Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 37087 del 30/04/2013


Clicca qui per richiedere la rimozione dei dati personali dalla sentenza

Penale Sent. Sez. 5 Num. 37087 Anno 2013
Presidente: ZECCA GAETANINO
Relatore: SAVANI PIERO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
PROCURATORE GENERALE PRESSO CORTE D’APPELLO DI
BARI
nei confronti di:
BUONONATO SAVINO N. IL 06/01/1960
SINESI ROBERTO N. IL 16/10/1962
TRISCIUOGLIO FEDERICO N. IL 20/10/1953
inoltre:
BELFIORE ANTONIO N. IL 02/01/1967
BUONONATO SAVINO N. IL 06/01/1960
DI BENEDETTO ARMANDO N. IL 06/06/1965
IANNICIELLO MARCO N. IL 28/03/1962
MAFFIOLA MICHELE N. IL 29/05/1962
SCOPECE GIACOMO N. IL 08/07/1973
SINESI ROBERTO N. IL 16/10/1962
TRISCIUOGLIO FEDERICO N. IL 20/10/1953
avverso la sentenza n. 3221/2010 CORTE APPELLO di BARI, del
22/09/2011
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 30/04/2013 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. PIERO SAVANI
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. CPIJ-”–‘che ha concluso per 😉 (,–pti… 4x,,,* (-1,car\A___2, tl. x.ortk ‘ 1,7 121.m.A.L.445’
A
_..i
,e5\1. A v.3),,,- ,…..„..& \ca, • -% ‘\–: ‘C-“^) 4–, . 4— •I LA
/

-c- stsif22, Scter-Ce

Data Udienza: 30/04/2013

Udito, per la parte civile, l’Avv
Uditti.difensodAvv.

â– 

I

úD14j,

LLzr,-u-b.A54\0,

)1\-‘,0z.

e

suci(9\_

citY?-vat-ee.

i1R-LtA”

RITENUTO IN FATTO
Il procedimento riguarda alcuni degli imputati rinviati a giudizio all’esito di una più ampia
indagine sviluppatasi dal 2006 in Foggia sul coinvolgimento della malavita locale nel settore
delle imprese di onoranze funebri.
In parte gli imputati sono stati giudicati con rito abbreviato e quel procedimento ha avuto diversi
passaggi, con una prima sentenza emessa in grado di appello, in parte annullata dalla cassazione
con sentenza prodotta dai ricorrenti, ed ampiamente considerata dalla sentenza oggetto del
presente procedimento che concerne gli imputati giudicati in dibattimento.
Secondo le sentenze di merito, i fatti si erano sviluppati nel settore di attività economica delle
onoranze funebri, che era stato oggetto di particolare attenzione da parte della malavita foggiana
anche in anni precedenti, durante le ripetute guerre con esiti letali tra i clan rivali SINESIFRANCAVILLA, da una parte, e TRISCIUOGLIO-PRENCIPE dall’altra, finalizzate proprio
all’acquisizione del monopolio in quel settore.
Secondo le denunce di alcuni imprenditori, si erano verificate richieste estorsive e
danneggiamenti ai propri mezzi appena dopo la scarcerazione, del febbraio 2006, di noti
malavitosi locali, quali SINESI Roberto e TOLONESE Raffaele, esponenti dei due clan rivali.
Era risultato che il SINESI aveva assunto il controllo di fatto dell’agenzia “Angeli”, con il socio
occulto MOFFA Ciro, dipendente del Comune di Foggia in servizio presso il locale cimitero
(tutti giudicati in altro procedimento parallelo), mentre il TOLONESE, legato al
TRISCIUOGLIO, aveva assunto assieme a quello il controllo di fatto dell’agenzia “Annunziata”,
formalmente intestata ad altre persone.
Si era verificato un avvicinamento dei due clan che avevano stretto un patto per poter gestire, in
regime di pressoché totale monopolio, gli affari in quello specifico settore e si era creata
un’agenzia ad hoc, il “Centro Servizi Funerari”.
Vi era poi stata ripartizione dei compiti, avendo il “Centro Servizi Funerari”, presso cui
lavoravano il TOLONESE e il BUONONATO, la funzione di fornire i mezzi e gli uomini
necessari per gestire tutti i servizi funerari e per superare la concorrenza delle altre agenzie
esistenti in Foggia; mentre la “Global Service” gestiva il disbrigo delle pratiche amministrative e
forniva alle altre agenzie funebri la documentazione necessaria per il trasporto delle salme, dietro
il versamento obbligato della somma di E 250,00#, ben superiore al costo effettivo del servizio
(pari ad E 10,00/20,00#); la ditta “Angeli” presidiava con i suoi uomini il Pronto Soccorso degli
Ospedali Riuniti di Foggia nonché l’obitorio e, grazie anche alla collaborazione di guardie
giurate, personale sanitario e para-sanitario (in particolare, l’associazione di volontari
“Misericordia”, gestita di fatto da MOFFA Ciro), si accaparrava tutti i funerali dei soggetti ivi
deceduti; la ditta “Annunziata” si occupava invece dei funerali delle persone decedute a seguito
di incidenti stradali.
In caso di trasporto del defunto per il funerale da Foggia ad un paese del circondario, affidato dai
parenti a diversa agenzia della provincia, il sodalizio imponeva il pagamento di un “pizzo” di E
500,00#, oltre ad € 250,00# richiesti per lo svolgimento delle pratiche amministrative, con la
conseguenza che il mancato adempimento alle richieste estorsive comportava minacce alle
persone e danneggiamenti ai mezzi.
Con la sentenza in data 2 febbraio 2010 il Tribunale di Foggia ha dichiarato gli imputati
BUONONATO Savino, TRISCIUOGLIO Federico e SINESI Roberto responsabili del delitto di
associazione per delinquere di stampo mafioso (capo A), escludendo solo l’aggravante dell’uso
delle armi, nonché il BUONONATO di tre ipotesi di estorsione, consumata e tentata, ai danni di
altri imprenditori del settore (capi B, B4 e C), con l’aggravante ex art. 7 del D.L. 152/91, conv.
in L. 203/91; TRISCIUOGLIO Federico anche della partecipazione all’estorsione sub C3)
aggravata ex art. 7 del D.L. 152/91, conv. in L. 203/91, nonché di violazione degli obblighi della
sorveglianza speciale di p.s. rubricata sub 12); SINESI Roberto anche della partecipazione
all’estorsione sub C3) ed a più ipotesi di corruzione di persone incaricate di pubblico servizio di
seguito indicate, rubricate ai capi El), E2), E3), E5), E6), E8), El O), aggravata ex art. 7 del D.L.

