che tale mutamento sia ragionevolmente prevedibile dal
destinatario della norma affinché lo Stato non incorra in una violazione dell’art. 6 (quanto alla
materia extrapenale) e dell’art. 7 (in relazione alla materia penale).
Per cui la ragionevole prevedibilità di una interpretazione giurisprudenziale rappresenta il
discrimine fra condotte che possono essere punite anche in ragione di una interpretazione che
si è affermata in epoca successiva al loro compimento e condotte che debbono andare, invece,
esenti da pena.
Nel senso della decisività della prevedibilità del nuovo orientamento giurisprudenziale, ai fini
della possibile applicazione retroattiva dello stesso, si è pronunciata anche la Corte
costituzionale, la quale, con la sentenza n. 230/2012, ha esaminato il tema in discorso
nell’opposta prospettiva della possibile applicazione retroattiva del mutamento
giurisprudenziale – intervenuto con decisione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione – in
base al quale il fatto giudicato non è previsto dalla legge penale come reato.
La Consulta ha precisato che «la Corte di Strasburgo non ha mai sinora riferito, in modo
specifico, il principio di retroattività della lex mitior ai mutamenti di giurisprudenza. I giudici
europei si sono occupati di questi ultimi – oltre che nella generale prospettiva della verifica dei
requisiti di «accessibilità» e «prevedibilità» della legge penale, ritenuti insiti nella previsione
dell’art. 7, paragrafo 1, della CEDU – solo con riferimento al diverso principio dell’irretroattività
della norma sfavorevole: ritenendo, in particolare, contraria alla norma convenzionale
l’applicazione a fatti anteriormente commessi di un indirizzo giurisprudenziale estensivo della
sfera operativa di una fattispecie criminosa, ove la nuova interpretazione non rappresenti
un’evoluzione ragionevolmente prevedibile della giurisprudenza anteriore (su tale premessa,
per soluzioni opposte nei casi esaminati, Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenze 10
ottobre 2006, Pessino contro Francia e 22 novembre 1995, S.W. contro Regno Unito; nonché,
più di recente, sentenza 10 luglio 2012, De! Rio Prada contro Spagna, nei limiti in cui i principi
interpretativi siano applicabili al nostro ordinamento)».

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21596 del 18/02/2016, P.G., P.C. e altro in proc. Tronchetti Provera, Rv. 26716401; Sez. F, n.

La questione, infine, è stata affrontata anche dalle Sezioni civili di questa Corte, le quali hanno
analogamente sottolineato la decisività della prevedibilità della decisione giudiziale, precisando
che «affinché un orientamento del giudice della nomofilachia non sia retroattivo come, invece,
dovrebbe essere in forza della natura formalmente dichiarativa degli enunciati
giurisprudenziali, ovvero affinché si possa parlare di prospective overruling, devono ricorrere
cumulativamente i seguenti presupposti: che si verta in materia di mutamento della
giurisprudenza su di una regola del processo; che tale mutamento sia stato imprevedibile in
ragione del carattere lungamente consolidato nel tempo del pregresso indirizzo, tale, cioè, da

