Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 37207 del 18/07/2013


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 37207 Anno 2013
Presidente: AGRO’ ANTONIO
Relatore: FIDELBO GIORGIO

SENTENZA

sul ricorso proposto da
Antonio Henrico, nato a Roma il 9.3.1967;
avverso l’ordinanza dell’8 febbraio 2013 emessa dal Tribunale di Perugia;
visti gli atti, l’ordinanza impugnata e il ricorso;
udita la relazione del consigliere dott. Giorgio Fidelbo;
udite le richieste del Sostituto Procuratore generale, Carmine Stabile, che ha
concluso per l’inammissibilità del ricorso per sopravvenuta mancanza di
interesse;
udito l’avvocato Emilio Ricci, che ha insistito per raccoglimento del ricorso.

Data Udienza: 18/07/2013

RITENUTO IN FATTO

1. Con l’ordinanza indicata in epigrafe il Tribunale di Perugia, in qualità di
giudice del riesame, ha confermato il provvedimento del 21 gennaio 2013 con
cui il G.i.p. dello stesso Tribunale aveva disposto la misura cautelare degli
arresti domiciliari nei confronti di Antonio Henrico per il reato di concorso in

2. Dall’ordinanza si apprende che la vicenda riguarda una indagine avente
originariamente ad oggetto i fallimenti delle società Pasqualini s.r.I., Domitia
Hospital s.r.l. e Tecnoconsult s.r.I., procedure pendenti presso il Tribunale di
Roma, nei confronti di una serie di indagati accusati di avere sottratto ingenti
somme all’attivo fallimentare attraverso un complesso sistema di insinuazione
al passivo di crediti inesistenti, supportati da documentazione falsa, cui
seguiva una opposizione “simulata” da parte del curatore e la conseguente
instaurazione di una fase contenziosa che,

grazie alla volutamente

inadeguata difesa da parte dei legali nominati dal giudice delegato, nonché
alle consulenze tecniche redatte da professionisti compiacenti, si
concludevano in senso favorevole all’ammissione e alla liquidazione dei crediti
in favore dei soggetti muniti di false procure notarili all’incasso.
Su richiesta della Procura della Repubblica di Roma il G.i.p. del Tribunale
di Roma applicava la misura cautelare degli arresti domiciliari a carico di
numerosi indagati, tra cui anche Antonio Henrico.
Il Tribunale del riesame di Roma con due distinte ordinanze si dichiarava
incompetente, ex art. 11 c.p.p., a favore dell’autorità giudiziaria di Perugia,
confermando l’ordinanza applicativa delle misure cautelari e disponendo la
trasmissione degli atti al pubblico ministero di Perugia.
Quest’ultimo ha avanzato ex artt. 27 e 291 c.p.p. richiesta di applicazione
delle misure imposte dal G.i.p. romano, riformulando le contestazioni in cui ha
compreso nella appropriazione illecita di denaro anche alcuni giudici del
Tribunale fallimentare di Roma in concorso con gli altri indagati, richiesta
accolta dal G.i.p. del Tribunale di Perugia.
In particolare, ad Antonio Henrico viene contestato il concorso nel delitto
di peculato (capo F) per avere, in qualità di curatore del fallimento Domitia
Hospital,

concluso favorevolmente per l’ammissione al passivo degli

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peculato.

inesistenti crediti vantati dalla società Villa Vera s.r.l. (per euro 370.000) e da
Roberto Cence (per euro 400.000), nonostante si trattasse di prestazioni rese
in pendenza di procedura fallimentare, da soggetti che, a distanza di nove
anni dalla dichiarazione di fallimento, avrebbero vantato contratti conclusi con
tale Michele Cuzzocrea, amministratore delegato della società fallita e come
tale non legittimato a contrarre obbligazioni a carico della procedura

