Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 37637 del 27/05/2015


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 37637 Anno 2015
Presidente: SQUASSONI CLAUDIA
Relatore: ANDRONIO ALESSANDRO MARIA

SENTENZA
sul ricorso proposto da
Colombo Giovanni Piero, nato il 1° gennaio 1941
avverso la sentenza della Corte d’appello di Milano del 13 maggio 2014;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Alessandro M. Andronio;
udito il pubblico ministero, in persona del sostituto procuratore generale
Eugenio Selvaggi, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito il difensore, avv. Stefano Rubiu.

Data Udienza: 27/05/2015

RITENUTO IN FATTO
1. — Con sentenza del 13 maggio 2014, la Corte d’appello di Milano ha
confermato la sentenza del Tribunale di Milano del 24 giugno 2011, con la quale
l’imputato era stato condannato, per il reato di cui all’art. 10 ter del decreto legislativo
n. 74 del 2000, per avere omesso di versare entro il termine di legge, in qualità di
legale rappresentante di una società, l’Iva dovuta in base alla dichiarazione annuale
relativa al 2006, per l’importo complessivo di euro 233.213,00.

per cassazione, deducendo, con unico motivo di doglianza, l’erronea applicazione
dell’articolo 42 cod.

pen.

e della

disposizione incriminatrice,

nonché la

contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione. Si sostiene, in particolare,
che la Corte d’appello avrebbe errato nel ritenere irrilevante la circostanza che l’unico
cliente per il quale la società dell’imputato lavorava aveva cessato i suoi rapporti
commerciali con tale società, perché tale circostanza avrebbe dovuto essere ritenuta
invece del tutto imprevedibile e tale da escludere la volontà dell’imputato di non
adempiere all’obbligazione tributaria. Si contesta, poi, all’affermazione dei giudici di
merito secondo cui l’Iva andrebbe accantonata in modo da poter essere puntualmente
corrisposta alla scadenza, perché non terrebbe conto delle normali prassi aziendali,
per le quali i pagamenti dilazionati dei debiti, anche tributari, costituiscono la regola.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. – Il ricorso è inammissibile, perché basato su un motivo manifestamente
infondato.
Il ricorrente dà per scontata la circostanza del regolare incasso dell’Iva
corrisposta alla sua società dal cliente, limitandosi a sostenere che quest’ultimo, per il
mutamento delle sue strategie aziendali, avrebbe improvvisamente interrotto gli ordini
nei suoi confronti. Lo stesso ricorrente sostanzialmente ammette, del resto, che il
mancato accantonamento dell’Iva già incassata è frutto di una sua libera
determinazione e non di cause esterne.
Tale essendo stata la prospettazione difensiva anche in grado d’appello, la Corte
distrettuale ha correttamente richiamato i principi affermati sul punto dalla
giurisprudenza di questa Corte, la quale ha preso le mosse dalla considerazione che la
norma penale risponde all’esigenza che l’organizzazione economica dell’impresa per il
pagamento dei tributi si articoli su base annuale. Non può, quindi, essere invocata,
per escludere la colpevolezza, la crisi di liquidità del soggetto attivo al momento della
scadenza del termine, ove non si dimostri che la stessa non dipenda dalla scelta di

2. — Avverso la sentenza l’imputato ha proposto, tramite il difensore, ricorso

non far debitamente fronte all’esigenza predetta. Né può ovviamente escludersi, in
astratto, che siano possibili casi – il cui apprezzamento è devoluto al giudice del
merito ed è, come tale, insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato
– nei quali possa invocarsi l’assenza del dolo o l’assoluta impossibilità di adempiere
all’obbligazione tributaria. È tuttavia necessario che siano assolti gli oneri di
allegazione che, per quanto attiene alla crisi di liquidità, dovranno investire non solo

investito l’azienda, ma anche la circostanza che detta crisi non possa essere
adeguatamente fronteggiata tramite il ricorso, da parte dell’imprenditore, ad idonee
misure da valutarsi in concreto. Occorre cioè la prova che non sia stato altrimenti
possibile per il contribuente reperire le risorse necessarie a consentirgli il corretto e
puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte
le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, dirette a
consentirgli di recuperare, in presenza di un’improvvisa crisi di liquidità, quelle somme
necessarie ad assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti
dalla sua volontà e ad egli non imputabili (ex multis, sez. 3, 8 gennaio 2014, n.
15416; sez. 3, 9 ottobre 2013, n. 5905/2014). Né il fatto che le obbligazioni tributarie
siano rimaste inadempiute per l’esigenza di adempiere prioritariamente alle
obbligazioni di pagamento delle retribuzioni dei lavoratori dipendenti è di per sé
sufficiente a configurare la diversa circostanza scriminante dello stato di necessità
(sez. 3, n. 15416/2014, cit.), peraltro non invocata dalla difesa nel caso in esame.
4. – Il ricorso, conseguentemente, deve essere dichiarato inammissibile. Tenuto
conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che,
nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il
ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità»,
alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod.
proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della
somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in C 1.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di C 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 27 maggio 2015.

l’aspetto della non imputabilità della crisi economica che improvvisamente avrebbe

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