Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 37107 del 09/05/2018


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 37107 Anno 2018
Presidente: FUMU GIACOMO
Relatore: NARDIN MAURA

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
ALI MOHAMED nato il 05/08/1986

avverso la sentenza del 03/10/2017 della CORTE APPELLO di BOLOGNA
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere MAURA NARDIN
Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore MASSIMO GALLI
che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Data Udienza: 09/05/2018

RITENUTO IN FATTO
1.

Con sentenza del 3 ottobre 2017 la Corte di Appello di Bologna ha

parzialmente riformato la sentenza del G.U.P. Tribunale di Bologna e
confermando la penale responsabilità di Mohamed Ali, riqualificato il reatocommesso in data 4 dicembre 2013- ex art. 73 comma 5 d.P.R. 309/1990, lo
ha condannato alla pena di mesi otto e giorni dieci di reclusione ed euro 1666,00
di multa.
2.

Avverso la decisione propone ricorso per cassazione Mohamed Ali, a

all’erronea determinazione del trattamento sanzionatorio. Osserva come il
Tribunale di Bologna, pur errando nell’utilizzazione dei criteri di bilanciamento,
avesse ritenuto l’attenuante di cui al quinto comma dell’art. 73 d.P.R. 309/1990
come di fatto prevalente sulla contestata aggravante della recidiva (benché nel
corpo della motivazione si facesse riferimento all’equivalenza, diversamente dal
dispositivo), così giungendo ad infliggere una pena, diminuita per il rito, pari a
mesi otto e giorni venti di reclusione, nonché euro 2.100,00 di multa. Al
contrario, la Corte, investita della questione relativa al trattamento
sanzionatorio, avuto riguardo, da un lato, alla mancata concessione delle
circostanze attenuanti generiche, dall’altro, a quanto contenuto nella motivazione
del Tribunale circa il giudizio di equivalenza delle circostanze, al fine di ottenere
un nuovo e diverso calcolo basato anche sulla prevalenza del quinto comma
dell’art. 73 cit., aveva fatto riferimento alla pena base prevista dalla nuova
fattispecie autonoma di reato c.d. lieve (di cui al comma 5^, come sostituito
dall’art. 1^ comma 24 ter lett. a) del d.l. 20 marzo 2014 n. 36 conv. dalla I. 6
maggio 2014 n. 79.).

Cosi facendo, nondimeno, era pervenuta ad esiti

sanzionatori identici rispetto a quelli cui era giunto il Tribunale, perché pur
prendendo a base del calcolo la pena base inferiore, in considerazione della
riqualificazione e l’eliminazione dell’attenuante di cui al previgente quinto
comma, aveva ricalcolato l’aumento (peraltro ritenuto in modo consistente) per
la recidiva, così ponendo in essere una riforma in senso sostanzialmente
peggiorativo, anche perché laddove il Tribunale era partito da una pena
prossima al mimino edittale, invece la Corte territoriale aveva determinato la
pena in misura ben superiore al minimo.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1.
2.

Il ricorso è infondato.
Per dare soluzione al quesito posto con la censura va ricordato che,

secondo quanto ritenuto da questa stessa Sezione “In ipotesi di successione di
leggi nel tempo, l’individuazione del regime di maggior favore per il reo ai sensi
dell’art. 2 cod. pen. deve essere operata in concreto, comparando le diverse
discipline sostanziali succedutesi nel tempo. (In motivazione la Corte ha rilevato

mezzo del suo difensore, affidandolo ad un unico articolato motivo, relativo

come, in materia di stupefacenti, in relazione alla fattispecie di lieve entità di cui
all’art. 73, comma quinto, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, trasformata da
circostanza attenuante a reato autonomo dall’art. 2 D.L. 23 dicembre 2013, n.
146, convertito con modificazioni dalla legge 21 febbraio 2014, n. 10, novellato
con riguardo al trattamento sanzionatorio dal D.L. 20 marzo 2014, n. 36,
convertito con modificazioni dalla legge 16 maggio 2014, n. 79, anche per le
droghe pesanti potrebbe rivelarsi di maggior favore l’originaria previsione della
circostanza attenuante ad effetto speciale, laddove questa sia giudicata