Massimiliano Fiore alla illecita appropriazione di euro 770.000,00 di proprietà
del fallimento della Domitia Hospital.
Secondo il Tribunale il ruolo di Antonio Henrico, quale curatore del
fallimento, è stato determinante nel consentire ai coindagati di ottenere il
riconoscimento dei crediti inesistenti e la liquidazione degli stessi.
Inoltre, il Tribunale ha evidenziato l’assenza, da parte del curatore, di
ogni minima verifica sulla reale esistenza dei crediti in questione, offrendo a
questo proposito giustificazioni poco convincenti e sostenendo che egli si
sarebbe rimesso alle determinazioni del giudice delegato.
L’ordinanza in questione, dopo aver escluso la ipotizzabilità del diverso
reato di truffa, così come sostenuta dalla difesa, ha ritenuto sussistenti anche
le esigenze cautelari di cui all’art. 274 lett. c), c.p.p.

3. L’avvocato Emilio Ricci, nell’interesse dell’indagato, ha proposto ricorso
per cassazione.
3.1. Con il primo motivo deduce la violazione dell’art. 27 c.p.p., in quanto
l’emissione della misura cautelare da parte del G.i.p. di Perugia, a seguito
della dichiarazione di incompetenza del giudice romano, è intervenuta oltre il
termine di venti giorni previsto dalla legge, sicché la misura stessa deve
ritenersi inefficace. Il ricorrente, citando giurisprudenza di questa Corte,
assume che il termine per la riemissione della misura decorre dalla pronuncia
del dispositivo con il quali il giudice si dichiara incompetente e ordina la
trasmissione degli atti ad altra autorità giudiziaria, non dalla data del deposito
della motivazione.
3.2. Con il secondo motivo denuncia la manifesta illogicità e
contraddittorietà della motivazione in relazione alla sussistenza dei gravi indizi
di colpevolezza per il reato di peculato contestato all’indagato. Il ricorrente
rileva innanzitutto che il fallimento per il quale Henrico ha svolto funzioni di

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fallimentare, così concorrendo con Piercarlo Rossi, Roberto Cence e

curatore non presenta quelle caratteristiche patologiche che, secondo
l’ordinanza impugnata, contraddistinguono gli altri due fallimenti oggetto della
stessa indagine, dal momento che i crediti in questione non erano inesistenti
e, soprattutto, dovendo considerarsi che il fallimento Domitia Hospital è stato
chiuso e la società è tornata in bonis.

A questo punto il ricorso passa a

criticare gli elementi indiziari considerati dal Tribunale sostenendo che:

siano state presentate dallo stesso avvocato;
b)

le due domande di insinuazione tardiva non risultano essere

contemporanee;
c) la sottoscrizione dei titoli vantati da parte del Cuzzocrea, anziché dal
curatore, non costituisce alcun indizio grave, potendo semmai indice una
responsabilità di tipo professionale in capo all’indagato;
d) non si era verificata alcuna prescrizione, in quanto le relative prestazioni
si erano concluse nel 2008;
e) non può parlarsi di contratti aventi natura indeterminata o addirittura
illecita, dal momento che la curatela ha comunque tutelato gli interessi della
massa dei creditiri riuscendo a soddisfare integralmente il passivo accertato e
facendo tornare in bonis la società;
f)

nessun parere favorevole all’ammissione dei crediti risulta dato

dall’indagato, in qualità di curatore, in quanto ogni decisione sull’ammissione
dei crediti è stata presa dal giudice delegato, con provvedimento motivato. In
particolare, con riferimento a quest’ultimo punto, nel ricorso si ribadisce
quanto evidenziato già davanti al Tribunale del riesame, e cioè che l’indagato
non avrebbe avuto alcun ruolo attivo nelle procedure di ammissione dei due
crediti, in quanto in un caso (credito Villa Vera) non era neppure presente
all’udienza, nell’altro (credito Cence) risulta che si sia rimesso alle valutazioni
del giudice delegato. In realtà, si sostiene che ad ammettere i crediti sia stato
il solo giudice delegato, peraltro in assenza del parare del curatore e della
documentazione di sostegno, che lo stesso curatore ebbe a richiedere
ottenendo un rinvio dell’udienza;
g)

nessuna rilevanza ai fini della sussistenza dei gravi indizi a carico

dell’indagato può avere la circostanza che il denaro liquidato alla società Villa
Vera sia stato poi destinato a Piercarlo Rossi, il quale con detta somma
avrebbe acquistato un appartamento a Roma;