152/91, conv. in L. 203/91, oltre, al capo I), di violazione degli obblighi della sorveglianza
speciale di p.s.
Il primo giudice ha poi dichiarato responsabili dei delitti di corruzione loro rispettivamente
ascritti, per aver fornito al correo SINESI notizie su decessi avvenuti o previsti come imminenti,
le seguenti persone, ancora ricorrenti:
– DI BENEDETTO Armando per il delitto di cui al capo El);
– IANNICIELLO Marco e SCOPECE Giacomo per il delitto di cui al capo E3);
– BELFIORE Antonio per il delitto di cui al capo E5);
– MAFFIOLA Michele per il delitto di cui al capo E6).
Con la sentenza impugnata la Corte d’appello di Bari ha:
– assolto, per quel che interessa attualmente, SINESI Roberto dai reati ascrittigli sub E2 e sub
El O), perché il fatto non sussiste, e da quello sub C3) per non aver commesso il fatto;
– escluso il ricorrere dell’ipotesi di associazione di stampo mafioso nell’organizzazione descritta
al capo A), qualificandola come associazione per delinquere semplice;
– escluso l’aggravante ex art. 7 del D.L. 152/91, conv. in L. 203/91 per i reati fine contestati a
BUONONATO, TRISCIUOGLIO e SINESI, rideterminando la pena per costoro;
– escluso la continuazione quanto ai reati di corruzione ascritti a DI BENEDETTO (E1) e
IANNICIELLO (E3) riducendo la pena;
– confermato la sentenza del Tribunale nei confronti di BELFIORE Antonio, MAFFIOLA
Michele e SCOPECE Giacomo.
Hanno proposto ricorso per cassazione il Procuratore generale presso la Corte d’appello di Bari
nonché gli imputati BUONONATO, TRISCIUOGLIO, SINESI, DI BENEDETTO,
IANNICIELLO, BELFIORE, MAFFIOLA e SCOPECE.
Il ricorso del Procuratore generale presso la Corte d’appello di Bari, con un primo motivo,
lamenta l’avvenuta esclusione del carattere mafioso dell’associazione contestata al capo A) nei
confronti di BUONONATO Savino, SINESI Roberto e TRISCIUOGLIO Federico; associazione
costituita da personaggi apicali nei rispettivi clan di appartenenza, reduci da durissime
contrapposizioni; critica che non si sia considerato lo spessore criminale dei tre, associati in una
complessiva operazione, essendo poi poco rilevante che non fosse risultata la manifestazione da
parte del clan, così costituitosi per operare nel settore delle onoranze funebri, di una capacità di
controllare il territorio e di indurre gli addetti al settore, comprese le altre agenzie che operavano
in zona, a seguire tutti la linea imposta dal gruppo associato.
Difettoso ed illogico sarebbe il percorso argomentativo della Corte di Appello per giustificare
l’esclusione del carattere mafioso del sodalizio.
Il giudice dell’appello, pur registrando una forza di intimidazione correlata alla nota caratura di
mafiosi dei capi dell’associazione descritta al capo A), non avrebbe poi verificato se questo dato,
unitamente ad altri emersi nel corso del processo, avesse rivestito di fama mafioso anche il
sodalizio.
Non sarebbe stato spiegato come la nuova compagine, al cui vertice stavano soggetti già
giudizialmente riconosciuti come mafiosi, con un’operatività fatta di azioni violente nella
gestione in quel settore (peraltro riconosciuto come centrale per la mafia foggiana) non potesse
aver mutuato la connotazione mafiosa, non potesse esser più in grado di esprimere una forza
intimidatrice effettiva ed autonoma all’esterno, nell’ambiente di operatività e non fosse capace di
generare uno stato di assoggettamento e di omertà, come, invece, il silenzio, registrato nel corso
del giudizio di 10 grado, da parte di diversi estorti avrebbe dovuto indurre a sostenere.
Non avrebbe poi considerato la Corte di merito che la descrizione delle modalità delle condotte
estorsive realizzate dal gruppo associato, da soggetti che a quell’appartenenza facevano
riferimento così da evidenziarne la forza in città, avrebbe impedito ogni diversa valutazione delle
caratteristiche della consorteria, perché in zona sarebbe stato necessario comportarsi come voluto
dall’associazione, né in ogni caso avrebbe rilevanza la non avvenuta eliminazione della
concorrenza fra le diverse imprese di onoranze funebri.

Con il secondo motivo il Procuratore Generale territoriale lamenta l’esclusione dell’aggravante
di cui all’art.7 D.L, n.152191 quanto ai reati di estorsione e corruzione dei quali gli imputati
erano stati riconosciuti responsabili; aggravante che sarebbe da riconoscere, sia quanto
all’agevolazione dell’associazione mafiosa, una volta accolto il primo motivo, sia quanto
all’adozione del metodo mafioso nella realizzazione delle estorsioni, non essendosi considerate
le modalità di concreta estrinsecazione delle condotte
Deduce violazione di legge sulla determinazione dell’aumento di pena per la continuazione nel
reato nei confronti di SINESI e TRISCIUOGLIO; non sarebbe stato operato l’aumento minimo,
previsto alla legge in un terzo della pena applicata per il reato più grave, ex art. 81 comma 40
c.p., con riferimento a soggetti già condannati in data precedente a quella di commissione del
fatto per reati considerati aggravati dalla recidiva reiterata.
BUONONATO Savino propone ricorso per cassazione articolato su due motivi.
Con il primo motivo deduce violazione di legge e difetto di motivazione sulla responsabilità.
La Corte territoriale sarebbe incorsa in un evidente vizio motivazionale quando, pur escludendo
la configurabilità di un sodalizio mafioso, aveva ritenuto la materialità e gli estremi costitutivi
dell’ipotesi associativa semplice, che non sarebbe neppure stata abbozzata o esplicitata
nell’originaria imputazione, con “totale manipolazione” e “radicale stravolgimento” del fatto
storico contenuto nel capo di rubrica.
Evidenzia il ricorrente le fonti di intercettazione da cui escludere la propria partecipazione alla
non configurabile compagine associativa, non essendo al corrente della pretesa suddivisione
delle aree di intervento, attribuendosi una posizione del tutto distaccata e lontana dai programmi,
da altri eventualmente elaborati; né sarebbe confermata dagli atti la sua partecipazione ad una
sistemazione degli assetti associativi, tale da penalizzare lo SCOPECE.
All’interno degli 00.RR. di Foggia ciascuna impresa agiva autonomamente e fra le varie ditte
v’era convergenza di interessi, non un pactum societatis, ma al contrario accesa competizione, e
BUONONATO non sottostava all’asserita delimitazione di competenze, come il ricorso tende a
dimostrare con ampia citazione di risultati di intercettazione.
Né in ogni caso sarebbe illecito un accordo di cartello fra imprese; eventuali episodi di violenza
o minaccia, che peraltro esclude si siano verificati nel periodo oggetto del procedimento, non
sarebbero poi ricollegabili al ricorrente.
Al più, taluno avrebbe avuto sollecitazioni a pagare, peraltro scarsamente efficaci e mai
accompagnate ed associate a ritorsioni per il caso di rifiuto, oppure richieste provenienti, ora da
un soggetto, ora dall’altro, già identificati, i quali non avrebbero mai speso il nome
dell’organizzazione.
E si diffonde ad esaminare specifiche circostanze e le risultanze dibattimentali che
dimostrerebbero la sua estraneità a dinamiche estorsive, in singole vicende.
Propone una valutazione giuridica alternativa dei fatti, evidenziando la potenziale applicabilità
dell’art. 513 bis c.p. con cui viene repressa “l’illecita” concorrenza, che impedisce (o condiziona)
il “libero gioco” delle parti all’interno e nell’ambito di un settore economico o commerciale.
Tale situazione, peraltro, non avrebbe inevitabili collegamenti con criminalità associata, né
sarebbero configurabili gravi reati in ipotesi di trattative commerciali in cui si verifichino
eventuali forzature, pur restando nell’ambito di esplicazione di normale autonomia contrattuale,
in ipotesi, in un ambito di elevata conflittualità.
Con il secondo motivo deduce violazione di legge in relazione agli artt. 546 lett. e), 62 bis,
133,69 c.p.
La Corte di merito non avrebbe dato risposta al punto dei motivi di appello relativo al diniego
delle attenuanti generiche con giudizio di prevalenza; con i motivi di appello erano state
segnalate e, specificatamente articolate le ragioni (mutuate dall’art. 133 c.p.) che legittimavano
una rivalutazione del trattamento sanzionatorio, anche in ordine alla concedibilità delle
attenuanti generiche
Il ricorrente ha poi depositato una memoria con cui, oltre a ripercorre le argomentazioni del
ricorso per rafforzarne le considerazioni, sostiene l’inammissibilità del ricorso del Procuratore