un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa della parte (cfr. ex multis Cass. 11 marzo
2013, n. 5962)» (Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 9443 del 12/03/2015).
3.3. Ciò premesso, risulta, dunque, decisivo verificare se, nei caso in esame, l’interpretazione
estensiva delle condotte sussumibili nella previsione normativa di cui all’art. 615-ter cod. pen.
– adottata dalle Sezioni Unite di questa Corte con la citata sentenza Casani – fosse prevedibile
nel momento in cui l’imputato ha posto in essere la condotta contestatagli.
A tal proposito occorre rilevare che le Sezioni unite, lungi dall’avere introdotto una innovazione
giurisprudenziale in qualche misura estranea rispetto alle precedenti riflessioni svolte
nell’ambito delle Sezioni semplici, hanno operato dapprima una ricognizione dei due indirizzi
giurisprudenziali contrapposti ed hanno optato poi per l’interpretazione più estensiva, già
oggetto di numerose pronunce.
Nella motivazione della sentenza delle Sezioni Unite si dà conto, infatti, che il primo
orientamento, fra i due esaminati, già riteneva che il reato di cui al primo comma dell’art. 615ter cod. pen. potesse essere integrato anche dalla condotta del soggetto che, pur essendo
abilitato ad accedere al sistema informatico o telematico, vi si fosse introdotto con la password
di servizio per raccogliere dati protetti per finalità estranee alle ragioni di istituto ed agli scopi
sottostanti alla protezione dell’archivio informatico, utilizzando sostanzialmente il sistema per
finalità diverse da quelle consentite.
Tale orientamento si fondava sostanzialmente sulla considerazione che la norma in esame
punisce non soltanto l’abusiva introduzione nel sistema (da escludersi nel caso di possesso del
titolo di legittimazione) ma anche l’abusiva permanenza in esso contro la volontà di chi ha il
diritto di escluderla e che, se il titolo di legittimazione all’accesso viene utilizzato dall’agente
per finalità diverse da quelle consentite, dovrebbe ritenersi che la permanenza nel sistema
informatico avvenga contro la volontà del titolare del diritto di esclusione.
L’interpretazione estensiva dell’art. 615-ter cod. pen. si fondava su una analogia tra la
fattispecie in esame e quella della violazione di domicilio, in quanto entrambi gli illeciti si
caratterizzano per la manifestazione di una volontà contraria a quella, anche tacita, di chi ha
diritto dì ammettere ed escludere l’accesso e di consentire la permanenza ad un sistema
informatico alla stessa stregua che nel domicilio.
/
8

indurre la parte a un ragionevole affidamento su di esso; che il suddetto overruling comporti

Le Sezioni unite, nel risolvere il contrasto, più che sulle finalità dell’agente hanno fatto
riferimento al dissenso tacito del

dominus foci,

desunto dall’oggettiva violazione delle

disposizioni del titolare in ordine all’uso del sistema.
Orbene, le pronunce di adesione a tale orientamento sono state numerose e risalenti nel
tempo, fra le altre: Sez. 5 n. 12732 del 07/11/2000, Zara; Sez. 2 n. 30663 del 04/05/2006,
Grinnoldi; Sez. 5 n. 37322 del 08/07/2008, Bassani; Sez. 5 n.37322 del 2008; Sez. 5 n.18006
del 13/02/2009, Russo; Sez. 5 n. 2987 del 10/12/2009, Matassich; Sez. 5 n. 19463 del
16/02/2010, Jovanovic; Sez. 5 n. 39620 del 22/09/2010, [esce.

2011 non costituisce un novum assoluto nel panorama delle pronunzie della giurisprudenza di
legittimità in tema di accesso abusivo a un sistema informatico o telematico, ma si pone nel
solco di un corposo e risalente orientamento giurisprudenziale da tempo affermatosi
nell’ambito delle Sezioni semplici di questa Corte, per cui essa non costituisce un orientamento
“non ragionevolmente prevedibile”.
In conclusione, occorre qui ribadire che la non prevedibilità di una decisione giudiziale che ne
preclude l’applicazione retroattiva deve certamente escludersi in una situazione di contrasto
giurisprudenziale, in cui l’esito interpretativo, seppur controverso, è comunque presente.
Nessuna rilevanza assume, infine, la circostanza che l’orientamento adottato dalle Sezioni
Unite sia quello minoritario, atteso che l’unico aspetto rilevante è che al momento in cui ha
posto in essere la propria condotta, l’imputato potesse ragionevolmente prefigurare l’astratta
integrazione degli estremi della fattispecie criminosa, nel caso di specie quelli di cui all’art.
615-ter cod. pen.

