Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 3747 del 18/12/2013


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 3747 Anno 2014
Presidente: MILO NICOLA
Relatore: GARRIBBA TITO

SENTENZA
sul ricorso proposto da Dyrmyshi Pellumb, nato il 7.7.1965,

avverso

la sentenza emessa il 9 luglio 2013 dalla Corte d’appello di Napoli;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Tito Garribba;
udito il pubblico ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Vito
D’Ambrosio, che ha concluso per l’inammissibilità del ricórso;

Data Udienza: 18/12/2013

CONSIDERATO IN FATTO

§1.

DYRMYSHI Pellumb ricorre contro la sentenza specificata in

epigrafe, con cui la Corte d’appello di Napoli si è dichiarata favorevole alla di lui

omicidio volontario, e denuncia:
1. mancanza di motivazione in ordine ai gravi indizi di colpevolezza, assumendo che gli elementi di indagine non sarebbero idonei a sostenere il
giudizio di qualificata probabilità circa la sua partecipazione all’omicidio;
g.

violazione del divieto ne bis in idem, assumendo che, essendo stato definitivamente assolto dal reato per cui si procede con sentenza emessa dall’autorità giudiziaria albanese, non potrebbe essere sottoposto per lo stesso fatto a nuovo giudizio.

CONSIDERATO IN DIRITTO
§2.1

Cominciando dall’esame del primo motivo di ricorso, si os-

serva che l’estradizione de qua è regolata dalla Convenzione europea firmata a
Parigi il 13.12.1957, la quale non richiede per la pronuncia di sentenza favorevole all’estradizione per l’estero il requisito della sussistenza di gravi indizi di colpevolezza, ma si limita a stabilire, all’art. 12, che a sostegno della richiesta devono
essere prodotti l’originale o la copia autentica del provvedimento giudiziale (sentenza di condanna esecutiva o mandato di cattura), l’esposizione dei fatti e una
copia delle disposizione di legge applicabili.
La circostanza che la Convenzione europea non richieda la verifica
dei gravi indizi di colpevolezza non significa che essi siano del tutto irrilevanti,
ma solo che la loro sussistenza è tratta dai documenti che ;devono essere allegati
alla richiesta sulla base di una procedura semplificata rispetto a quella prevista
dall’art. 705, comma 1, cod.proc.pen., che trova giustificazione nel principio del
reciproco riconoscimento di una comune cultura giuridica e di un rapporto di affidabilità tra Stati che rispettano le regole del ‘giusto processo’. L’esame del giudi-

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estradizione verso la Repubblica ellenica affinché sia giudicato per il delitto di

ce dovrà pertanto essere condotto accertando che dalla documentazione trasmessa risultino evocate le ragioni per le quali si ritiene probabile che l’estradando abbia commesso il reato oggetto della richiesta di estradizione. In questo
modo, a differenza di quanto accade per il regime previsto dall’art. 705, comma
1, cod.proc.pen., il giudice non deve valutare autonomamente i gravi indizi di

riservata alla competenza dell’autorità giudiziaria dello Stato richiedente), ma
soltanto verificare se la richiesta sia fondata su un compendio indiziario che l’autorità giudiziaria straniera abbia ritenuto seriamente evocativo di un fatto-reato
commesso dalla persona di cui si chiede l’estradizione (v. Cass., Sez. 6, 9.4.2009
n. 17913, Mirosevich, rv 243583; idem, 22.1.2010 n. 8h09, Maksymenko, rv
246173).
Applicando i cennati principi al caso concreto, la Corte territoriale ha
verificato che il titolo estradizionale contiene sia l’indicazione delle fonti indiziarie
sia la spiegazione delle ragioni per le quali è stato ritenuto probabile – nella prospettiva del sistema processuale dello Stato richiedente – che l’estradando abbia
commesso il reato ascrittogli. Pertanto le censure formulate sul punto dal ricorrente sono infondate.

§2.2

Anche il secondo motivo è infondato.

La regola del ne bis in idem, che vieta la duplicazione del giudizio sullo stesso fatto nei confronti della medesima persona, poggiando su innegabili
esigenze di economia e razionalità, è prevista non solo dà1 nostro ordinamento
processuale (v. art. 649 cod.proc.pen.), ma da ogni ordinamento giuridico moderno. Essa, però, nell’attuale momento storico che ancora privilegia il principio
della sovranità nazionale, del quale sono espressione in tema di applicazione della legge penale gli artt. 6 e segg. cod.pen., vale solamente nei rapporti processuali interni e, non avendo il carattere di norma internazionale generalmente riconosciuta (v. Corte cost., sentenza 12.4.1967 n. 48), per essere trasferita nei
rapporti internazionali abbisogna di un’apposita previsione quanto meno a livello
convenzionale. Tale è, ad esempio, la disposizione dell’art. 54 della legge
30.9.1993 n. 388 di ratifica ed esecuzione della convenzione di Schengen del
1990, che stabilisce che “una persona che sia stata giudicata con sentenza defi-

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colpevolezza né rielaborare criticamente le risultanze processuali (materia questa

nitiva in una Parte contraente non può essere sottoposta a un procedimento penale per i medesimi fatti in un’altra Parte contraente…”.
Per quanto riguarda il caso in esame, l’art. 9 della già citata Convenzione europea, in parziale riconoscimento del divieto ne bis in idem, stabilisce l’inestradabilità quando sussista una sentenza definitiva emessa nei confronti del-

nel caso di specie – che una tale sentenza sia stata emessa in uno Stato terzo e,
quindi, la sentenza di assoluzione pronunciata nello Stato albanese non può avere alcuna rilevanza sull’iter estradizionale in corso, pena la violazione della Convenzione.
Il ricorso, siccome infondato, deve dunque essere rigettato. Ne consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 203 disp.att.
cod.proc.pen.
Così deciso il 18 dicembre 2013.

l’estradando nello Stato richiesto. Non contempla invece l’ipotesi – verificatasi

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