generale in merito alla configurabilità del carattere mafioso dell’associazione e dell’aggravante
speciale ex art. 7 del D.L. 152/91, conv. in L. 203/91.
TRISCIUOGLIO Federico propone ricorso per cassazione articolato su due ampi motivi.
Con il primo deduce violazione di legge per l’utilizzazione da parte del giudice d’appello del
contenuto di intercettazioni ambientali presso l’agenzia di onoranze funebri MAIZZI, da cui,
oltre alla conferma del pagamento di somme a TOLONESE Raffaele, che avrebbe agito per
conto del ricorrente, si avrebbe la conferma della sottoposizione delle agenzie di onoranze
funebri di Foggia a sistematica estorsione da parte del gruppo associato, intercettazioni già
dichiarate inutilizzabili dal primo giudice, sulle quali la Corte di merito avrebbe invece fondato
la propria valutazione di partecipazione del prevenuto al sodalizio criminoso.
Con un secondo motivo deduce difetto di motivazione in relazione al giudizio di colpevolezza
per il delitto associativo sub A) e l’estorsione in danno di MAIZZI rubricata sub C3).
Esclusa l’utilizzabilità delle intercettazioni con ordinanza del Tribunale mai impugnata da
alcuno, non residuerebbe sufficiente motivazione dell’affermata responsabilità. Non vi sarebbero
risultanze processuali che confermerebbero l’affermazione che quello delle onoranze funebri
fosse un settore al quale anche in precedenza la malavita locale era stata particolarmente
interessata, e soprattutto che lui fosse coinvolto in un tale settore, di cui non viene data conferma
né da MAIZZI, né dai collaboratori di giustizia.
La Corte territoriale avrebbe ignorato le indicazioni e i rilievi difensivi sulla mancata
partecipazione del ricorrente alle pretese attività associative connesse al settore, così travisando
la prova ed in particolare, quanto all’estorsione, le dichiarazioni della p.l. MAIZZI, ritenuto
attendibile dal Tribunale, dichiarazioni da cui si poteva ricavare solo che TRISCIUOGLIO non
aveva mai avuto a che fare con le onoranze funebri, essendo gestore di un autosalone; che era in
ottimi rapporti con il conoscente MAIZZI, che gli cambiava assegni; e che per quello il
TOLONESE gli si sarebbe rivolto e che il contenuto del colloquio nell’incontro col MAIZZI non
dimostrerebbe il suo concorso nell’estorsione, al più essendo egli intervenuto in favore della
stessa p.1., pur risultando che non poteva con gli estorsori, a dimostrazione della sua
estraneità al preteso gruppo associato, come anche confermato da TOLONESE.
È stata depositata memoria da parte di altro difensore del prevenuto che ribadisce
l’inutilizzabilità delle intercettazioni ambientali già dichiarata in primo grado e il travisamento
delle dichiarazioni dibattimentali del MAIZZI sui rapporti con TRISCIUOGLIO.
SINESI Roberto propone ricorso per cassazione deducendo violazione di legge e vizio di
motivazione sulla responsabilità per tutti i delitti contestati e sul trattamento sanzionatorio.
Erroneamente la Corte di merito avrebbe ritenuto l’esistenza di un’associazione per delinquere
nell’essersi formato, fra alcune imprese del settore delle onoranze funebri di Foggia, un accordo
di cartello, con ripartizione di compiti, un accordo commerciale senza connotazioni di illiceità
penale, soprattutto in quanto l’accordo non avrebbe compreso, e men che meno forzosamente,
tutte le imprese della zona, ma solo alcune, essendovi piena libertà di adesione senza incidenza
sull’attività delle imprese rimaste estranee all’accordo.
Non sarebbe significativo il pagamento di somme, che la Corte di merito ha ritenuto eccedenti il
costo del servizio, per il disbrigo di pratiche da parte di una di queste società, cui tutte le altre si
rivolgevano.
Né l’esistenza di alcune richieste estorsive potrebbe confermare, e la Corte di merito non
l’avrebbe dimostrato, che i proventi di tali singole attività dovessero confluire in una cassa
comune a finanziare le attività del gruppo il quale quindi non verrebbe caratterizzato da
specifiche illecite modalità di finanziamento.
Non sarebbe neppure significativa la circostanza che personale della ditta “Angeli” stazionasse
davanti all’Ospedale per prender contati con i congiunti dei defunti al fine di proporre
lecitamente il propri servizi, laddove poi nulla imponeva agli interessati di servirsi di quelle ditte
piuttosto che di altre, come in concreto era avvenuto ripetutamente.
La Corte di merito avrebbe omesso di considerare che non vi sarebbe stata alcuna attività di
monopolizzazione del mercato e che non si sarebbero potute definire tangenti le somme pagate

dalle ditte operanti fuori città, sia perché non avrebbero ecceduto i costi ordinari, sia perché la
Corte territoriale non avrebbe adeguatamente motivato sulla riconducibilità di isolate attività
estorsive ad un complessivo piano associativo.
Né sarebbe stato dimostrato che, per la presenza ed attività del gruppo in questione, altre imprese
della zona avessero dovuto cessare la loro attività.
Illegittimo sarebbe poi l’utilizzo, per dimostrare il ruolo di capo rivestito dal SINESI, intervenuto
peraltro solo per dirimere questioni insorte fra le diverse società aderenti al cartello, del
contenuto della conversazione ambientale registrata il 30.12.2006 presso l’agenzia MAIZZI,
captazione ritenuta inutilizzabile già dal primo giudice, con ordinanza mai impugnata dal
Pubblico Ministero.
Quanto alle ipotesi di corruzione, il ricorrente rileva che non sarebbe coperta da segreto la
notizia del decesso avvenuto, o presunto prossimo, di un paziente assistito da una delle strutture
da cui dipendevano i soggetti che a volte informavano la società, né che tali avvisi costituissero
violazioni dei doveri di costoro, tanto più che le strutture sanitarie in questione non avrebbero
poi effettuato i servizi funebri.
Esamina ogni residua imputazione rilevando sia l’inesistenza di prove di corresponsioni di
somme di denaro, date come scontate dai giudici del merito, sia che all’avviso (individuato in
base ad intercettazioni) fosse poi seguito il concreto affidamento dell’incarico per il servizio
funebre ad una delle società del cartello o alla specifica società collegabile al ricorrente.
Lamenta infine illegittimità della pena per i fatti di corruzione individuata in mesi 3 di reclusione
per ciascuno, posto che la Corte d’appello aveva mantenuto la misura stabilita dal primo giudice
pur dopo l’esclusione dell’aggravante ex art. 7 del D.L. 152/91, conv. in L. 203/91 con
violazione del dettato dell’art. 597 co. 4 c,p.p. che impone, in caso di accoglimento dell’appello
dell’imputato, la riduzione della pena, in quanto il divieto della reformatio in peius riguarda non
soltanto il risultato finale, ma anche tutti gli elementi del calcolo della pena.
DI BENEDETTO Armando propone ricorso per cassazione articolato su due motivi.
Con il primo deduce violazione di legge in relazione alla formula utilizzata dalla Corte d’appello
nel dispositivo laddove il codice di rito non prevederebbe la formula usata di: “esclusa la
continuazione”.
Il giudice d’appello avrebbe dovuto pronunciare sentenza assolutoria perché altrimenti, come nel
caso, residuerebbe la posizione di un imputato dichiarato dal primo giudice responsabile “dei
reati ad ognuno ascritti” e nel caso di specie quelli contestati al capo El) dai quali con la
sentenza di appello non viene assolto, ma gratificato della riduzione, della pena, in conseguenza
della esclusione della continuazione.
Si tratterebbe di sentenza senza dispositivo non emendabile in questa sede.
Con un secondo motivo deduce violazione di legge e difetto di motivazione sulla responsabilità
soprattutto dopo che la Corte d’appello aveva escluso (seppure senza pronunciare le relative
assoluzioni) che le sue azioni andassero al di là di un’unica telefonata all’agenzia “Angeli” con
cui si comunicava che con l’ambulanza stava raggiungendo una struttura ospedaliera per un
sevizio relativo a persona di cui era prevedibile il decesso, così che l’agenzia avrebbe potuto
acquisire l’incarico per il funerale; il giudice d’appello avrebbe dovuto motivare ampiamente la
pretesa illiceità del suo comportamento, anche valutando la circostanza che il funerale in
concreto era stato acquisito da un’impresa diversa da quella che aveva ricevuto l’avviso
telefonico.
Il giudice di merito non avrebbe poi individuato quale interesse pubblico assistesse la specifica
azione del prevenuto, conduttore dell’ambulanza.
Non sarebbe poi condivisibile la posizione della Corte di merito secondo cui il semplice
accertamento del compimento di un atto contrario a doveri d’ufficio debba portare a ritenere
necessariamente che l’attività fosse stata determinata da un atto di liberalità o da una promessa in
tal senso.
Né, per la sua posizione, potrebbe aver rilevanza l’esistenza di un gruppo associato facente capo
al SINESI, circostanza insufficiente a far ritenere comunque retribuito l’unico atto ascritto in