3.4. Il Collegio ritiene, quindi, che il motivo sia infondato poiché nella specie non è
ravvisabile quella imprevedibilità interpretativa richiesta dalla giurisprudenza europea ed
ipotizzata nel ricorso, per l’assorbente ragione che nel momento in cui fu posta in essere la
condotta (l’episodio più remoto è del 25 novembre 2006) era già presente la predetta
situazione di contrasto giurisprudenziale, con la conseguente, palese, prevedibilità della
valutazione giuridica, successivamente adottata dalle Sezioni Unite.

4. Anche le doglianze formulate in ordine al trattamento sanzionatorio, in particolare al

In altri termini, l’interpretazione prospettata dalle Sezioni Unite con la sentenza Casani del

rapporto tra circostanze aggravanti ad effetto speciale per la determinazione della pena base,
sono manifestamente infondate.

4.1. Le “circostanze del reato” sono quegli elementi che, non richiesti per l’esistenza del reato
stesso, laddove sussistano incidono sulla sua maggiore o minore gravità, così comportando
modifiche quantitative o qualitative all’entità della pena: trattasi di elementi che si pongono in
rapporto di species a genus (e non come fatti giuridici modificativi) con i corrispondenti
elementi della fattispecie semplice in modo da costituirne, come evidenziato da autorevole
dottrina, “una specificazione, un particolare modo d’essere, una variante di intensità di
corrispondenti elementi generali” (Sez. U, n. 26351 del 26/06/2002, P.G. in proc. Fedi, in
motivazione).

9

,

Sul punto, la Sezioni Unite di questa Corte hanno precisato che l’unico criterio idoneo a
distinguere le norme che prevedono circostanze da quelle che prevedono elementi costitutivi
della fattispecie è il criterio strutturale della descrizione del precetto penale (Sez. U, n. 26351
del 26/06/2002, P.G. in proc. Fedi, cit.), ricorrendo le prime quando la fattispecie è descritta
attraverso un mero rinvio al fatto-reato tipizzato in altra disposizione di legge.
Ciò premesso, va rilevato che costituiscono circostanze aggravanti del delitto previsto dall’art.
615-ter, comma 1, cod. pen. -e non ipotesi autonome di reato- «la fattispecie di accesso
abusivo ad un sistema informatico protetto commesso dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di

pubblico ufficio con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti alla funzione o al
servizio» (Sez. U, n. 4694 del 27/10/2011, Casani ed altri, Rv. 251270) e l’accesso abusivo a
sistemi informatici o telematici relativi all’ordine pubblico o alla sicurezza pubblica.
Nei casi previsti dall’art. 615-ter, commi 2, n. 1, e 3, cod. pen., infatti, non vi è immutazione
degli elementi essenziali delle condotte illecite descritte dal primo comma, in quanto il
riferimento è pur sempre a quei fatti-reato, i quali vengono soltanto integrati da qualità
peculiari, rispettivamente, dei soggetti attivi delle condotte e dei sistemi informatici oggetto
dell’accesso abusivo, con specificazioni meramente dipendenti dalle fattispecie di base.
Correttamente, quindi, il ricorrente ha evidenziato che, ai sensi dell’art. 63, comma 4, cod.
pen., se concorrono più circostanze aggravanti ad effetto speciale, si applica soltanto la pena
stabilita per la circostanza più grave, salvo un ulteriore possibile aumento di pena, nella misura
di un terzo, rimesso alla discrezionalità del giudice.
Tuttavia, nel caso in esame, contrariamente a quanto dedotto con il motivo di ricorso, la Corte
territoriale ha fatto corretta applicazione dell’anzidetto principio, in quanto – ricorrendo
entrambe le aggravanti di cui all’art. 615-ter, commi 2 e 3, cod. pen. – ha individuato i limiti
edittali entro i quali determinare l’entità della pena base in quelli (da tre a otto anni di
reclusione) previsti dalla circostanza più grave (art. 615-ter, comma 3, cod. pen.),
esattamente come prescritto dall’art. 63, comma 4, cod. pen.
Così individuata la pena base (peraltro fissata nel limite minimo edittale di anni tre di
reclusione: pag. 8 della sentenza), inoltre, la Corte territoriale non avrebbe potuto operare, e
difatti non lo ha fatto, l’ulteriore aumento di pena fino ad un terzo consentito dalla stessa
previsione normativa di cui all’art. 63 cod. pen., atteso che nella determinazione dei limiti di
pena da tre a otto anni di reclusione (615-ter, comma 3, seconda ipotesi, cod. pen.) risulta già
ricompresa, per espressa previsione del legislatore che richiama testualmente il secondo
comma, la sanzione dell’ulteriore disvalore relativo alla diversa circostanza prevista da tale
comma (ossia, la qualità di pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico ufficio dei soggetti
attivi delle condotte).

