Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 37086 del 19/03/2013


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 37086 Anno 2013
Presidente: ZECCA GAETANINO
Relatore: GUARDIANO ALFREDO

SENTENZA

sui ricorsi proposti da
El Rami Najia, nato in Marocco l’1.1.1961, e da Hirat limi, nato in
Algeria il 4.4.1983, avverso la sentenza pronunciata in data
15.3.2012 dalla corte di appello di Genova;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed i ricorsi;
udita la relazione svolta dal consigliere dott. Alfredo Guardiano;
udito il pubblico ministero nella persona del sostituto procuratore
generale dott. Eduardo Scardaccione, che ha concluso per il
rigetto dei ricorsi.

Data Udienza: 19/03/2013

FATTO E DIRITTO

El Rami Najia e Hirat Jimi, imputati dei reati di cui agli artt. 110,
56, 575, 577, 61, n. 1, c.p. (capo a); 110, 614, co. 4, c.p. (capo

Boughira Rabah, venivano tratti a giudizio innanzi al tribunale di
Genova, che, con sentenza pronunciata il primo giugno 2010,
dichiarava Hirat Jimi responsabile dei reati a lui ascritti, esclusi il
delitto di cui all’art. 614, c.p., contestato nel capo c) e la
circostanza aggravante di cui all’art. 61, n. 1, c.p., contestata nel
capo a); El Rami Najia responsabile dei reati a lei ascritti, escluso
il delitto di cui all’art. 614, c.p., contestato nel capo c) e
diversamente qualificato il reato di cui al capo a), nel delitto di cui
all’art. 612, co. 2, c.p., condannando entrambi gli imputati alle
pene ritenute di giustizia e dichiarando non doversi procedere nei
loro confronti in ordine al delitto ex art. 614, c.p., contestato nel
capo c), per difetto di querela.
Con sentenza del 23.11.2010 la corte di appello di Genova, in
parziale riforma della sentenza di primo grado innanzi indicata,
esclusa la contestata circostanza aggravante di cui all’art. 614, co.
4, c.p., dichiarava non doversi procedere nei confronti di entrambi
gli imputati in ordine al delitto di cui al capo b), per mancanza di
querela, rideterminando la pena inflitta all’Hirat in anni cinque,
mesi undici, giorni dieci di reclusione, e quella irrogata a carico di
El Rami, ritenuto il reato di minaccia assorbito in quello di violenza
privata di cui al capo c), in mesi dieci di reclusione.
Avverso tale sentenza gli imputati proponevano ricorso innanzi
alla Corte di cassazione, che, con arresto del 4.11.2011, annullava
la decisione di secondo grado nei confronti di El Rami e,

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b); 81, cpv., 110, 610 e 614, c.p. (capo c), commessi in danno di

limitatamente al delitto di violenza privata ed alla ritenuta recidiva
reiterata, nei confronti dell’Hirat, il cui ricorso veniva rigettato nel
resto, con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della corte di
appello di Genova.

Genova, in qualità di giudice di rinvio, in parziale riforma della
sentenza di primo grado, riduceva la pena inflitta all’Hirat, ritenuta
la recidiva semplice, ad anni cinque mesi uno di reclusione,
confermando nel resto l’impugnata sentenza.
Avverso tale ultima decisione, di cui chiedono l’annullamento,
hanno proposto personalmente autonomi ricorsi gli imputati,
articolando distinti motivi di impugnazione.
In particolare la El Rami eccepisce, con il primo motivo di ricorso,
la carenza e la illogicità della motivazione della sentenza
impugnata, nonché violazione di legge, in relazione al delitto di cui
all’art. 610, c.p., in quanto la prova in ordine alla sussistenza
dell’elemento oggettivo e soggettivo del reato in questione, si
fonda solo sulle dichiarazioni della persona offesa, non sufficienti
in assenza di riscontri, trattandosi di soggetto processuale che ha
un evidente interesse alla condanna dell’imputato.
Appare, inoltre, del tutto illogico che la persona offesa abbia
consentito a due persone estranee di occupare, sia pure per breve
tempo, il proprio appartamento, senza ricevere nulla in cambio,
per cui da tale incongruenza è logico dedurre che la stessa
persona offesa non abbia riferito per intero i contorni della
vicenda in esame.
Quanto all’elemento soggettivo, poi, la corte territoriale opera una
inammissibile inversione dell’onere della prova nella parte della
motivazione in cui afferma che il nesso causale tra le minacce