definitiva a lui. Non sarebbero stati invece delineati i contorni dell’atto corruttivo, né considerate
altre ipotesi alternative di motivazione di quel comportamento del prevenuto, quali la volontà di
favorire o di provocare un danno.
Ha depositato memoria il ricorrente con cui ribadisce l’unicità dell’episodio per il quale era stata
ritenuta la responsabilità con inesistenza conseguente di un’ipotesi di continuazione, e la non
configurabilità nei suoi confronti della qualifica di incaricato di pubblico servizio essendo solo
dipendente di associazione privata come conduttore di ambulanza che aveva accompagnato un
paziente a casa propria e non aveva informato di un decesso in ambito ospedaliero, segnalazione
in relazione alla quale non vi sarebbe concreta prova di pagamento di alcuna retribuzione.
IANNICIELLO Marco propone ricorso per cassazione articolato su tre motivi.
Con il primo deduce violazione di legge per esser stato condannato senza che fosse risultato
colpevole “al di là di ogni ragionevole dubbio”, essendosi fondato il processo semplicemente sui
sospetti originatisi da una sola intercettazione telefonica di un colloquio con MANCINI Paolo
durante un servizio di soccorso in ambulanza, quando aveva segnalato la presenza di una persona
deceduta, senza altri elementi di prova anche di eventuali ulteriori collegamenti con le altre
persone coinvolte.
Con un secondo motivo deduce violazione di legge per l’erronea applicazione della norma di cui
all’art. 319 c.p. essendo stata desunta da un semplice contatto telefonico, senza altri indizi,
un’ipotesi di corruzione dell’incaricato di pubblico servizio, mancando in ogni caso la prova di
un eventuale accordo finalizzato alla riscossione di un prezzo per il favore fornito.
Né sarebbe logica la motivazione che aveva desunto un accordo corruttivo, pur in assenza di uno
specifico riferimento al compenso, dalla familiarità dei toni, dalla essenzialità della
conversazione, elementi ritenuti indice di abitualità dei contatti e di piena consapevolezza dei
ruoli e delle prassi.
Da una potenziale violazione di un obbligo facente carico ad un semplice guidatore di ambulanza
non si potrebbe mai giungere a ritenere provato un accordo corruttivo. Né sarebbe sufficiente la
prova di una dazione di denaro o utilità senza la prova del collegamento causale fra atto e
dazione.
Con un terzo motivo deduce difetto di motivazione sulla ritenuta percezione del pretium sceleris,
elemento richiesto dalla costante giurisprudenza al proposito.
BELFIORE Antonio propone due distinti ricorsi per cassazione.
Con il primo ricorso deduce difetto di motivazione e sottovalutazione delle doglianze sviluppate
nei motivi di appello.
Il secondo ricorso di articola su due motivi.
Con il primo deduce violazione di legge sulla responsabilità, contestando che la sua posizione di
dipendente della ASSL possa essere qualificata come quella di un pubblico ufficiale e quindi che
sia ipotizzabile il contestato delitto di cui agli artt. 319 e 320 c.p.; la dazione di denaro in favore
degli operatori delle ambulanze in genere non potrebbe esser vista come atto corruttivo,
mancando in capo a costoro la possibilità di configurarli come soggetti destinatari di obblighi
pubblicistici, come peraltro ritenuto dalla sentenza 25242 di questa Corte nel procedimento
concernente gli imputati dei medesimi reati che avevano scelto il rito abbreviato, laddove si
sostiene che la comunicazione avvenuta tra due dipendenti pubblici, e poi da uno di questi, il
MOFFA, riferita e trasferita ai propri colleghi all’interno della agenzia di pompe funebri della
quale il MOFFA era soggetto assolutamente intraneo ed interessato, non poteva violare il
principio di buon andamento e di imparzialità della pubblica amministrazione.
Con un secondo motivo deduce violazione di legge con riferimento agli artt. 357 — 358 c.p.
contestando l’affermazione di responsabilità per violazione di doveri d’ufficio con riferimento ad
informazioni che sarebbero dovute rimanere segrete, non esistendo norme che impongano al
pubblico dipendente il segreto su dati del genere; non potendosi considerare coperta da segreto la
notizia sulla morte di una persona, ovvero sull’approssimarsi della morte di una persona; la
ricezione di una regalia per aver fornito tali informazioni non costituirebbe quindi corruzione per
un atto contrario ai propri doveri a causa di violazione del segreto di ufficio.