4.2. Inammissibili, infine, sono le doglianze in punto di motivazione con riferimento alla
mancata concessione delle attenuanti generiche.
Congrua e logica, e pertanto immune da censure deducibili in questa sede, deve ritenersi,
infatti, la motivazione sul diniego delle attenuanti generiche fornita dalla Corte territoriale, (

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nonostante quest’ultima abbia assolto al proprio onere mediante il richiamo delle
argomentazioni elaborate dal giudice di primo grado.
Del resto, la giurisprudenza di questa Corte ha precisato, in molteplici occasioni, che la
motivazione “per relationem” di un provvedimento giudiziale è da considerare legittima
quando, come nel caso in esame: «1) faccia riferimento, recettizio o di semplice rinvio, a un
legittimo atto del procedimento, la cui motivazione risulti congrua rispetto all’esigenza di
giustificazione propria del provvedimento di destinazione; 2) fornisca la dimostrazione che il
giudice ha preso cognizione del contenuto sostanziale delle ragioni del provvedimento di

quando non venga allegato o trascritto nel provvedimento da motivare, sia conosciuto
dall’interessato o almeno ostensibile, quanto meno al momento in cui si renda attuale
l’esercizio della facoltà di valutazione, di critica ed, eventualmente, di gravame e,
conseguentemente, di controllo dell’organo della valutazione o dell’impugnazione» (Sez. 6, n.
53420 del 04/11/2014, Mairajane, Rv. 261839; Sez. 6, n. 48428 del 08/10/2014, Barone e
altri, Rv. 261248).
Sul punto, giova, inoltre, ribadire che il giudizio relativo alla concessione delle circostanze
attenuanti generiche consiste in una valutazione di merito, che se esaustivamente e
logicamente motivata, anche per relationem, è sottratta al controllo di legittimità. Nel motivare
il diniego della concessione delle attenuanti generiche, peraltro, non è necessario che il giudice
prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili
dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque
rilevanti, rimanendo tutti gli altri disattesi o superati da tale valutazione (Sez. 3, n. 28535 del
19/03/2014, Lule, Rv. 259899; conformi: n. 459 del 1982 Rv. 151649; n. 10238 del 1988, Rv.
179476; n. 6200 del 1992, Rv. 191140; n. 707 del 1998, Rv. 209443; n. 2285 del 2005, Rv.
230691; n. 34364 del 2010, Rv. 248244).

5.

In ragione dei suesposti motivi, i ricorsi devono essere dichiarati inammissibili.

All’inammissibilità consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e
di una somma in favore della Cassa delle Ammende che, in ragione delle questioni dedotte, si
stima equo determinare in euro 2.000,00 ciascuno.

P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese
processuali e della somma di euro duemila in favore della Cassa delle Ammende.
CQ,SÌ deciso in Roma, il 24 aprile 2018
Nliere est

Il presidente

riferimento e le abbia meditate e ritenute coerenti con la sua decisione; 3) l’atto di riferimento,

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