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a) nessun rilievo probatorio ha la circostanza che le istanze di insinuazione

h)

riguardo alle dichiarazioni accusatorie rese dall’avvocato Sciosia, si

censura la decisione del Tribunale per non averle ritenute inutilizzabili, in
quanto nel momento in cui rese tali dichiarazioni (4.4.2012) la polizia
giudiziaria aveva già acquisito prove documentali sulle due domande tardive
di insinuazione al passivo, presso lo studio dello stesso avvocato: sostenere
che tale documentazione doveva ancora essere valutata costituisce comunque

avrebbe dovuto essere sentito quale persona sottoposta ad indagini, sicché le
sue dichiarazioni sono da ritenere inutilizzabili ai sensi del’art. 63 comma 2
c.p.p. In ogni caso, il ricorrente rileva che nessuna valenza indiziaria può
essere attribuita a quanto riferito dallo Scioscia, considerando che in sede di
interrogatorio di garanzia ha riferito di non sapere nulla dei rapporti con il
curatore del fallimento, che neppure conosceva;
i) del tutto neutre sarebbero anche le dichiarazioni rese da Roberto Cence.
In conclusione, si sostiene che non è emerso alcun elemento di prova
idoneo a dimostrare un accordo tra il curatore e i coindagati, accordo
finalizzato ad appropriarsi delle somme di proprietà del fallimento, né è
emerso che l’indagato abbia tratto dalla ipotizzata condotta criminosa un
vantaggio o beneficio di tipo economico.
Peraltro, il Tribunale non ha preso in alcuna considerazione le
dichiarazioni liberatorie rese da alcuni coindagati, tra cui Piercarlo Rossi e
Massimiliano Fiore, nonché lo stesso Scioscia, che hanno negato di conoscere
il curatore del fallimento Domitia Hospital.
La critica rivolta alla ordinanza riguarda l’aver ritenuto sussistenti i gravi
indizi in base ad un ragionamento induttivo non condivisibile e che conduce ad
un vizio della motivazione, in quanto fa derivare la responsabilità dell’indagato
dal fatto di non essersi battuto per l’inammissibilità dei crediti tardivi, dato di
fatto neutro dal momento che può semplicemente significare una
inadeguatezza o superficialità del curatore nel gestire la procedura.
3.3. Con il terzo motivo si deduce l’erronea applicazione dell’art. 314 c.p.
e si sostiene che nel caso in esame il fatto andava qualificato come reato di
truffa ai sensi dell’art. 640 c.p., con conseguenti ricadute in termini di
applicazione delle misure cautelari. A questo proposito si sottolinea che, nella
stessa ricostruzione dei fatti contenuta nell’ordinanza impugnata, l’indebita
appropriazione si sarebbe verificata in conseguenza di una condotta

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una violazione dell’art. 63 c.p.p. In conclusione, si assume che Scioscia

ingannatoria e, inoltre, il curatore avrebbe avuto la disponibilità del denaro
solo dopo che il giudice delegato ha emesso il mandato di pagamento: quindi,
l’appropriazione non è dipesa da un atto dispositivo del curatore, ma dalla
falsa rappresentazione della realtà che ha portato al riconoscimento di ragioni
creditorie inesistenti.
3.4. Con il quarto motivo si contesta la motivazione con cui il Tribunale