MAFFIOLA Michele propone ricorso per cassazione il prevenuto sulla base di un solo articolato
motivo.
Deduce violazione di legge per esser stato ritenuto che la sua posizione fosse quella di incaricato
di pubblico servizio, cioè di soggetto svolgente un’attività di carattere intellettivo, caratterizzata
dalla mancanza dei poteri autoritativi e certificativi propri della pubblica funzione; non sarebbe
una situazione configurabile per il MAFFIOLA dipendente degli Ospedali riuniti di Foggia come
“ausiliario specializzato”, lavoratore con capacità manuali generiche per lo svolgimento di
attività semplici ed autonomia esecutiva e responsabilità, nell’ambito di istruzioni fornite, riferita
al corretto svolgimento della propria attività”.
I giudici del merito non avrebbero accertato, consistendo il compendio probatorio in
intercettazioni telefoniche di contenuto non esaustivo, quale fosse il tipo di rapporti e di
informazioni eventualmente forniti, quale la natura delle mansioni cui era addetto il ricorrente,
attribuendogli una incongrua qualifica, mancato accertamento che sarebbe stato stigmatizzato per
posizioni analoghe dalla sentenza di questa Corte che aveva esaminato i ricorsi concernenti gli
imputati che avevano scelto il rito abbreviato.
SCOPECE Giacomo propone ricorso per cassazione articolato su quattro motivi.
Con il primo deduce difetto di motivazione sull’accertamento di responsabilità fondato su
intercettazioni telefoniche sui suoi rapporti con la ditta “Angeli”, intercettazioni relative ad
utenza della quale la Corte di merito non avrebbe dimostrato l’appartenenza al prevenuto e la
riferibilità a lui delle comunicazioni dirette al MOFFA.
Con il secondo motivo deduce violazione di legge e difetto di motivazione sull’ipotizzata
ricezione di denaro o altra utilità in connessione ai suoi pretesi rapporti con MOFFA, per
situazioni in relazione alle quali la ditta “Angeli” poi non avrebbe espletato il servizio funebre.
Con il terzo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’esistenza
di un dovere di mantenere il segreto sui decessi così che eventuali comunicazioni ad alcune ditte
di onoranze funebri non rappresenterebbero violazione dei propri doveri d’ufficio, peraltro non
potendosi configurare per lui la qualifica di incaricato di pubblico servizio.
Con il quarto motivo deduce violazione di legge e difetto di motivazione sul trattamento
sanzionatorio, con riferimento alla misura della pena ed alla valutazione delle attenuanti
generiche da considerarsi prevalenti.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Questione comune a più ricorsi è quella della configurabilità del delitto associativo contestato al
capo A) della rubrica e della sua qualificazione come associazione semplice oppure di tipo
mafioso.
Sul punto, come visto, si diffondono, con argomentazioni di segno diverso, i ricorsi
BUONONATO, SINESI e TRISCIUOGLIO, nonché quello del Procuratore generale territoriale.
Ampia e diffusa è la motivazione con la quale la Corte di Appello individua nel sistema di
controllo delle attività nel settore delle onoranze funebri in Foggia, per il periodo oggetto di
procedimento, un’organizzazione strutturata in via preventiva anche per la commissione di
delitti, con la suddivisione dei campi di intervento tra le due agenzie partecipanti, l’imposizione
di una tangente, quale configurabile nella pretesa del pagamento di un costo notevolmente
superiore a quello effettivo per le pratiche amministrative relative a ciascun servizio, nonché
l’imposizione di un vero e proprio balzello di 500 euro alle imprese provenienti dalla provincia,
per assumere incarichi di organizzazione di funerali in Foggia, attività tutte collegate ai numerosi
atti di intimidazione nei confronti degli operatori del settore estranei al gruppo organizzato.
In particolare, la Corte di merito ha evidenziato come l’intento dei prevenuti fosse quello di
monopolizzare la lucrativa attività delle onoranze funebri con eliminazione della concorrenza nel
settore.
Ha individuato, con riferimento alle conversazioni captate nel corso delle indagini, come
l’organizzazione avesse impostato un sistema di informazione sui decessi avvenuti, o imminenti,
diffuso fra una serie di operatori nelle strutture ospedaliere o in quelle connesse a tali attività, per
ottenere le preziose informazioni ricompensate con somme di denaro oscillanti tra € 100/200 per

segnalazione, o anche per il consiglio dato ai congiunti del defunto sull’agenzia a cui rivolgersi,
fra quelle del gruppo.
Chiaramente sono state individuate le fonti, in prevalenza derivanti da conversazioni intercettate,
da cui si aveva la conferma dei diversi episodi estorsivi, comprovati poi dall’istruttoria
dibattimentale di primo grado, in danno di MASSA Antonello titolare di una impresa di
onoranze funebri in Ascoli Satriano, PECORELLI Antonio, titolare della agenzia di pompe
funebri “La Garganica” di Vieste, PAOLETTA Vito, titolare della ditta “Iside” di Accadia e
MAIZZI Francesco Paolo, titolare di un’impresa di pompe funebri in Foggia, richiamandosi
anche le emergenze da cui risultava l’inesistenza di alternative al pagamento delle somme
pretese dagli affiliati per la documentazione amministrativa o per i trasporti delle salme fuori
città.
E correttamente sono state individuate le articolazioni organizzative nelle due agenzie principali,
la “Angeli” facente capo di fatto a SINESI Roberto, che teneva sotto controllo gli Ospedali
Riuniti di Foggia in modo tale, per le evidenti complicità interne, da poter addirittura consentire
ai familiari di far uscire illegalmente dall’ospedale le salme anche dopo la morte, e la
“Annunziata”, che si occupava dei funerali delle vittime della strada, e delle pratiche
amministrative, a proposito delle quali, il giudice d’appello ha messo in evidenza, con ampio e
puntuale riferimento alle conversazioni intercettate, quale fosse il sistema organizzativo
strutturato per la loro gestione, nelle sue scansioni temporali, prima e dopo la scomparsa di
SCOPECE Giuseppe, che fino a quel momento se ne era occupato in via esclusiva con la “Global
Service”, configurando in definitiva il quadro di un’organizzazione ben strutturata, costituita per
avere il monopolio del settore, irrilevante poi essendo che non sempre il risultato venisse
conseguito, posto che quel che rileva è il pericolo per l’ordine pubblico derivante dalla sola
esistenza di una struttura organizzativa avente scopi del genere.
I ricorsi degli imputati BUONONATO, SINESI e TRISCIUOGLIO, a fronte dell’ampia
esposizione del materiale raccolto nelle indagini e nel dibattimento, integrata dal riferimento alle
ancor più diffuse esposizioni della sentenza di primo grado, finiscono o per avanzare generiche
doglianze di difetto motivazionale, oppure per proporre, con i loro riferimenti alle emergenze
processuali, una lettura alternativa degli elementi di prova, adeguatamente e logicamente
evidenziati dal giudice del merito, che ne aveva tratto conclusioni giuridicamente corrette.
Fra le corrette valutazioni giuridiche del giudice d’appello è anche l’esclusione della pretesa
configurabilità, nelle attività dei soggetti operanti per le agenzie coordinate dal gruppo,
dell’ipotesi di cui all’art. 513 bis c.p., quali attività di un cartello formatosi fra più soggetti
economici per svolgere, in concorso fra loro, nulla di più di un’attività di concorrenza, talvolta
illecita perché esercitata con minaccia e violenza.
Il giudice d’appello ha evidenziato del tutto correttamente come si fosse, al contrario, di fronte ad
una struttura organizzata per commettere una serie indeterminata di delitti di estorsione, violenze
private, danneggiamenti mirati per ottenere il controllo di un intero settore di mercato, anche
attraverso l’imposizione di tangenti alle imprese che vi operavano, attività del tutto estranea alla
previsione dell’art. 513 bis c.p., che configura azioni di turbativa del mercato episodiche, a
differenza di quelle turbative di mercato dipendenti da attività associate (cfr. Rv. 249676).
Corretta è poi, ad avviso del Collegio, l’esclusione da parte della Corte di merito del ricorrere
dell’ipotesi associativa prevista dall’art. 416 bis c.p. nonché della possibilità di configurarsi, per i
delitti scopo, dell’aggravante ex art. 7 del D.L. 152/91, conv. in L. 203/91.
Pare al Collegio che la Corte territoriale abbia valutato con puntualità le concrete modalità
operative della consorteria che si era creata fra esponenti di spicco della malavita locale, peraltro
in passato condannati per appartenenza ad associazione di tipo mafioso; e che abbia
adeguatamente valutato l’attività del gruppo associato in sé, nella sua potenzialità di controllo
del territorio, nella sua reale capacità di condizionamento dell’ambiente circostante e nell’essersi
avvalsi, o meno, gli aderenti di una tale forza al fine di realizzare il loro programma criminoso.
Ha rilevato che la forza di intimidazione derivante dal metodo utilizzato promanava, non tanto
dalla forza del gruppo in sé, quanto piuttosto dallo spessore criminale dei suoi capi, la cui