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Con sentenza pronunciata il 15.3.2012, la corte di appello di

riferite dalla persona offesa e l’allontanamento di quest’ultima
dalla sua abitazione, in quanto l’imputata, in assenza di riscontri
esterni, non è in grado di dimostrare che tale nesso non sussiste.
Con il secondo motivo di ricorso l’imputata lamenta la carenza e

violazione di legge in relazione alla mancata concessione del
beneficio della sospensione condizionale della pena inflitta, in
quanto la corte territoriale ha errato nel ritenere da ostacolo al
riconoscimento di tale beneficio la reiterazione della condotta
posta in essere dall’imputata, che, in realtà, si è concretizzata in
un unico episodio criminoso, in base al quale non è possibile
affermare che la ricorrente, incensurata e priva di pendenze
giudiziarie, possa commettere nel futuro altri reati.
L’Hirat lamenta la illogicità e la contraddittorietà della motivazione
della sentenza impugnata, nonché violazione di legge, in ordine
alla ritenuta sussistenza del delitto di cui all’art. 610, c.p., per cui
ha riportato condanna.
Evidenzia il ricorrente come, a differenza di quanto sostenuto
dalla corte territoriale, dagli atti emerge la circostanza che le
minacce rivolte al Boughrira non erano espressamente rivolte a
costringere la persona offesa a lasciare la sua abitazione, quanto
piuttosto a farvela rimanere, per cui la circostanza che il Boughira
si sia allontanato da casa si pone come semplice conseguenza
indiretta dell’atteggiamento minaccioso posto in essere nei suoi
confronti, che non consente di configurare il reato di violenza
privata, per la cui sussistenza è necessario che il comportamento
della persona offesa sia stato determinato dalla condotta
dell’agente.

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l’illogicità della motivazione della sentenza impugnata, nonché

Tanto premesso i ricorsi non possono essere accolti per le
seguenti ragioni.
Ed invero, con motivazione approfondita ed immune da vizi, la
corte territoriale, risolveva la contraddizione censurata nella

come, nel caso in esame, ricorrono, sia sotto il profilo oggettivo
che soggettivo, gli elementi costitutivi del delitto di cui all’art. 610,
c.p., contestato nel capo b) dell’imputazione, in quanto il Boughira
era stato costretto a lasciare la sua abitazione, dove erano
momentaneamente ospitati i due imputati, in conseguenza del
comportamento di questi ultimi, i quali, alla richiesta della persona
offesa di riottenere la piena disponibilità dell’alloggio, avevano
reagito con reiterate minacce e con un’aggressione, al punto che,
come si è detto, il Boughira era stato costretto ad abbandonare il
suo appartamento, trovando ospitalità presso un suo amico, dove,
tuttavia, continuava ad essere oggetto di minacce, anche di
morte, da parte degli imputati (cfr. pp. 8-9 dell’impugnata
sentenza).
Tale percorso argomentativo risulta immune dalle critiche
formulate dai ricorrenti.
Con particolare riferimento al valore probatorio delle dichiarazioni
della persona offesa, va rilevato che, per giurisprudenza
assolutamente prevalente della Corte di Cassazione, le regole
dettate dall’art. 192, comma 3, c.p.p. non si applicano alle

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dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere

legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di
penale responsabilità, potendo essere semplicemente opportuno,
nel caso, diverso da quello in esame, in cui la persona offesa si sia
costituita parte civile, procedere al riscontro di tali dichiarazioni

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sentenza di annullamento della Corte di Cassazione, evidenziando

con altri elementi (cfr. Cass., sez. un., 19/07/2012, n. 41461,
P.M., rv. 253214).
Né, per altro verso, la ricorrente El Rami ha contestato
specificamente la credibilità soggettiva della persona offesa

tutto genericamente, a formulare l’ipotesi che il Boughira non sia
stato completamente sincero nella narrazione della vicenda che lo
vede coinvolto insieme con i due imputati.
Infondati appaiono anche i rilievi sulla configurabilità del delitto di
cui all’art. 610, c.p.
Ed invero il reato di cui all’art. 610 c.p. , come affermato in
numerose occasioni dalla giurisprudenza di legittimità, resta
integrato in presenza di qualsiasi comportamento, concretizzatosi
in una minaccia o in una violenza, idoneo a privare coattivamente
l’offeso della libertà di determinazione e di azione (cfr. Cass., sez.
V, 18/04/2012, n. 42015, M.R.; Cass., sez. V, 15/12/2011, n.
11620, C.A. e altro), configurandosi il relativo elemento
soggettivo in termini di dolo generico, sicché per il suo
perfezionarsi è sufficiente la coscienza e volontà di costringere
taluno, con violenza o minaccia, a fare, tollerare od omettere
qualcosa, senza che sia necessario il concorso di un fine
particolare (cfr. Cass. sez. V, 03/11/2010, n. 4526, P.).
Se ciò è vero, come è vero, appare evidente che correttamente la
corte territoriale ha ricondotto il comportamento degli imputati,
consistito nelle reiterate minacce rivolte alla persona offesa
indicate nell’imputazione, al paradigma normativo dell’art. 610,
c.p., in quanto tale condotta era oggettivamente e
soggettivamente rivolta a costringere il Boughira ad accettare la
presenza degli imputati nella propria abitazione e ad impedirgli di

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ovvero l’attendibilità intrinseca del suo racconto, limitandosi, del

rientrare nella piena disponibilità del proprio appartamento,
condizioni che non gli avevano lasciato altra scelta che quella di
abbandonarlo, per trovare ospitalità presso un suo amico.
Parlare, pertanto, di conseguenze dirette o indirette dell’azione

ha alcun rilievo ai fini della configurabilità del delitto di cui all’art.
610, c.p.: le gravi minacce rivolte all’indirizzo del Boughira dagli
imputati hanno inciso, infatti, sotto diversi profili, sulla libertà di
determinazione e di azione della persona offesa, che, proprio in
quanto privata di tale libertà, ha abbandonato il suo
appartamento.
Infondato, infine, deve ritenersi anche il motivo di ricorso
riguardante la mancata concessione della sospensione
condizionale della pena, che la corte territoriale ha giustificato
sulla base di un giudizio negativo sulla personalità della El Rami,
fondato sulla reiterazione delle minacce, ritenute sintomo del
carattere non occasionale delle condotte medesime,
conformemente ai principi affermati in subiecta materia dalla
giurisprudenza di legittimità, secondo cui il giudice di merito, nel
valutare la possibilità di concedere la sospensione condizionale
della pena, non ha l’obbligo di prendere in esame tutti gli elementi
indicati nell’art. 133 cod. pen., ma può limitarsi, come nel caso in
esame, ad indicare quelli da lui ritenuti prevalenti (cfr. Cass., sez.
III, 17/11/2009, n. 6641, M., rv. 246184).
Peraltro, rispetto alla valutazione operata sul punto dalla corte
territoriale, le doglianze difensive si presentano come una censura
di merito, non consentita in sede di legittimità
Sulla base delle svolte considerazioni i ricorsi di cui in premessa
vanno, dunque, rigettati, con condanna di ciascuno dei ricorrenti, 4 )

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delittuosa degli imputati, come preteso dal ricorrente Hirat, non

ai sensi dell’art. 616, c.p.p., al pagamento delle spese del
procedimento.
P.Q.M.
rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese

Così deciso in Roma il 19.3.2013

processuali.

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