evidenzia il decorso di oltre quattro anni dall’epoca dei fatti; inoltre, si censura
l’ordinanza nel punto in cui desume l’esigenza cautelare dalla sistematicità e
ripetitività delle condotte illecite dirette all’appropriazione di risorse finanziarie
del fallimento, circostanze di fatto che non si ravvisano nella specie, che anzi
si caratterizza come fatto isolato ed occasionale. Infine, si sottolinea che
l’indagato è stato sospeso dall’esercizio della professione con decorrenza dal
5.12.2012, con provvedimento del 7.3.2013 del Consiglio dell’ordine, sicché
anche da questo punto di vista deve escludersi ogni ipotesi di reiterazione di
reati dello stesso tipo.
Si conclude per l’annullamento del’ordinanza impugnata.

CONSIDERATO IN DIRITTO

4. Preliminarmente deve rilevarsi che, in pendenza del ricorso per
cassazione, l’indagato è stato rimesso in libertà per cui è venuto meno
l’interesse all’impugnazione.
Le Sezioni unite hanno ribadito che quando nelle more del ricorso viene
revocata o diventa inefficace una misura cautelare custodiale, perchè possa
ritenersi sussistente l’interesse del ricorrente a coltivare l’impugnazione in
riferimento a una futura utilizzazione dell’eventuale pronunzia favorevole ai
fini del riconoscimento della riparazione per ingiusta detenzione, “è necessario
che la circostanza formi oggetto di specifica e motivata deduzione, idonea a
evidenziare in termini concreti il pregiudizio che deriverebbe dal mancato
conseguimento della stessa, formulata personalmente dall’interessato” (Sez.
un., 16 dicembre 2010, n. 7931, Testini; nello stesso senso, Sez. VI, 15
novembre 2006, n. 9943, Campodonico).
In difetto di una espressa indicazione che dimostri l’intenzione concreta di
una futura utilizzazione della pronuncia, l’interesse in questione finisce per

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ha ritenuto sussistente il pericolo di reiterazione dei reati. In particolare, si

essere commisurato al probabile successo dell’azione di riparazione e
l’impugnazione diventa lo strumento per rimuovere un pregiudizio futuro, solo
teoricamente ed eventualmente collegato al provvedimento impugnato,
laddove è pacifico che la situazione pregiudizievole che l’impugnazione tende
a rimuovere deve porsi in rapporto causale con l’atto impugnato, del quale
deve essere conseguenza immediata e diretta.

l’esistenza di un simile interesse, anche con riferimento alla mancanza delle
cause ostative di cui al comma 4 dell’art. 314 c.p.p.
In conclusione, si ritiene che in tali fattispecie il carattere dell’attualità e
della concretezza dell’interesse ad impugnare possa essere riconosciuto a
condizione che la parte manifesti, in termini positivi ed univoci, la sua
intenzione a servirsi della pronuncia richiesta in vista dell’azione di riparazione
per l’ingiusta detenzione.
Nel caso in esame, il ricorso contiene un accenno del tutto generico alla
procedura di cui all’art. 314 c.p.p., peraltro riferito esclusivamente alla
questione relativa alla ritenuta inefficacia della misura per violazione dell’art.
27 c.p.p.
Pertanto, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile per sopravvenuta
carenza di interesse, con riferimento a tutti i motivi proposti, per i quali non
risulta alcuna manifestazione di volontà esplicita e diretta ad utilizzare la
decisione al fine di proporre l’azione di riparazione ex art. 314 c.p.p.

5. Il venir meno dell’interesse, sopraggiunto alla proposizione del ricorso,
non configura un’ipotesi di soccombenza e pertanto si ritiene che il ricorrente
non debba essere condannato né alle spese processuali né al pagamento della
sanzione in favore della cassa delle ammende (Sez. un., 25 giugno 1997, n.
7, Chiappetta).
P. Q. M.

Dichiara inammissibile il ricorso per sopravvenuta mancanza di interesse.
Così deciso il 18 luglio 2013

Il Consigli re estensore

Ciò comporta, quindi, l’onere a carico del ricorrente di rappresentare

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