caratura delinquenziale era ben nota nella città di Foggia, proprio per essere stati costoro adepti
di clan criminali mafiosi che vi avevano a lungo imperversato.
Ha evidenziato come il gruppo associato non si fosse proiettato indiscriminatamente
nell’ambiente territoriale, avendo esercitato la propria presenza, e pesante influenza, negli
ambienti delle imprese di onoranze funebri, peraltro senza giungere ad una condizione di totale
assoggettamento di quel settore, oppure di aver direttamente esercitato la propria forza nei
confronti dei parenti dei defunti.
E pare al Collegio che l’individuazione dei limiti in cui si era manifestata la forza intimidatrice
di quel sodalizio, con l’assoggettamento a tangente di alcuni tra gli operatori del settore, quali
indicativi dell’impossibilità di configurare l’ipotesi associativo-mafiosa, sia del tutto corretta nel
suo sicuro collegamento alle emergenze processuali, laddove la Corte di merito ha evidenziato
che le modalità operative del gruppo, soprattutto con lo stazionamento degli uomini nei pressi
degli Ospedali Riuniti per ottenere una preferenza nella scelta della “Angeli” rispetto ad altre
imprese concorrenti e con l’organizzazione di una rete informativa mediante attività corruttive,
fossero elementi che confermavano come quel sodalizio non potesse esser qualificato come
mafioso che, in quanto tale, ha mezzi e metodi diversi per imporsi ai potenziali clienti o al
personale ospedaliero da cui ricevere le informazioni.
Ed il ricorso del Procuratore generale sul punto in sostanza evidenzia la necessità di una diversa
lettura delle emergenze processuali, senza in fondo chiarire in che il quadro raffigurato,
soprattutto con riferimento alle singole attività proprie della consorteria, si dovesse
necessariamente ed ineludibilmente distinguere da quella di un’ordinaria organizzazione
criminale dedita ad estorsioni e corruzioni in un ben preciso settore.
Corretta poi l’esclusione da parte della Corte di merito dell’aggravante ex art. 7 del D.L. 152/91,
conv. in L. 203/91, anche e soprattutto con riferimento all’ipotizzato uso del metodo mafioso
nelle estorsioni contestate ai vari appartenenti alla consorteria ed indipendentemente dalla
qualificazione, o meno, di mafiosa della consorteria stessa.
Ha osservato in modo del tutto logico che il primo giudice nell’attività dei sodali dediti alle
estorsioni non era riuscito ad evidenziare elementi concreti di intimidazione tali da evocare il
fenomeno mafioso, né aveva sottolineato in quale occasione i singoli imputati di quei reati
avessero ostentato “in maniera evidente e provocatoria” atteggiamenti di particolare coartazione
e conseguente intimidazione proprie delle organizzazioni mafiose.
Ha esaminato le peculiarità delle attività estorsive, non rinvenendo elementi univocamente
sintomatici dell’utilizzo del “metodo mafioso” né nell’obbligo imposto alle ditte della provincia
di utilizzare i mezzi del “Centro Servizi Funerari”, laddove, se era palese l’intenzione di ricorrere
anche alla violenza fisica nei confronti di coloro che non si fossero piegati alle regole, tuttavia
l’azione non appariva diversa dalla metodica tipica dei gruppi criminali tesi ad acquisire
predominio in particolari settori economici, con imposizione di tangenti; né univoco sintomo era
apparso la pressante richiesta di denaro, documentata da intercettazioni, a cui era dedito in
particolare il BUONONATO, che pretendeva il versamento di tangenti, ma che non aveva
imposto un predominio ed una situazione di diffuso timore fra gli imprenditori del settore, a
conoscenza del modus operandi del sodalizio, ma non tutti destinatari di richieste estorsive o
anche riottosi ad ottemperarvi, a dimostrazione dell’inesistenza di un metodo mafioso, apparendo
chiaro che quel sodalizio non aveva su quel territorio un controllo del settore così pervasivo ed
esteso al punto da assoggettare di per sé tutti gli operatori al sistema delle tangenti.
Il ricorso finisce per dare un’interpretazione diversa ad emergenze processuali non trascurate dal
giudice d’appello, anche con riferimento alla caratura criminale dei soggetti al vertice della
consorteria, e valutate in modo del tutto corretto ed esente da salti logici.
Altrettanto condivisibili sono le conclusioni cui è giunta la Corte di merito con riferimento alle
specifiche posizioni dei tre soggetti ai quali il delitto associativo era stato ascritto, peraltro
imputati anche dei vari delitti di estorsione e corruzione oggetto del procedimento.
Ha fatto riferimento alla diffusa elencazione del primo giudice degli elementi di prova emersi dal
dibattimento, costituiti in particolare dalle propalazioni di collaboratori di giustizia, con

