Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 37329 del 10/07/2013


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 37329 Anno 2013
Presidente: FERRUA GIULIANA
Relatore: FUMO MAURIZIO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
GANGEMI FRANCESCO N. IL 28/09/1934
avverso la sentenza n. 3954/2010 CORTE APPELLO di CATANIA, del
21/11/2012
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 10/07/2013 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. MAURIZIO FUMO
Il

che ha concluso per

Udito, per la part civile, l’Avv
Udit i difenso Avv.

Ott.

Data Udienza: 10/07/2013

udito il PG in persona del sost.proc.gen. dott. G. Izzo, che ha chiesto rigettarsi il ricorso
RITENUTO IN FATTO

2. Le imputazioni formulate a carico del Gangemi gli attribuiscono l’offesa della reputazione
del sostituto procuratore della Repubblica Macrì Vincenzo, attraverso la pubblicazione di numerosi
articoli di stampa, nei quali il magistrato veniva accusato di aver “manovrato” numerosi
collaboratori di giustizia, di aver complottato con suoi colleghi e con appartenenti alle forze
dell’ordine, allo scopo di ottenere l’arresto di altri magistrati, di essere legato da un patto
scellerato al collega Lembo Giovanni, di essere inquadrato in una vera propria banda criminale, la
quale operava per ottenere “la liquidazione” dei suoi avversari.
3. Con il ricorso per cassazione, il difensore deduce violazione di legge e in particolare
dell’articolo 6 della legge 4 agosto 1955 numero 848, degli articoli 133, 595 cp, 13 legge 3
febbraio 1947 numero 48, nonché degli articoli 121, 38 disp. att. cpp, 178, 190, 192, 193, 530,
538, 542, 546, 603, 649, 606 cpp.
4. Sostiene innanzitutto il ricorrente che per i medesimi fatti e già intervenuta sentenza,
con la quale il Gangemi è stato assolto; dunque egli non può essere processato nuovamente.
4.1. Sotto altro aspetto, il ricorrente sostiene che l’imputato ha agito nell’esercizio del
diritto di critica e di cronaca e che comunque manca il dolo del delitto di diffamazione perché
Gangemi non intendeva affatto offendere la reputazione del Macrì, ma riferire fatti socialmente
rilevanti e la cui conoscenza era indispensabile per ristabilire la verità, ripristinare il prestigio
dell’ordine giudiziario, assicurare trasparenza all’informazione, presupposto irrinunciabile per una
reale gestione democratica della vita pubblica. Gli accertamenti compiuti in sede processuale
hanno dimostrato come veritiere le affermazioni contenute negli articoli del giornale “Il Nuovo
Dibattito”. È infatti risultato che infondatamente il Macrì aveva accusato suoi colleghi di gravi
reati, aveva esercitato contro di loro l’azione penale, ne aveva ottenuto la carcerazione, atteso che
poi le persone accusate sono state assolte.
5. Subordinatamente il ricorrente rappresenta la eccessività della pena.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso si connota per la sua spiccata genericità, tanto che, in taluni punti, lo scritto
difensivo risulta addirittura incomprensibile, come nella parte in cui (da pagina 5 a pagina 23)
vengono riportati interi brani, evidentemente tratti dalla trascrizione stenotipica di un’udienza
dibattimentale, senza che sia specificato di quale procedimento si tratti e quale incidenza esso
abbia sui fatti per i quali attualmente pende ricorso.
2. Quanto al dedotto ne bis in idem, si deve innanzitutto osservare che non è deducibile in
sede di legittimità -ma proponibile dinanzi al giudice dell’esecuzione- la violazione del divieto del
ne bis in idem”, considerato che il relativo giudizio, presupponendo necessariamente un raffronto
fra elementi fattuali relativi alle imputazioni contestate nelle sentenze in ordine alle quali la
preclusione è addotta, si risolve in un accertamento sul fatto (ASN 201124954-RV 250920).
2.1. Peraltro, non risulta neanche che il ricorrente abbia prodotto la sentenza in relazione
alla quale intende far valere la preclusione processuale; al proposito, è stato chiarito che,
quantomeno innanzi al giudice di merito, la sentenza dalla quale deriverebbe la invocata

1. Con la sentenza in epigrafe, la corte di appello di Catania, in parziale riforma della
sentenza di primo grado, ha dichiarato non doversi procedere a carico di Gangemi Francesco, in
ordine ad alcuni episodi di diffamazione a mezzo stampa perché, estinti per prescrizione (fino a
luglio 2002); ha rideterminato la pena nei confronti del predetto -per ulteriori episodi contestati
come consumati successivamente a luglio 2002- in mesi sei di reclusione.