(Sez. 4, n. 49754 del 24/10/2014 – dep. 28/11/2014, Fetriche, Rv. 26117001).
3. La pronuncia appena richiamata, che enuncia il principio della
necessaria comparazione in concreto fra le discipline applicabili affronta un caso
sostanzialmente sovrapponibile a quello in decisione ed osserva che “Le novità
normative cui si fa riferimento, intervenute nelle more del presente giudizio e da
tenere presenti agli effetti suindicati, sono, anzitutto, quella rappresentata:a) dal
D.L. 23 dicembre 2013, n. 146 (convertito con modificazioni dalla L. 22 febbraio
2014, n. 10), il cui art. 2, comma 1, lett. a) ha modificato il D.P.R. n. 309 del
1990, art. 73, comma 5, con un testo del seguente tenore: Al decreto del D.P.R.
9 ottobre 1990, n. 309 sono apportate le seguenti modificazioni: a) all’art. 73,
comma 5 è sostituito dal seguente comma: “5. Salvo che il fatto costituisca più
grave reato, chiunque commette uno dei fatti previsti dal presente articolo che,
per i mezzi, la modalità o le circostanze dell’azione ovvero per la qualità e
quantità delle sostanze, è di lieve entità, è punito con le pene della reclusione da
uno a cinque anni e della multa da Euro 3.000 a Euro 26.000”;
b) quindi dal D.L. 20 marzo 2014, n. 36, convertito con modificazioni dalla L. 16
maggio 2014, n. 79, in vigore dal 21 maggio 2014, il cui art. 1, comma 24-ter
(inserito in sede di conversione) così testualmente dispone: al D.P.R. n. 309 del
1990, art. 73 testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e
sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di
tossicodipendenza, e successive modificazioni, sono apportate le seguenti
modificazioni: a) il comma 5 è sostituito dal seguente: “5. Salvo che il fatto
costituisca più grave reato, chiunque commette uno dei fatti previsti dal presente
articolo che, per i mezzi, la modalità o le circostanze dell’azione ovvero per la
qualità e quantità delle sostanze, è di lieve entità, è punito con le pene della
reclusione da sei mesi a quattro anni e della multa da Euro 1.032 a Euro
10.329″. Sebbene il reato ascritto al ricorrente sia stato commesso prima
dell’entrata in vigore di entrambi i testi di legge dianzi citati (avvenuta
rispettivamente il 24 dicembre 2013 e il 21 maggio 2014), la circostanza che lo
stesso sia stato giudicato dal giudice del merito come fatto di lieve entità,
oggetto di disciplina tanto della norma vigente al tempo della commissione dei
reati, che di quella recata dalle menzionate disposizioni, espone il medesimo, in

prevalente rispetto alla ritenuta recidiva reiterata specifica infraquinquennale).

astratto, all’applicazione dell’art. 2 cod. pen.. 6. È opportuno avvertire però che,
a tal fine, non può bastare il solo raffronto con le pene edittali previste dai due
testi normativi succedutisi nel tempo, ma occorre tener presente che lo jus

superveniens ha anche inciso sulla configurabilità del fatto di lieve entità come
fattispecie autonoma di reato e non come circostanza attenuante.
Ed invero, a fronte di un consolidato orientamento della giurisprudenza di
legittimità che considerava pacificamente l’ipotesi disciplinata dal D.P.R. n. 309
del 1990, art. 73, comma 5, – come riproducete la L. 23 dicembre 1975, n. 685,

14 – quale circostanza attenuante delle ipotesi criminose previste dal D.P.R. n.
309 del 1990, art. 73, commi 1 e 4, e non già come una figura autonoma di
reato (cfr. Sez. U, n. 9148 del 31/05/1991, Parisi, Rv. 187930; Sez. U, n. 35737
del 24/06/2010, Rico, Rv. 247910), la prima delle modifiche normative sopra
testualmente ricordate ha già condotto la S.C. a interpretare l’ipotesi
contemplata dal comma 5 dell’art. 73 come da essa novellato quale figura
autonoma di reato; ciò sulla base di una serie convergente di indici testuali ed
extratestuali e alla stregua di un orientamento conformemente espresso da
numerose pronunce di questa e altre sezioni semplici già succedutesi in
argomento, alle cui ampie e approfondite motivazioni, qui interamente condivise,
è sufficiente in questa sede fare rimando (v. Sez. 6, n. 14288 del 8/1/2014,
Cassanelli, Rv. 259057; Sez. 4, n. 7363 del 9/1/2014, Fazio, Rv. 259280; Sez. 4,
n. 10514 del 28/02/2014, Verderamo, Rv. 259360; Sez. 4, n. 13903 del
28/02/2014, Spampinato, non massimata). Non può dubitarsi che gli stessi
argomenti debbano a fortiori valere con riferimento alla nuova formulazione
dell’art. 73, comma 5, quale introdotta – come detto – dalla novella di cui al D.L.
20 marzo 2014, n. 36, art. 1, comma 24-ter, convertito con modificazioni dalla L.
16 maggio 2014, n. 79, (inserito in sede di conversione e pertanto in
vigore dal 21/5/2014). Ed infatti, come può desumersi agevolmente dal raffronto
tra i due testi normativi, l’ultimo in null’altro si differenzia da quello precedente
se non per l’ulteriormente ridotta forbice edittale, che passa da una pena
compresa tra un minimo di un anno di reclusione ed Euro 3.000,00 di multa e un
massimo di cinque anni di reclusione ed Euro 26.000 di multa, a una pena
compresa tra un minimo di sei mesi di reclusione ed Euro 1.032,00 di multa e un
massimo di quattro anni di reclusione ed Euro 10.329 di multa. Ciò che peraltro
consente di ritenere ormai a tutti gli effetti – e in particolare ai fini del raffronto
con la disciplina vigente al momento del fatto-reato, come tale applicata dal
giudice del merito – quest’ultima quale norma comunque più favorevole tra le
due da ultimo succedutesi. È evidente l’importanza che, ai fini in discorso,
assume detta diversa configurazione dell’ipotesi di lieve entità, risiedente proprio
nel fatto che la ora prevista natura autonoma della fattispecie caratterizzata dalla
levità del fatto sottrae questa al giudizio di comparazione previsto dall’art. 69