particolare riguardo, per i fatti più immediatamente riferibili al periodo oggetto del
procedimento, alle propalazioni del NIRO sull’organizzazione delle attività, soprattutto quelle
che si svolgevano agli 00.RR. di Foggia (propalazioni attendibili su fatti riscontrati
personalmente); dal risultato di plurime intercettazioni dal contenuto agevolmente decifrabile;
dalle affermazioni di testimoni con particolare riferimento a quelle del MAIZZI; dalle attività di
osservazione pedinamento e rilievo della polizia giudiziaria. Dalla complessiva valutazione di
tutti gli elementi i giudici del merito avevano configurato il quadro dell’organizzazione e della
partecipazione di ognuno dei prevenuti alla complessiva operazione criminosa, con posizione
apicale per TRISCIUOGLIO e SINESI e di partecipe del BUONONATO, inquadrandone i
contributi di direzione per i primi due e di partecipazione anche alle attività delittuose — laddove
il SINESI appare essere il fulcro di tutta l’attività riferibile in particolare alle corruzioni di
soggetti utili per ottenere informazioni — alle decisioni più importanti, che venivano poi diffuse,
in particolare ad opera del BUONONATO, il quale si premurava di far conoscere agli
imprenditori del settore quali erano le regole che loro pretendevano di imporre a chi si trovava al
fuori del gruppo associato.
I ricorsi SINESI e BUONONATO, nel denunciare violazioni di diritto, finiscono per tendere, sul
punto, a proporre una valutazione alternativa dei mezzi di prova e della loro efficacia
dimostrativa del tutto inammissibile, a fronte di una motivazione che è ancorata ad elementi di
fatto specifici e rappresentativi delle diverse funzioni svolte da ciascuno di loro.
Il ricorso TRISCIUOGLIO propone ulteriore questione sull’utilizzabilità di un intercettazione fra
presenti eseguita presso l’agenzia di onoranze funebri MAIZZI nel dicembre 2006, senza
ricordare che, come già a suo tempo rilevato (Sez. II, n. 17650 del 5/3/2009; Sez, II, n. 17649 del
5/3/2009), la ipotizzata fondatezza del rilievo, riconosciuta anche dal primo giudice si manifesta
in concreto non decisiva, atteso che gli stessi elementi ricavati dall’intercettazione risultano
anche da una diversa ed autonoma fonte, quale la testimonianza dibattimentale di MAIZZI
Paolo, sulla cui attendibilità i giudici del merito si sono efficacemente espressi, e che aveva
trovato oltretutto riscontro nei servizi di osservazione, cosicché il denunciato incongruo
riferimento da parte della Corte di Appello all’intercettazione de qua è del tutto irrilevante in
quanto l’eliminazione delle captazioni non porta ad una modificazione del quadro probatorio.
In definitiva, la posizione di TRISCIUOGLIO come uno dei capi dell’organizzazione assieme a
SINESI e TOLONESE, risultava proprio da quanto riferito dal MAIZZI, su informazione di una
fonte attendibile come BUONONATO, attento e solerte esecutore delle direttive di quelli.
Lo stesso MAIZZI è stato individuato come fonte primaria a conferma della partecipazione del
TRISCIUOGLIO all’attività di taglieggiamento nei suoi confronti con un intervento volto a
rafforzare le iniziative del TOLONESE, che nel novembre 2006 non era riuscito ad ottenere
puntualità nel pagamento da parte di MAIZZI; alle chiare affermazioni della p.l. sulle modalità
di intervento presso di lui del TRISCIUOGLIO, con l’invito a mettersi a posto, il ricorrente
oppone una diversa lettura che vede nell’accaduto, in tal modo non negato, un intervento a
favore della persona taglieggiata, non però con l’interposizione di buoni uffici per far cessare
l’estorsione, ma con l’invito a pagare ed evitare altri guai. Solo l’iniziativa di non pagare più dal
successivo dicembre e di denunciare l’estorsione aveva fatto cessare il taglieggiamento, né è dato
comprendere su che base il ricorrente sostenga, sempre in linea di fatto, che nessun effetto
avrebbe avuto il proprio intervento, laddove invece appare come chiara dimostrazione del
peculiare interesse suo e come capo della consorteria a che le vittime delle estorsioni, soprattutto
quelle periodiche imposte agli impresari esterni al gruppo, seppur di Foggia, fossero regolari nei
pagamenti. In definitiva l’intervento di TRISCIUOGLIO come riferito dal MAIZZI dà conferma
che tutta l’attività estorsiva a suo danno, materialmente portata avanti da TOLONESE, era
ispirata da TRISCIUOGLIO, intervenuto in un momento di crisi nella sua funzione di capo, che
quindi correttamente è stato chiamato a rispondere del fatto così come contestato in imputazione.
I giudici del merito in definitiva hanno adeguatamente valutato tutte le emergenze processuali
utilizzabili per la decisione (con esclusione della sola intercettazione ambientale n. 2385/06
R.I.T., peraltro dimostratasi non decisiva) inquadrando correttamente le vicende processuali

quali manifestazioni di un agire organizzato verso l’acquisizione di una condizione di monopolio
anche con i metodi più minacciosi e violenti, nei quali il BUONONATO si distingueva per
decisione e piena sintonia con le necessità e i desideri dei soggetti di vertice.
I ricorsi dei prevenuti, o affrontano questioni non decisive come il valore dell’intercettazione
ambientale, oppure non riescono, se non proponendo interpretazioni alternative delle risultanze
processuali, a dimostrare l’erroneità o la manifesta illogicità della motivazione della sentenza
impugnata quanto al delitto associativo ed alle estorsioni connesse.
Infondati anche i motivi di ricorso degli imputati che considerano erronea la decisione dei
giudici del merito sulle contestate ipotesi corruttive.
La sentenza ha valorizzato, con riguardo alle diverse imputazioni, il compendio di conversazioni
captate da cui risultava chiaramente il passaggio delle informazioni tra corrotti e corruttori e
l’individuazione di una vera e propria tariffa per la retribuzione dei soggetti che avrebbero
fornito informazioni sui decessi dei quali dovessero venire a conoscenza nell’esercizio della
propria attività.
Infondate quindi le doglianze dei ricorrenti sull’effettività della promessa e della dazione
corruttiva.
Il dato certo che emerge dalle risultanze processali, quali esaminate e valutate nel loro complesso
dalla sentenza impugnata, è che era in atto un sistema facente capo al SINESI che prevedeva la
sicura corresponsione di somme ai ragazzi per retribuire l’informazione da ciascuno fornita.
Infondato pure il pretendere che i soggetti ancora imputati nel presente procedimento non
potessero qualificarsi come incaricati di pubblico servizio e non costituisse violazione dei loro
doveri, connessi alla qualifica, la propalazione di informazioni apprese proprio nello svolgimento
dell’incarico.
Innanzitutto, è principio consolidato nella giurisprudenza al proposito che, ai fini della
configurabilità del delitto di cui all’art. 319 c.p., costituisce atto contrario ai doveri d’ufficio
quello del dipendente di ospedale il quale avverta sollecitamente gli impresari di pompe funebri
del decesso imminente, o già avvenuto, dei ricoverati, violando in tal modo i doveri d’ufficio non
solo sotto il profilo della correttezza, ma anche per il venir meno dell’imparzialità del pubblico
dipendente a seguito della rivelazione di notizie d’ufficio che dovevano rimanere riservate o
segrete per i terzi e delle quali comunque i dipendenti dell’ospedale non avevano la disponibilità
(Sez. VI, 7/6/1999, Rv 188328; Sez. VI, 8/4/1999, Rv 214062; Sez. I, n. 25242 del 16/5/2011).
Né rileva il preteso parallelo con assoluzioni nel diverso procedimento derivante da giudizio
abbreviato, laddove le stesse avevano avuto per oggetto situazioni concernenti rapporti con
manutentori di caldaie, manutentori, operatori tecnici, guardie giurate, o dipendenti di
cooperative private non legate da rapporto alcuno con l’Ente pubblico, posizioni tutte in cui
mancava un diretto collegamento funzionale all’attività sanitaria e di assistenza dell’Ente, che ne
escludeva la qualifica pubblicistica a cui poter collegare il dovere funzionale di riserbo in merito
ad un qualche decesso verificatosi in ospedale, e qualificare cosi l’informativa eventualmente
data all’esterno come violazione dei doveri della pubblica funzione o del pubblico servizio.
Nel caso di specie, del tutto correttamente i giudici del merito hanno individuato la qualifica di
incaricato di pubblico servizio, nei sensi sopra descritti, in tutti gli imputati attuali ricorrenti,
laddove SCOPECE e IANNICIELLO dipendevano dal servizio 118 che con la gestione delle
ambulanze contribuiva alla specifica realizzazione degli scopi dell’assistenza pubblica di
emergenza, BELFIORE era infermiere del reparto medicina alle dipendenze dell’Ospedale di
Foggia, MAFFIOLA, anch’egli dipendente ospedaliero in servizio presso quel Pronto Soccorso
con funzioni di “ausiliario specializzato”, impegnato nella prestazione diretta al pubblico
dell’assistenza di primo soccorso, a contatto immediato anche con situazioni tragiche o in
evoluzione infausta, DI BENEDETTO autista di ambulanze dell’associazione di volontariato “La
Misericordia” direttamente collegata con il servizio pubblico svolto dall’Ospedale.
In relazione a tutte queste posizioni sono state evidenziate correttamente dai giudici del merito le
fonti tratte dalle registrazioni di comunicazioni telefoniche dalle quali era risultato che avevano
avvertito soggetti, a loro noti come direttamente collegati alle agenzie di onoranze, di qualche