I

3. Non è poi chiarito in che cosa sarebbe consistita la violazione della legge di ratifica della
convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e in particolare
dell’articolo 6 (legge 848/1955).
3.1. Il ricorso -per altro- sembra contenere un invito a questo giudice di legittimità perché
acquisisca atti processuali di altri procedimenti (cfr. pagina 25), attività che è certo inibita al
giudizio di cassazione.
4. Quanto all’esercizio del diritto di critica e di cronaca, la sentenza impugnata, sia pure
indulgendo in superflue citazioni della giurisprudenza di legittimità, chiarisce che non ricorrono i
presupposti perché tale esercizio venga riconosciuto. Invero, da un lato, si afferma non essere
dimostrata la veridicità di tutte le affermazioni contenute negli articoli di stampa, dall’altro, si
nega che esse rispondono al requisito della continenza.
Nel ricorso si afferma genericamente il contrario, facendo riferimento alle intervenute assoluzioni
dei soggetti nei confronti dei quali, secondo quanto lo stesso ricorrente afferma, il Macrì avrebbe
ottenuto -a suo tempo- ingiusti provvedimenti cautelari.
4.1. Il fatto è, tuttavia che, come si evince dalla lettura dei capi d’imputazione (la cui
lettera non è stata contestata nel ricorso), negli articoli a firma del Gangemi non ci si è limitati a
dar conto dello sviluppo processuale delle indagini coordinate dal Macrì (indagini che, a quanto
sembra di comprendere, avrebbero smentito in radice le tesi accusatorie propugnate dal predetto
sostituto procuratore) , ma si sono formulate vere e proprie accuse ingiuriose e calunniose nei
confronti del predetto. Lo stesso infatti è stato qualificato “burattinaio…, bilioso…, eroe di
cartapesta, ricattato…, ostaggio della cosca messinese…, non degno di lustrare le scarpe1l
presidente Foti…, amico vigliacco di Lembo…, contiguo a un’associazione mafiosa…, aderente n
patto scellerato…, autore di un ricatto strisciante”e così via.

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5. A fronte del significato sociale obiettivamente ingiurioso di tali espressioni (contenute in
articoli di giornale ,che ben possono considerarsi integrare una vera e propria campagna stampa),
non ha ovviamente senso porsi il problema della sussistenza del dolo, vale a dire della
consapevolezza della valenza delle frasi utilizzate e della volontà di ingiuriare o calunniare il Macrì.
È noto infatti, che, per integrare il reato di cui all’articolo 595 cp, non occorre che l’agente sia
mossa dal cosiddetto animus diffamandi, essendo sufficiente il dolo generico(che può anche
assumere la forma del dolo eventuale), in quanto basta che l’agente, consapevolmente, faccia
uso di parole ed espressioni, come si diceva, socialmente interpretabili come offensive(es. ASN
199907597-RV 213631).
6. Quanto, infine, alla misura della pena, la sentenza d’appello tiene conto della sistematica
reiterazione del comportamento illecito e dei precedenti specifici dell’imputato. Trattasi di
valutazione, per quanto sintetica, adeguata e congrua per giustificare il trattamento sanzionatorio.
7. La inammissibilità del ricorso rende inoperativa la eventuale prescrizione dei reati
“superstiti”.

preclusione fosse prodotta (ASN 200709180-RV 236259); ma, dal testo del ricorso, non risulta
che tale onere sia stato,a suo tempo, adempiuto.
2.2. Quand’anche, poi, il Gangemi fosse stato effettivamente assolto dal delitto di minaccia
nei confronti del Macrì o di altri, nulla avrebbe evitato di contestare ab origine al medesimo
imputato, ai sensi dell’articolo 81 cp, anche il delitto di diffamazione, ben potendo, come è noto,
con una sola azione, essere violate più norme penali incriminatrici. Ne consegue, che pur
rimanendo immutato il fatto, nondimeno la stessa condotta avrebbe potuto essere considerata
anche sotto un diverso aspetto, vale a dire quello per il quale l’imputato è stato condannato nei
due gradi di merito nell’ambito del presente procedimento.

8. Alla dichiarazione di inammissibilità consegue la condanna del ricorrente alle spese del
grado e al versamento di somma a favore della cassa delle ammende. Si stima equo determinare
detta somma nella misura di € 1000.
PQM
dichiara inammissibile il ricorso e condannee ricorrente al pagamento delle spese di procedimento e
al versamento della somma di euro 1000 a favore della cassa delle ammende.

Così deciso in Roma in data 10 luglio 2013.

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