art. 71 e quale venuto ad essere per effetto della L. 26 agosto 1990, n. 162, art.

cod. pen. per l’ipotesi di concorso di circostanze eterogenee, con l’effetto che,
nei casi non infrequenti in cui sia ritenuta la sussistenza di circostanze aggravanti
e queste siano considerate subvalenti rispetto alla ipotesi lieve (per effetto di un
giudizio di comparazione possibile nel vigore della previgente disciplina, ma non
più con la nuova), ne deriverebbe il possibile maggior favore della vecchia
disciplina rispetto alla nuova (in relazione alla quale occorrerebbe, infatti, a
differenza della prima, calcolare l’aumento di pena derivante dalle riconosciute
aggravanti).”. È necessario dunque raffrontare, anche sotto tale profilo, gli esiti

nuova disciplina. Occorre, però, a questo punto, considerare che la formulazione
del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, vigente al momento del fatto,
quale introdotta dal D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, art. 4 bis conv. in L. 21
febbraio 2006, n. 49, è stata travolta dalla sentenza dichiarativa della illegittimità
costituzionale di tale ultima disposizione, anch’essa pronunciata nelle more di
questo giudizio (Corte cost., sent. n. 32 del 25/2/2014 pubblicata nella Gazz. Uff.
del 5/3/2014 n. 11, lA Serie Speciale). Secondo l’espressa indicazione del
giudice delle leggi, con la dichiarazione dell’illegittimità costituzionale delle
norme impugnate, riprende applicazione il D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 nel
testo anteriore alle modifiche con queste apportate, atteso che i vizi procedurali
in cui era incorso il legislatore del 2006 (in sede di conversione dell’originario
decreto-legge), dovevano considerarsi tali da dar luogo ad un atto legislativo
affetto da un vizio radicale nella sua formazione come tate inidoneo ad innovare
l’ordinamento e, quindi, anche ad abrogare la precedente normativa (sentenze n.
123 del 2011 e n. 361 del 2010). Orbene, tale rivivente disciplina risulta più
favorevole rispetto a quella dichiarata incostituzionale, anche con riferimento ai
fatti (lievi) riferiti a droga pesante, avuto riguardo alla pena pecuniaria che, in
aggiunta alla esattamente coincidente pena detentiva, risulta sia pur di poco più
favorevole sia nel minimo (Euro 2.582 anziché Euro 3.000), che nel massimo
(Euro 25.822 anziché 26.000). Ne discende altresì che, nel pure necessario
raffronto con la norma di più recente introduzione, termine di paragone andrà
considerata detta previgente disciplina (ossia il D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73,
comma 5, quale risultante dalla modifica apportata, anteriormente alla norma
dichiarata incostituzionale, dalla L. 26 giugno 1990, n. 162, art. 14, comma 1)
che, come testé detto, per i fatti di lieve entità concernenti le sostanze di cui alle
tabelle 1 e 3 (c.d. droghe pesanti) prevedeva la pena della reclusione da uno a
sei anni e della multa da L. cinquanta milioni (Euro 2.582,00) a lire cinquanta
milioni (Euro 25.822,00). Ebbene, nel raffronto tra tale disposizione e quella
introdotta dal D.L. 20 marzo 2014, n. 36, art. 1, comma 24-ter convertito con
modificazioni dalla L. 16 maggio 2014, n. 79, appare evidente che – trattandosi,
giova ripetere, in ipotesi, di fatto lieve relativo a droga pesante, pur nella
evidente minore severità della forbice edittale prevista dalla nuova norma

sanzionatori cui condurrebbe, caso per caso, l’applicazione della vecchia e della