situazione conosciuta per ragioni del loro servizio in cui si sarebbe potuta presentare
l’opportunità di un servizio funebre. Come visto, con violazione del dovere di riservatezza
derivante dal servizio di natura pubblica a cui erano addetti.
E la Corte di merito ha affrontato tutte le specifiche situazioni, individuando il corretto
collegamento fra le intercettazioni ed il soggetto che aveva fornito l’informazione ed al quale,
per come si preoccupava spesso SINESI, dovevano essere riconosciuti i compensi stabiliti.
E, come s’è visto, il fatto che il versamento del compenso fosse operazione imprescindibile
curata da SINESI dà anche ragione dell’infondatezza delle doglianze di IANNICELLO e del DI
BENEDETTO che sostengono la carenza di elementi di prova circa la percezione di un
compenso, in mancanza di intercettazione concernente quello corrisposto proprio per i casi
specifici ascritti loro.
La valutazione complessiva delle emergenze processuali, quale rinvenibile nella sentenza
impugnata, ed in quella conforme di primo grado, da ragione del ricorrere in fatto di tutti gli
elementi costitutivi dei reati di corruzione contestati e comporta il rigetto di tutti i ricorsi degli
imputati.
Occorre tuttavia osservare che sono fondate le doglianze del DI BENEDETTO, laddove lamenta
che la Corte di Appello, nel ritenere motivatamente l’impossibilità di considerare provati i
contesti episodi di corruzione, diversi da quello verificatosi il 22 giugno 2006 e rubricato sub
E/1, si era limitata a dichiarare in dispositivo esclusa la continuazione, senza adottare la
necessaria formula di assoluzione. È peraltro situazione prodottasi anche per IANNICIELLO, in
relazione ai fatti diversi da quello verificatosi il 2 dicembre 2006 e rubricato sub E/3.
Alla motivazione di estraneità della Corte di merito non ha invero fatto seguito una corretta
statuizione in dispositivo, che escludesse espressamente la responsabilità per taluni dei fatti
esistenti a carico degli imputati secondo il capo di imputazione, laddove la mera esclusione della
continuazione altro non avrebbe potuto significare che l’esclusione dell’unificazione quoad
poenam ex art. 81 cpv. c.p., di tutti i fatti contestati nei rispettivi capi E/1 ed E/3.
All’evidente carenza del dispositivo ben può porre rimedio questa Corte ex art. 619 c.p.p. sulla
base della chiara motivazione della sentenza impugnata, con annullamento della medesima nella
parte in cui omette l’esplicita affermazione di assoluzione dei due prevenuti dagli episodi di
corruzione diversi da quelli indicati più sopra, e correlativa integrazione del dispositivo, secondo
le inequivoche statuizioni del testo della sentenza.
Quanto al trattamento sanzionatorio, non pare al Collegio fondata la doglianza del SINESI
relativamente all’aumento applicato per continuazione in relazione agli episodi di corruzione lui
ascritti. La totale rivisitazione del trattamento sanzionatorio da parte della Corte di Appello
derivante dall’assoluzione dal delitto di estorsione, a suo tempo considerato reato più grave,
l’esclusione dell’aggravante ex art. 7 del D.L. 152/91, conv. in L. 203/91 e l’individuazione del
reato più grave in quello di cui all’art. 416 c.p., in tal senso ritenuta l’ipotesi associativa
contestata sub A), imponeva alla Corte, non tanto il rispetto di proporzioni matematiche, quanto
l’adozione di una pena in misura complessivamente più favorevole, come in concreto verificatosi
anche in relazione agli aumenti per continuazione, se raffrontati a quelli applicati dal primo
giudice.
Manifestamente infondata la doglianza del BUONONATO sul difetto di motivazione sul motivo
d’appello con cui veniva chiesta l’applicazione delle attenuanti generiche con giudizio di
prevalenza.
La Corte di merito, dopo aver dato atto delle argomentazioni dell’appellante al proposito, ha
osservato che l’incensuratezza appariva cedere rispetto, sia all’importanza del ruolo da lui
rivestito nel sodalizio, che all’estrema gravità delle plurime condotte estorsive ascrittegli,
espressione di non comune propensione al crimine e del suo perfetto inserimento nel sistema
criminale.
Si tratta invero di motivazione del tutto congrua in quanto riferita a parametri previsti dall’art.
133 c.p., valutabili ex artt. 62 bis e 69 c.p. a fronte dei quali il ricorso si limita alla riproposizione
di argomenti già esaminati dalla Corte territoriale.

Quanto allo SCOPECE, rileva il Collegio che i motivi sul trattamento sanzionatorio son del tutto
generici, non censurandosi il contenuto della sentenza impugnata, ma affermandosi
apoditticamente che le attenuanti generiche sarebbero state da valutare prevalenti, con ciò
dimenticando che fin dal primo grado le attenuanti generiche avevano operato in concreto, non
essendo stata ravvisata alcuna aggravante, ed hanno comportato una diminuzione massima di una
pena che, per essersi attestata non in misura decisamente superiore ai minimi, non avrebbe
richiesto da parte del giudice del merito una motivazione diversa da quella di congruità
esplicitata dalle sentenze impugnate, a fronte delle quali peraltro l’impugnazione dello
SCOPECE si manifesta del tutto generica.
Osserva infine il Collegio che, seppure la condizione, di SINESI e TRISCIUOGLIO, di soggetti
cui già era stata applicata la recidiva ex art. 99, 4 0 co., c.p.p. dovesse condurre all’applicazione
dell’art. 81, 4 0 co., c.p., in concreto la Corte di merito a fronte della sola impugnazione
dell’imputato non avrebbe potuto operare sulla pena inflitta al SINESI un aumento per
continuazione superiore a quello in concreto adottato per gli episodi di corruzione, e, quanto al
TRISCIUOGLIO, nei cui riguardi già il primo giudice aveva operato un aumento per
continuazione in violazione della invocata norma, l’errore di diritto non rilevato e perpetuato
dalla Corte di Appello anche se con diversi esiti quantitativi, non può portare, a fronte della sola
impugnazione del prevenuto, all’accoglimento delle corrette prospettazioni del Procuratore
generale territoriale.
Il rigetto dei ricorsi di SCOPECE, SINESI, TRISCIUOGLIO, BUONONATO, MAFFIOLA e
BELFIORE comporta la condanna di ciascuno di loro al pagamento delle spese del
procedimento.
P.Q.M.
La Corte rigetta i ricorsi di SCOPECE Giacomo, SINESI Roberto, TRISCIUOGLIO Federico,
BUONONATO Savino, MAFFIOLA Michele, BELFIORE Antonio e li condanna ciascuno al
pagamento delle spese del procedimento.
Annulla senza rinvio le statuizioni della sentenza impugnata limitatamente alla omissione della
formula di assoluzione per insussistenza del fatto quanto a DI BENEDETTO Armando per i fatti
sub E 1 ) diversi da quello verificatosi il 22 giugno 2006 e quanto a IANNICIELLO Marco per il
fatti sub E3) diversi da quello verificatosi il 2 dicembre 2006, giusta motivazione sul punto
dell’impugnata sentenza.
Rigetta nel resto i ricorsi di DI BENEDETTO e di IANNICIELLO.
Rigetta il ricorso del Procuratore Generale territoriale.
Così deciso in Roma il 30 aprile 2013.

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA