Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 3719 del 08/01/2014


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 3719 Anno 2014
Presidente: SQUASSONI CLAUDIA
Relatore: RAMACCI LUCA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
MAGNANO MARCO SEBASTIANO N. IL 11/05/1960
avverso la sentenza n. 2810/2010 TRIBUNALE di CATANIA, del
25/05/2012
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 08/01/2014 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. LUCA RAMACCI
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott.
che ha concluso per
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Udito, per la parte civile, l’Avv
Udit i difensor Avv.

Data Udienza: 08/01/2014

RITENUTO IN FATTO

1. Il Tribunale di Catania, con sentenza del 25.5.2012 ha riconosciuto Marco
Sebastiano MAGNANO responsabile di plurime violazioni del d.lgs. 81\2008
commesse nella qualità di legale rappresentante dell’associazione culturale
«A.S.D.C.L. Acqua Santa» (fatti accertati in Catania il 14\12\2008).

per cassazione.

2. Con un unico motivo di impugnazione deduce che il Tribunale, nel
confutare la tesi difensiva secondo la quale non sarebbero applicabili, nella
fattispecie, le disposizioni antinfortunistiche che si assumono violate, trattandosi
di locale non aperto al pubblico, ha affermato che l’apertura al pubblico
costituisce fatto notorio per i cittadini catanesi, dilatando così eccessivamente la
nozione di fatto notorio.
Lamenta, inoltre, l’eccessività della pena inflitta anche con riferimento agli
aumenti calcolati per la continuazione.
Insiste, pertanto, per l’accoglimento dell’impugnazione.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Il ricorso è inammissibile.
Va preliminarmente rilevato che la posizione personale dell’imputato ed il
suo ruolo di datore di lavoro ai sensi di quanto disposto dal d.lgs. 81\2008, così
come la effettiva sussistenza dei fatti indicati nell’imputazione, non sono oggetto
di contestazione.
Ciò che il ricorrente lamenta – peraltro con argomentazioni generiche – è,
infatti, la sola valutazione del giudice del merito concernente la notorietà del
fatto che il locale fosse aperto al pubblico, circostanza ritenuta dalla difesa
rilevante ai fini dell’applicabilità o meno delle violazioni accertate.
Tale assunto, tuttavia, è del tutto irrilevante e le considerazioni svolte dal
giudice del merito in risposta ad una specifica deduzione difensiva,
indipendentemente dalla loro esattezza e da una eventuale eccessiva dilatazione
della nozione di fatto notorio come individuata dalla giurisprudenza di questa
Corte, risultano dunque ultronee rispetto alle ulteriori argomentazioni che hanno

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Avverso tale pronuncia il predetto propone «appello» convertito in ricorso

portato all’affermazione di penale responsabilità dell’imputato e sulle quali il
ricorrente non ha mosso obiezioni.

4.

Invero, tutte le contravvenzioni contestate all’imputato riguardano

violazioni della generale disciplina in materia di tutela della salute e della
sicurezza nei luoghi di lavoro di cui tratta, appunto, il d.lgs. 81\2008.
Detta disciplina, come chiaramente indicato nell’art. 3, comma 1, si applica a
tutti i settori di attività, privati e pubblici e a tutte le tipologie di rischio, seppure

Non ha dunque alcun rilievo la circostanza che il rapporto di lavoro si svolga
all’interno di un locale aperto al pubblico o in un circolo privato, poiché la
disciplina che si assume violata nella fattispecie è volta a tutelare i lavoratori che
operano nel locale, indipendentemente dal fatto che l’accesso allo stesso sia
consentito alla generalità delle persone o ai soli soci.

5. Parimenti infondate risultano, inoltre, le ulteriori deduzioni in punto di
dosimetria della pena.
Il giudice, nel quantificare la pena, opera una valutazione complessiva sulla
base dei criteri direttivi fissati dall’articolo 133 cod. pen.
La determinazione della misura della pena tra il minimo e il massimo edittale
rientra nell’ampio potere discrezionale attribuito al giudice di merito, che risulta
legittimamente esercitato anche attraverso la globale considerazione degli
elementi indicati nella richiamata disposizione (Sez. IV n.41702, 26 ottobre
2004).
Quanto alla motivazione, si è osservato che una specifica e dettagliata
giustificazione sulla quantità della pena irrogata, specie in relazione alle
diminuzioni o aumenti per circostanze, è necessaria soltanto nel caso in cui essa
sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale, ritenendosi negli
altri casi adeguato il riferimento all’impiego dei criteri di cui all’articolo 133 cod.
pen. mediante espressioni del tipo: “pena congrua”, “pena equa” o “congruo
aumento”, come pure il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a
delinquere (Sez. Il n. 36245, 18 settembre 2009).

6. Nella fattispecie, il giudice del merito ha espressamente richiamato
l’articolo 133 cod. pen., affermando di stimare congrua, per il reato più grave, la
pena base di euro 3.000,00 di ammenda, attestandosi così in misura prossima al
minimo edittale di euro 2.500,00 della pena pecuniaria prevista in alternativa a
quella dell’arresto.
Anche gli aumenti di pena per la continuazione risultano contenuti nella

2

con le specificazioni di cui ai commi successivi.

misura di euro 1.000,00 per ciascuna violazione e non necessitavano di specifica
motivazione, dovendosi fare riferimento esclusivo alle ragioni poste a sostegno
della quantificazione della pena base (Sez. V n. 27382, 13 luglio 2011; Sez. V n.
11945, 19 ottobre 1999; Sez. III n. 3034, 10 novembre 1997).
Inoltre, nella quantificazione della pena finale, il giudice ha tenuto conto
anche dell’avvenuto adempimento alle prescrizioni imposte in sede di controllo
(non seguite dal pagamento dell’oblazione che avrebbe comportato l’estinzione
dei reati) riconoscendo, per tale ragione, le circostanze attenuanti generiche ed

7. Il ricorso, conseguentemente, deve essere dichiarato inammissibile e alla
declaratoria di inammissibilità – non potendosi escludere che essa sia ascrivibile
a colpa del ricorrente (Corte Cost. 7-13 giugno 2000, n. 186) – consegue l’onere
delle spese del procedimento, nonché quello del versamento, in favore della
Cassa delle ammende, della somma, equitativamente fissata, di euro 1.000,00

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese del procedimento e della somma di euro 1.000,00 in favore della Cassa
delle ammende.
Così deciso in data 8.1.2014

operando una riduzione prossima a quella massima consentita.

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