(reclusione da sei mesi a quattro anni e multa da Euro 1.032 a Euro 10.329) a
fronte di quella invece contemplata dalla precedente (reclusione da uno a sei
anni e multa da Euro 2.582 a Euro 25.822), ma considerato che, come detto, la
.prima (ossia, la più recente) configura il fatto dì leve entità come fattispecie
autonoma di reato, sottraendolo al giudizio di bilanciamento con le eventuali
circostanze aggravanti – la precedente disciplina potrebbe ugualmente risultare
più favorevole nella ipotesi in cui fosse contestata una circostanza ad effetto
speciale che prevedesse l’aumento della pena in misura superiore alla metà (..) e

nel caso ipotizzato della recidiva reiterata aggravata, è ben possibile a seguito
della declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 69 c.p., comma 4, nella
parte in cui escludeva un tale esito del giudizio di comparazione (Corte cost. 15
novembre 2012, n. 251). In tal caso, infatti, l’applicazione della nuova disciplina
e la conseguente sottrazione della ritenuta ipotesi lieve al giudizio di
comparazione, imporrebbero di applicare l’aumento previsto per la recidiva che,
essendo in ipotesi superiore alla metà, condurrebbe a una pena applicabile
superiore nel massimo a quella che sarebbe invece applicabile sotto la vecchia
disciplina. L’individuazione, dunque, tra le due, della legge più favorevole
dipenderà – anche in tal caso – dalla verifica dell’eventuale esistenza di
circostanze eterogenee ritenuta in sentenza e dall’esito del relativo giudizio di
bilanciamento.”. (Sez. 4, n. 49754 del 24/10/2014 – dep. 28/11/2014, Fetriche,
Rv. 26117001).
4.

Si tratta di un’analisi integralmente condivisa da questo collegio.

Nondimeno va affermato che il principio secondo cui spetta al giudice stabilire
quale sia la norma più favorevole al reo al fine di commisurare la pena avuto
riguardo all’unica disciplina concretamente applicabile da rinvenire nella

lex

mitior, unico parametro che consente di determinare un trattamento conforme
ai principi indicati dalla Corte Costituzionale, non si pone in contraddizione con
quello secondo il quale “La determinazione della pena tra il minimo ed il
massimo edittale rientra tra i poteri discrezionali del giudice di merito ed è
insindacabile nei casi in cui la pena sia applicata in misura media e, ancor più,
se prossima al minimo, anche nel caso il cui il giudicante si sia limitato a
richiamare criteri di adeguatezza, di equità e simili, nei quali sono impliciti gli
elementi di cui all’art. 133 cod. pen. (Sez. 4, n. 21294 del 20/03/2013 – dep.
17/05/2013, Serratore, Rv. 25619701)”. Ed invero, mantenendo ferma la
discrezionalità del giudice del merito, investito della determinazione concreta
della pena, entro i limiti devolutivi in caso di impugnazione, una volta
individuata la disciplina più favorevole il giudice dell’appello non è tenuto ad
applicare la misura edittale minima prevista dalla legge, ben potendo, senza
mai irrogare una pena superiore a quella applicata con la sentenza oggetto di

questa fosse ritenuta subvalente alla circostanza del fatto di lieve entità (come,

impugnazione, anche diversamente giudicare nell’ambito delineato dalla legge
più favorevole .
5.

La conclusione è che, nel rispetto di queste premesse, il giudice di

appello, in sede di definizione della pena, tenuto conto della disciplina più
favorevole applicabile, può commisurarla dal minimo al medio edittale senza
specificare in modo dettagliato le modalità di esercizio del suo potere
discrezionale, essendo il richiamo dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen.
implicito nella determinazione concreta.
D’altro canto, nel caso di specie la sentenza di primo grado non aveva

escluso la recidiva, ma l’aveva solo ritenuta sub valente e quindi il giudice di
appello ne ha dovuto necessariamente tenere conto, non potendo eliderla. Sicché
pur partendo da una pena base assai prossima al minimo edittale (sette mesi)
applicando la recidiva, è giunto a determinare una pena identica a quella
commisurata dal

Tribunale. E ciò perché la sub valenza della recidiva è

assorbita dalla legge più favorevole.
7. Il ricorso va, pertanto, rigettato con condanna al pagamento delle spese
processuali
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
Così deciso il 9/05/2018

Il Consigliere estensore

Il Prete: nte

Maura Nardin

GiaceFumu
1,0444

6.

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